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Compiti a casa: sono davvero utili? L'opinione della psicologa

I nostri figli hanno diritto al tempo libero e al riposo che può anche facilitare il percorso di apprendimento


di Laura Tirloni - Si discute molto di questi tempi sull'opportunità o meno di assegnare i compiti a casa ai bambini e ragazzi delle scuole elementari e medie durante i periodi di festa o anche solo nei weekend (ndr. il tema è stato oggetto anche di un sondaggio nelle pagine di questo quotidiano: "Basta con i compiti per le vacanze: violano i diritti umani").
Sembrano così essersi create due opposte fazioni: da un lato i sostenitori dei compiti, secondo i quali lavorare con disciplina a casa per consolidare ciò che viene appreso a scuola non ha mai fatto male a nessuno e dall'altro, coloro che al contrario pensano che i momenti di pausa dallo studio siano "sacri" e intoccabili, oltreché estremamente utili per ricaricarsi o semplicemente per dedicarsi ad altro che non sia lo studio.
A schierarsi contro i compiti a casa (quando questi vengono assegnati per essere svolti durante le vacanze) è il Professor Maurizio Parodi, scrittore e dirigente scolastico. Egli afferma con chiarezza che sono inutili e dannosi e lo dimostra il fatto che "gli alunni italiani ne fanno molti ma hanno un tasso di analfabetismo altissimo rispetto ai coetanei europei".

In un suo intervento su La Stampa Parodi evidenzia che i compiti per le vacanze sono "una contraddizione in termini, un assurdo logico. Le vacanze dovrebbero essere per definizione dedicate al riposo, si chiamano così proprio perché liberano dagli affanni feriali. Nessuna categoria di lavoratori accetterebbe di prolungare il lavoro nel tempo libero o durante le ferie. Invece è del tutto normale che a questa assurda pretesa si debbano assoggettare gli studenti".

E sulla stessa linea si è schierato anche il pediatra Italo Farnetani che, a proposito dei compiti per le vacanze, parla, senza mezzi termini, di "ore rubate alle vacanze, all'attività fisica all'aperto, al relax e al tempo trascorso con gli amici".

Ma quale può essere il contributo della psicologia rispetto a questa questione che talvolta assume i connotati di una vera e propria diatriba?

Gli studi psicologici ci dicono che l'apprendimento è un processo particolarmente complesso che coinvolge aspetti cognitivi, ma anche emotivi e psicologici. Avete mai provato a studiare quando siete preoccupati o angosciati per qualcosa? Se sì, avrete senza dubbio notato come la concentrazione venga messa a dura prova dalle componenti affettive, che interferiscono inevitabilmente con la possibilità di apprendimento. Non a caso, un peggioramento del rendimento scolastico è spesso uno dei primi campanelli d'allarme che può segnalare la presenza nel giovane studente di un disagio psicologico o di problematiche di vario genere, spesso legate al contesto familiare.

Allo stesso modo, i processi cognitivi di attenzione, concentrazione, analisi, memorizzazione e rievocazione coinvolti nel processo di apprendimento possono essere positivamente influenzati dalle componenti emotive. Ad esempio, sarà sicuramente più facile apprendere un concetto teorico se questa fase viene affiancata da un'esperienza pratica, che coinvolga tutti i sensi.

Quello a cui tuttavia spesso si assiste all'interno della realtà scolastica pubblica italiana (ma non solo in quella pubblica) è un rigido ancoraggio al programma ministeriale, per cui gli insegnanti sono tenuti a raggiungere tutta una serie di obiettivi didattici che inevitabilmente comportano il dover mettere in secondo piano la cura e la crescita della persona nella sua globalità. La centratura sul programma porta inoltre gli insegnanti a non prestare la giusta attenzione alle dinamiche relazionali che si instaurano all'interno della classe, con conseguente proliferazione di episodi di bullismo ed emarginazione.

In passato si pensava che il bambino fosse una specie di contenitore vuoto da riempire di conoscenze e nozioni. Oggi sappiamo che non è così e che ogni bambino nasce con un suo preciso bagaglio temperamentale con il quale fa esperienza del mondo e interagisce con gli altri. Ogni bambino ed ogni ragazzo è un universo a sé, porta in sé un'unicità emotiva, psicologica ed esperienziale di cui la scuola dovrebbe, almeno in parte, farsi carico.

Al contrario, quello a cui troppo spesso si assiste nella realtà scolastica di oggi è che ci sono tanti insegnanti della materia, ma pochi maestri di vita, e mentre si corre verso l'agognata meta del portare a termine il programma didattico, si perdono di vista i processi e il piacere dell'apprendere. Così come in famiglia, anche a scuola un giovane porta tutto il suo carico di interrogativi, dubbi e paure riguardo alla vita, che dovrebbe trovare uno spazio di accoglimento, di ascolto e di confronto da parte dell'adulto. Ma così non è.

All'interno di quest'ottica, anche i compiti a casa assumono il solo ruolo di assicurare, velocizzare e consolidare il raggiungimento degli obiettivi didattici, senza considerare che gran parte delle cose che nella vita ci torneranno utili si apprendono dalla vita stessa, più che sui banchi, più che sui libri di testo.

Ecco perché dopo le ore passate tra le quattro mura della scuola un bambino ha diritto al suo tempo libero, per inventarsi un gioco o per annoiarsi, se crede. Un tempo libero per essere creativo, per coltivare le proprie passioni, lo sport, le relazioni con gli amici, con la famiglia e per tornare a scuola il giorno dopo con il rinnovato piacere di sedersi ad un banco ed aprire un libro.

Leggi anche: "Basta con i compiti per le vacanze: violano i diritti umani" e vota il sondaggio

Data: 19/11/2016 17:00:00
Autore: Laura Tirloni