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Avvocati: va sanzionato chi chiama la collega "signora"

Togliere il titolo di avvocato integra una violazione deontologica. Il punto della giurisprudenza sull'illecito di cui all'art. 52 del codice deontologico


di Lucia Izzo - Pone in essere un comportamento disciplinarmente rilevante il professionista che, durante l'udienza, privi la collega del dovuto titolo di Avvocato (qualificandola semplicemente "signora") ed usi verso la stessa espressioni sconvenienti ed offensive, idonee ad incidere negativamente sulla dignità e sul prestigio dell'avvocato stesso e della classe forense.

Con tale motivazione il Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 28 dicembre 2006, n. 195, ha confermato la condanna della censura inflitta dal competente Consiglio dell'Ordine a un professionista, resosi responsabile di aver usato nei confronti di una collega, in udienza e anche al di fuori di questa, espressioni sconvenienti e offensive, privando la donna del dovuto titolo di avvocato.

Avvocati: no alle espressioni offensive e sconvenienti

La deontologia forense, infatti, impone all'avvocato di evitare l'uso di espressioni sconvenienti od offensive negli scritti in giudizio e nell'attività professionale in genere, sia nei confronti dei colleghi che nei confronti dei magistrati, delle controparti e dei terzi. La norma di riferimento è l'ex art. 20 del Codice Deontologico, oggi trasfuso nell'art. 52 del nuovo codice, rubricato "Divieto di uso di espressioni offensive e sconvenienti".
La norma vieta l'uso di "espressioni sconvenienti od offensive", e ciò a prescindere dalla rilevanza penalistica delle stesse (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 30 settembre 2013, n. 168).
La norma, va letta in combinato con l'art. 5, rubricato "Doveri di probità, dignità e decoro" (ora art. 9 NCDF) in base al quale "L'avvocato deve esercitare l'attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, decoro, diligenza e competenza", doveri che vanno rispettati anche al di fuori dell'attività professionale al fine di salvaguardare la propria reputazione e l'immagine della professione forense.
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Nessuna scriminante per provocazione e diritto di critica

Tali principi sono stati costantemente presi in considerazione dalla giurisprudenza non solo del Consiglio Nazionale Forense, ma anche di legittimità: di recente, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sentenza n. 11370/2016, ha chiarito che le espressioni sconvenienti od offensive non sono scriminate dalla provocazione altrui.

L'avvocato, secondo gli Ermellini, ha il dovere di comportarsi, in ogni situazione, con la dignità e con il decoro imposti dalla funzione che l'avvocatura svolge nella giurisdizione e deve in ogni caso astenersi dal pronunciare espressioni sconvenienti od offensive (art. 52 ncdf, già 20 c.d.f.), la cui rilevanza deontologica non è peraltro esclusa dalla provocazione altrui, né dallo stato d'ira o d'agitazione che da questa dovesse derivare, che al più, rileva ai soli fini della determinazione della sanzione.
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Per il Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 6 giugno 2015, n. 78, benché l'avvocato possa e debba utilizzare fermezza e toni accesi nel sostenere la difesa della parte assistita o nel criticare e contrastare le decisioni impugnate, tale potere/dovere trova un limite nei doveri di probità e lealtà, i quali non consentono di trascendere in comportamenti non improntati a correttezza e prudenza, se non anche offensivi, che ledono la dignità della professione. Ciò in quanto la libertà che viene riconosciuta alla difesa della parte non può mai tradursi in una licenza ad utilizzare forme espressive sconvenienti e offensive nella dialettica processuale, con le altre parti e il giudice, ma deve invece rispettare i vincoli imposti dai doveri di correttezza e decoro.
Peraltro, il divieto ex art. 52 del nuovo codice deontologico, è stato ritenuto sussistente dal Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 5 ottobre 2006, n. 76, non soltanto nei confronti nel collega avversario, ma anche nei confronti delle controparti.
Ancora, nella sentenza del 30 dicembre 2013, n. 219, il Consiglio Nazionale Forense ha precisato che, il giudice della disciplina ha completa libertà di effettuare pieno riesame delle espressioni utilizzate sotto il profilo deontologico, tenendo conto anche della condotta dell'incolpato nel suo complesso, di quella di chi lo accusa, nonché della potenzialità offensiva del comportamento del professionista in relazione alla sua ricaduta sul prestigio dell'intera classe forense.

Violazione esclusa se manca l'animus iniuriandi

Sempre la giurisprudenza disciplinare (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 29 novembre 2012, n. 168), esclude la violazione della norma deontologica se manca il necessario elemento soggettivo dell'animus iniuriandi, ossia quando non emerga alcun elemento indicativo della volontà dell'incolpato di esprimere apprezzamenti negativi in ordine alla personalità ed al patrimonio morale dell'esponente, rimanendo così nell'ambito dell'esercizio del diritto di critica che non travalica nel non consentito biasimo e nella censurabile deplorazione dell'operato del difensore di controparte (Nel caso di specie, peraltro, le espressioni de qua venivano pronunciate in un processo civile in cui il Giudice le aveva ritenute tutte collegate con la materia del contendere tanto da negarne la richiesta cancellazione).
Data: 02/08/2017 20:50:00
Autore: Lucia Izzo