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Indagine sul potere

Un'analisi giuridica, antropologica e filosofica sulle origini del modello sociale occidentale odierno


di Angelo Casella - Il nostro primo quesito travaglia da sempre giuristi, antropologi e filosofi: ovvero se il potere politico (corrispondente in sostanza alla autorità statale) risponda ad una esigenza innata nell'uomo, oppure sia frutto di una involuzione "culturale" maturata nel tempo.

Ci si chiede, in altri termini, se la soggezione ad un potere politico costituisca espressione di una esigenza vitale dell'uomo, così come - (seguito da Max Weber)- ritiene Nietzsche, (Al di là del bene e del male): "da quando l'uomo esiste, vediamo solo greggi dove un grande numero di uomini obbedisce ad un piccolo numero di Capi...per cui si deve presumere che in ogni uomo esista un bisogno innato di obbedire", (rieniamo però che questo giudizio subisca l' influenza di alcune tradizionali inclinazioni del suo popolo, del resto già rilevate da Tacito (De Germania).

A.- 1.- E' ovviamente preliminarmente necessario convenire su cosa si intende per "potere politico". La ricerca etnologica lo circoscrive a quella relazione sociale che si traduce in un rapporto di coercizione: l'essenza del potere è dunque la violenza.
Questa definizione indurebbe a concludere che, dove non esiste il rapporto "comando - obbedienza", non c'è potere politico e, quindi, non esiste società.
In realtà, non esistono società senza potere politico: esso è una necessità imprescindibile della vita collettiva nel senso che ogni società ha bisogno di regole di convivenza ma - e questo è il punto - il potere politico può essere coercitivo come pure non esserlo, e la differenza risiede nel modo in cui vengono adottate, quindi nel modello del sistema organizzativo sociale.
Vedremo in seguito come si realizza il potere politico non coercitivo e come esso meriti la qualifica di legittimo e frattanto specifichiamo - per chiarezza, poichè parleremo di società primitive - che, a differenza di Rousseau (Discorso sull'origine della diseguaglianza) riteniamo che la condizione dell'uomo primitivo fosse del tutto sociale.
2.- Ad avviso degli antropologi, e sulla base dell'esame critico dei fenomeni sociali nelle società primitive, (alcune ancora oggi presenti in alcune aree del globo), si confermerebbe una totale assenza di qualsiasi forma di potere politico innato (v. Lapierre, Saggio sul fondamento del potere politico). In altri termini, non è riconoscibile come connaturale all'uomo il modello di società gerarchica, guidata da un Capo dotato di un potere di comando. Quindi Nietzsche ha torto.

3.- Viene comunque sottolineato da costoro come la ricerca abbia altresì dimostrato che esistono organizzazioni sociali primitive nelle quali c'è un Capo, il quale peraltro risulta privo di ogni potere nei confronti degli altri membri della società e verso cui non è riconoscibile alcun rapporto gerarchico. Una sorta di guida morale, dunque, e nulla più.
In queste società, nessuno dà ordini e nessuno si aspetta che qualcuno obbedisca, in quanto non è individuabile e neppure concepito alcun rapporto di subordinazione nei confronti del Capo. Tutto ciò da un lato conferma l'affermazione per la quale la società, come tale, ha comunque bisogno di regole e, dall'altro, che - affiché esista una società - non è inderogabilmente necessario un potere politico coercitivo.
4.- Qualcuno peraltro introduce un elemento per così dire "economico" che si inserirebbe in misura determinante nella distinzione concettuale tra gruppi sociali "con o senza potere politico" (inteso questo come coercitivo). La notazione ha per evidente scopo di rafforzare l'idea che una società "normale" necessita di una organizzazione gerarchica.
Si vorrebbero così separare le società qualificate come "primitive" e senza storia, (ad esempio i "selvaggi" del bacino amazzonico, gli irochesi, certi gruppi sociali africani, abitanti della Siberia, ecc.), dalle società così dette "evolute" o "storiche".
Le prime (implicitamente qualificate come arretrate e retrograde) sarebbero caratterizzate da una economia di mera "sussistenza", mentre le altre, dotate di adeguata tecnologia, si dimostrerebbero in grado di costituire delle riserve, delle scorte, che consentirebbero loro di dedicare energie essenziali alla "evoluzione".
La distinzione sembra fondata più su un certo etnocentrismo del pensiero occidentale che su valide fondamenta logiche.
5.- Qualcuno (Levi-Strauss, Razza e Storia) obbietta subito come non sia corretto classificare come "immobili e senza storia" delle società con prospettive diverse da quelle occidentali. Società che non adottano l'economia di mercato (fatta per assorbire il surplus prodotto) e con un assetto diverso, non per questo sono, per definizione, inferiori alle altre.

In effetti, la connotazione implicitamente negativa assegnata alla economia di sussistenza è del tutto arbitraria. Per le società in discorso, l'accumulo di beni di sussistenza non rappresenta un obbiettivo desiderato in quanto semplicemente non soddisfa bisogni reali, ed è direttamente in relazione a questi ultimi, che esse esercitano le loro capacità. Le scorte per esse non sono un valore.
D'altronde, nella sua storia, l'uomo ha dimostrato che, quando gli serviva una certa "tecnologia" per raggiungere una data finalità, è sempre riuscito ad acquisirla. D'altronde, il valore di una tecnologia risiede appunto nella sua utilità, cioè nella capacità di soddisfare le effettive necessità della società che se ne dota, in funzione delle scelte che si prefigge.
6.- a. E' poi da notare che, mentre nelle società "evolute" o "storiche" l'impegno richiesto all'uomo per "soddisfare" le esigenze del vivere occupa la quasi totalità del suo tempo, gli antropologi ci informano che in quelle primitive, le ore dedicate a soddisfare le esigenze vitali è di circa 4 ore giornaliere e che le energie rimaste vengono dedicate ad attività considerate piacevoli. Il "selvaggio" impiega dunque di fatto assai poco tempo nelle attività produttive e ciò significa che, in teoria, potrebbe "produrre" di più. Ma questo non gli interessa, perché non gli è necessario, nè utile. Non vi è ragione di creare eccedenze e quindi di lavorare più di quanto strettamente indispensabile.
Ciò avviene invece nelle nostre società, perché - in ragione della diversa struttura - viene imposta la soddisfazione di esigenze altrui, non di quelle proprie. Non per far vivere chi lavora, bensì chi "comanda", in funzione della esistenza di determinate gerarchie sociali: economiche, politiche e religiose.
Nelle società primitive, l'uomo produce quanto gli è necessario per vivere, nelle moderne, ciò che gli viene – direttamente o indirettamente – ordinato, da chi intende fruirne per il proprio vantaggio.
La nostra società odierna è basata su articolati meccanismi di potere che condizionano le scelte e gli indirizzi del singolo.
Ora, la nascita del potere è certo assai lontana nel tempo e le sue origini sono probabilmente da ricercare nell'accumulo della ricchezza e nei meccanismi che questo fenomeno ha alimentato. Si tratta comunque di un fenomeno di fondamentale rilevanza nella società e che è sicuramente interessante cercare di indagare per comprenderne le radici e le motivazioni.

Abbiamo detto dunque che esistono società dotate di una potere politico non coercitivo ed altre invece caratterizzate da quest'ultimo.
Vedremo se può riconoscersi un cammino storico che possa aver condotto le prime a trasformarsi nelle seconde, non senza tenere presente che il problema della tipologia del potere politico è, nelle società di oggi, del tutto distinto dalla loro ormai diffusa caratteristica organizzazione gerarchica.
6.- b. Sul piano metodologico è da chiarire che lo schema di fatto dal quale cercheremo di trarre le opportune deduzioni teoriche in ordine alla comprensione del potere politico, è del tutto astratto. Non appartiene cioè all'esperienza storica dell'umanità.
Il solo caso storico conforme al nostro modello teorico è quello della Roma delle origini, nata dalla aggregazione di individui adulti eguali, cioè privi tra loro di relazioni gerarchiche. Una situazione certamente unica che ha consentito peraltro il formarsi di un fenomeno di fondamentale importanza per tutto il pianeta: la nascita del Diritto (e della figura del Magistrato indipendente, in luogo della discrezionalità del Capo), che ha potuto sorgere e svilupparsi per l'appunto sulla base della perfetta eguaglianza dei soggetti coinvolti.
7.- Comunque, per accedere al criterio della distinzione tra società "storiche" (quelle "vere" per alcuni antropologi) e quelle che non lo sono, bisognerebbe preliminarmente definire cosa si intende per Storia e quali ne debbano essere i contenuti per un gruppo sociale (quasi che geneticamente esista un "compito" da svolgere).
8.- E' così da rimarcare che l'evento il quale ha cambiato le società primitive trasformandole nelle c.d. "evolute" è la nascita del fenomeno del potere dell'uomo sull'uomo, assolutamente del tutto ignoto nelle società primitive (circostanza che induceva Rousseau a giudicare la condizione primordiale dell'uomo incomparabilmente superiore all'attuale).
Ora, riteniamo di poter affermare che questo fenomeno si basa su tre pilastri: la ricchezza privata ed il suo espandersi incontrollato, un certo tipo di potere politico e il potere religioso.

9.- Il primo di questi sorge indubbiamente con il verificarsi di un accadimento che si qualifica subito come anomalo nel contesto delle società primitive: uno o più membri del gruppo stabiliscono un rapporto esclusivo con una porzione di un oggetto di interesse comune: il terreno fertile, attuando così una privatizzazione delle risorse collettive.
Un atto che è immediatamente classificabile come asociale e che la collettività, in condizioni normali, non può tollerare, perché disgregativo e quindi contrario alla sua stessa ragion d'essere.
Inoltre, nel contesto sociale, apparirebbe un gesto del tutto privo di senso e di scopo e non verrebbe accettato: si tratta, nella sostanza, di una negazione del rapporto sociale, che riuscirebbe aliena allo stesso singolo.
10.- a.- In un contesto quindi nel quale ogni fattore è del tutto contrario, è da chiedersi come abbia potuto egualmente formarsi e con quali motivazioni e finalità.
E' certo che ogni cambiamento nei modi di sussistenza (caccia, raccolta o agricoltura) non può aver avuto dirette conseguenze sulla organizzazione sociale. Parimenti improbabile che ciò sia avvenuto - come sostiene qualcuno - a seguito della crescita demografica.
Come dunque si è potuto verificare questo fenomeno che è di per sè antisociale e che, come tale, in condizioni normali il gruppo (ed anche lo stesso singolo) avrebbero rifiutato?
Con queste premesse, è da ritenere che esso possa costituire soltanto l'esito di un intervento esterno alla società e, in particolare, di una guerra.

E' ipotizzabile che il gruppo vincitore possa aver stabilito un rapporto di dominio imponendo una propria sovranità sui terreni degli sconfitti ed obbligando quindi questi ultimi a lavorarli ed a rinunciare ad una parte dei frutti del loro lavoro sui campi. Un lavoro di necessità complessivamente accresciuto rispetto allo stato precedente, onde compensare la quota perduta e consegnata ai vincitori.
Questa è la probabile origine della proprietà individuale e della conseguente separazione in classi del corpo sociale.
E' ragionevole supporre anche che, in alcuni casi (ma non per i Romani) il popolo vinto sia stato trasformato in una casta inferiore, costretta a subire il dominio dei vincitori.
Riteniamo che proprio la nascita della proprietà privata abbia determinato una profonda modifica della struttura sociale dalle sue fondamenta. Il potere entra nella società "evoluta"per costituirne elemento essenziale inscindibile e viene a rappresentare una nuova realtà, destinata ad incidere profondamente sul suo modello di convivenza e sul suo sviluppo.
La differenza degli strati sociali ha indubbiamente favorito la formazione di una società ad impronta gerarchica, terreno ideale di coltura per un sistema politico autoritario.
Di questo stesso parere è anche Durkeim (Le regole del metodo sociologico), per il quale il potere politico presuppone la diseguaglianza sociale.
b.- Con la nascita della proprietà individuale si innesca un processo di profonda trasformazione nella società, che viene ad interessare non solo i rapporti intersoggettivi ma il modello stesso della convivenza collettiva e quello specifico dei singoli membri.

Quanto al primo, si produce una caratteristica frattura, nella pur granitica unita' e solidarieta' primitiva, fra i membri del gruppo, tra coloro che posseggono delle risorse e coloro che non ne hanno.
Quanto al secondo, poiché l'amalgama sociale è sostituito da una separazione e distinzione, questa condurra' a rendere i singoli membri focalizzati su se stessi, sostanzialmente soli, con un compito immanente da svolgere: trovare un lavoro e imporsi con esso.
Senza questa "affermazione" il singolo rischia di morire di fame poiché non vi sono risorse "libere" e disponibili da utilizzare. Sul piano pratico, quindi, ogni membro del gruppo viene ad avere davanti a sè un percorso del tutto personale di vita e di lavoro, che è in qualche modo obbligato dal contesto.
Non più coinvolto nella vita del gruppo e nei lavori collettivi, il singolo si induce a vendere il lavoro proprio, offrendo servizi e beni a chi è in grado di pagarli. Nascono così sia le figure inedite dell'artigiano e del bracciante (e poi dell'impiegato) sia il fenomeno dello scambio, che a sua volta da origine all'ampio meccanismo del mercato, con gli sviluppi che conosciamo, sopratutto per quanto attiene alla tendenza, per alimentarlo, alla produzione, spinta dall'avidità, di eccedenze sempre maggiori, .
Nasce la ricchezza, ossia l'accumulo delle risorse, e con essa, il potere che ne deriva e la conseguente differenziazione nella società. Un potere destinato a cambiare per sempre l'uomo ed il modello sociale.
I cambiamenti non si arrestano alla struttura della società, ed al modello di vita dell'uomo, ma toccano anche la più intima essenza di quest'ultimo.
Egli risponde agli stimoli che rileva dal nuovo ambiente in cui si trova a vivere, ponendosi delle finalità esistenziali basate sull'efficienza, sulla dimostrazione di sè e delle proprie capacità.

Egli deve in qualche modo vendere sè medesimo e la sua immagine nel modo migliore, deve imporla, deve "affermarsi", in un mondo dove il confronto e la competizione sono divenuti la regola. Nell'uomo si formano l'egoismo ed il cinismo ed atteggiamenti legati all'avidità che inquinano irreversibilmente le innate qualità della solidarietà e della disponibilità reciproca.
Più o meno velocemente, l'uomo è alienato dalla condizione di dipendenza che viene ad avere dal mondo esterno. Non più lui stesso, ma quest'ultimo diventa il suo punto di riferimento. (E ciò potrebbe spiegare in parte il generico atteggiamento di contestazione e di rifiuto diffuso nelle nuove generazioni).
Già Rousseau (Op. cit.) scriveva:"Gli uomini sanno essere felici e soddisfatti di sè in base alla testimonianza altrui, piuttosto che alla propria. Non sanno vivere che nell'opinione degli altri, ed è unicamente dal loro giudizio che derivano il senso della loro esistenza. Riducendosi così ogni cosa alle apparenze, tutto diviene fittizio e simulato: onore, amicizia, virtù. Tutto è apparenza, ingannevole e frivola".
B.- 1.- Vediamo ora specificatamente il potere politico. Per alcuni vi è la possibilità che il rapporto del gruppo con il "capo" occasionalmente scelto per specifiche competenze, possa essersi trasformato in una relazione di potere, (una sorta di consolidamento), in dipendenza di situazioni eccezionali prolungate nel tempo, come uno stato di guerra irrisolto con dei popoli vicini.
Altri attribuiscono all'espansione demografica un effetto mutageno della società primitiva nel senso dell'emergere progressivo di un sistema di potere dei "capi" in correlazione all'ampliamento della base sociale.
Questa spiegazione "quantitativa" appare peraltro poco convincente in ragione della natura essenzialmente qualitativa e profonda del passaggio da una società libera ad un'altra regolata da un sistema di potere. Rimaniamo del parere che il potere politico autoritario trovi la sua origine nella nascita della proprietà privata e nella differenziazione sociale conseguente.
2.- Invece, una lettura giuridica del fenomeno consente un avvicinamento al concetto di potere politico nella sua dimensione astratta, ripulita da interferenze concettuali "esterne", cogliendone caratteristiche e limiti.

a.- Ipotizziamo allora un gruppo di pescatori che esercitano nello stesso laghetto. Ben presto costoro si avvedono che, accedendo liberamente, la risorsa ittica verrà ben presto perduta per tutti.
Per conservare l'oggetto dell'interesse comune e, sopratutto, far sì che tutti possano fruirne, viene promosso un accordo. (rileva notare che questo interesse comune è il tessuto connettivo dei concorrenti all'accordo e ne consente una visione "unitaria").
Sul piano volitivo, in tale accordo non esistono "controparti", ma "conparti": le volontà concorrono, in quanto vertono sullo stesso oggetto.
Si forma così una volontà collettiva in base alla quale vengono stabiliti dei limiti eguali per tutti alla attività di pesca.
Ognuno, in tale accordo, ha veste di parte (come potenziale titolare di una piena libertà d'azione) e di controparte (come elemento del gruppo). Pertanto la sua volizione viene ricompresa pro quota (per tutti eguale) nella personalità degli altri e, quindi, anche in lui medesimo, dove peraltro, si trasforma in un obbligo, corripondendo alla accettazione di una disciplina d'agire.
La titolarità parziaria del diritto a che i compartecipanti tengano il prefisso comportamento, comporta infatti, per ciascuno, l'obbligo allo stesso.
Nasce in tal modo la regola, ossia un vincolo per la libertà d'agire di ogni partecipante all'accordo, cui è contrapposto il diritto del gruppo, unitariamente considerato, alla osservanza delle regole. L'assunzione dell'obbligo per ogni singolo trova, nell'ambito della volontà collettiva, il suo fondamento nella correlativa assunzione a carico degli co-utenti.

b.- In questa volontà collettiva, cioè nell'accettazione comune del vincolo, risiede la legittimazione alla coercizione, cioè al potere sociale o politico.
Nella società, l'accordo normativo (sempre più ipotetico oggi, come tale...) è la legge ed il potere politico trova la sua base in questa volontà collettiva di gestire l'interesse comune della convivenza.
Nella sua espressione normale e legittima, dunque, questo potere non ha quelle caratteristiche impositive che qualche studioso gli attribuisce.
La vicenda dei pescatori riesce dunque esemplificativa del percorso di formazione della società, come collettività organizzata.
3.- Rimane comunque da chiarire come e su quali fondamenta il popolo abbia in molti casi accettato un potere non legittimo, ossia di dominio, in contrasto con il naturale, innato, istinto di libertà dell'uomo.
Appare plausibile che il potere pubblico come dominio sia stato facilitato dai mediatori del divino, dai sacerdoti. La figura del re-dio è fenomeno frequente nell'esperienza umana: ne troviamo esempi presso gli egizi, i giapponesi, i cinesi, gli Inca, il Sacro Romano Impero, ecc. Qui non siamo più nel campo delle ipotesi, ma di una effettiva esperienza vissuta dalla umanità. Ancora oggi, d'altronde, Israele ha come costituzione il Talmud, ossia un testo sacro.
Colui che convince il gruppo sociale di essere direttamente in contatto con la divinità, del cui potere, imperscrutabile ed assoluto, è in qualche modo agente e depositario, acquisisce una enorme ed indiscussa autorità su tutta la collettività in misura da fare propria la dimensione morale idonea a rivestire il ruolo del Capo che detta regole e comandi a proprio piacimento, in quanto è gabellata una loro provenienza dal sommo ed intoccabile potere divino.
Qualora possa acquisire rilevanza, può ancora essere oggetto di indagine se il potere economico abbia precorso quello politico-dispotico.
Data: 06/11/2016 12:00:00
Autore: Angelo Casella