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La fusione di comuni

Analisi dell'istituto tra innovazione legislativa e giurisprudenza costituzionale


Prof. Luigino Sergio - Nel 1990 la legge 8 giugno 1990, n. 142, Ordinamento delle autonomie locali, aveva previsto un forte legame tra l'istituto dell'Unione di comuni e quello della fusione di Comuni, per il fatto che l'Unione di comuni era preordinata alla successiva fusione tra i Comuni aderenti all'Unione medesima.

Dall'Unione di comuni all'obbligo della fusione

Il passaggio dall'Unione alla fusione di Comuni era stato introdotto nel nostro ordinamento con la suddetta legge n. 142/19902, il cui art. 26, rubricato Unioni di Comuni, prevedeva che due o più Comuni contermini, appartenenti alla stessa provincia, ciascuno con popolazione non superiore a 5.000 abitanti, potevano costituire un'Unione per l'esercizio di una pluralità di funzioni o di servizi, ma solo «in previsione di una loro fusione»; il suddetto art. 26, prevedeva al comma 6 che «entro dieci anni dalla costituzione dell'Unione deve procedersi alla fusione, a norma dell'art. 11. Qualora non si pervenga alla fusione, l'Unione è sciolta» e che nel caso la Regione dovesse erogare contributi aggiuntivi rispetto a quelli normalmente previsti per i singoli Comuni «dopo dieci anni dalla costituzione, l'Unione di comuni viene costituita in Comune con legge regionale, qualora la fusione non sia stata deliberata prima di tale termine su richiesta dei Comuni dell'Unione».

In seguito, la legge n. 142/1990 è stata modificata dalla legge "Napolitano-Vigneri", L. 3 agosto 1999, n. 265, Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno 1990, n. 142 che all'art. 6, fra l'altro, ha modificato l'istituto dell'Unione di comuni, determinandolo come fattispecie di gestione associata di funzioni e non più come modello organizzativo necessariamente prodromico alla fusione di Comuni; fusione di comuni che rimaneva nella legislazione di riferimento un istituto importante, atteso che l'art. 26-bis della L. n. 142/1990 per favorire il processo di riorganizzazione sovracomunale dei servizi, delle funzioni e delle strutture, prevedeva che le Regioni dovevano provvedere a disciplinare, con proprie leggi le forme di incentivazione dell'esercizio associato delle funzioni da parte dei Comuni, con l'eventuale previsione nel proprio bilancio di un apposito fondo.

A tale fine, le Regioni, nella disciplina delle incentivazioni dovevano favorire il massimo grado di integrazione tra i Comuni, graduando la corresponsione dei benefici in relazione al livello di unificazione, rilevato mediante specifici indicatori con riferimento alla tipologia ed alle caratteristiche delle funzioni e dei servizi associati o trasferiti, in modo tale da erogare il massimo dei contributi nelle ipotesi di massima integrazione, oltre a prevedere, in ogni caso, una maggiorazione dei contributi nelle ipotesi di fusione e di Unione, rispetto alle altre forme di gestione sovracomunale e promuovere le Unioni di comuni, senza alcun vincolo alla successiva fusione, prevedendo, comunque, ulteriori benefici da corrispondere alle Unioni che autonomamente deliberino, su conforme proposta dei Consigli comunali interessati, di procedere alla fusione.

Le Regioni, inoltre, dovevano predisporre, concordandolo con i Comuni nelle apposite sedi concertative, un programma di individuazione degli ambiti per la gestione associata sovracomunale di funzioni e servizi, realizzato anche attraverso le Unioni che poteva prevedere, altresì, la modifica di circoscrizioni comunali e i criteri per la corresponsione di contributi e incentivi alla progressiva unificazione; programma che doveva essere aggiornato ogni tre anni, tenendo anche conto delle Unioni di comuni costituite.

Le modificazioni del territorio comunale

L'assetto territoriale di un Comune può essere fatto oggetto di modificazioni, non solo con la fusione di comuni, ma anche a seguito di fatti tutelati dall'ordinamento.

Può accadere, infatti, vi sia distacco di una o di più frazioni da un Comune, con contestuale aggregazione ad un altro Comune contermine; oppure vi sia un ampliamento territoriale di un Comune, a discapito del territorio di un altro Comune contermine.

Appare opportuno accennare, inoltre, alla materia concernente la determinazione, rettifica e contestazione dei confini, disciplinata dal T.U. n. 383/1934, art. 32, il quale disponeva che: «qualora il confine fra due o più Comuni non sia delimitato da segni naturali facilmente riconoscibili o comunque dia luogo a incertezze, ne può essere disposta la determinazione ed eventualmente la rettifica su domanda dei Podestà ovvero di ufficio. I confini fra due o più Comuni possono essere rettificati per ragioni topografiche o per altre comprovate esigenze locali, quando i rispettivi Podestà ne facciano domanda e ne fissino d'accordo le condizioni».

La determinazione, rettifica e contestazione di confini è trattata anche dal d.p.r. n. 1/1972, all'art. 1, lett. d); la prima ovvero la determinazione di confini si rende necessaria quando il limite tra due o più Comuni non sia definito da segni naturali che evitino qualunque incertezza in merito e si definisce apponendo i segni necessari su richiesta dei Consigli comunali; la rettifica dei confini si ha nel caso sia necessario rivedere i confini di due Comuni anche per ragioni locali inerenti, ad es., la costruzione di una infrastruttura pubblica, nel vicendevole interesse dei Comuni contermini, su richiesta dei Consigli comunali dei Comuni interessati; la contestazione di confini si riscontra quando due Comuni ritengano di avere entrambi un diritto sulla medesima parte di territorio e di conseguenza sia fondamentale, per dirimere la questione, appurare lo status quo.

La contestazione dei confini è disciplinata dall'art. 267, T.U. n. 283/1934, il quale disponeva che: «i ricorsi per contestazioni di confini fra Comuni e Province sono decisi con decreto del Presidente della Repubblica, udito il Consiglio di Stato.

Contro il provvedimento è ammesso il ricorso, anche in merito, al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, ovvero il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica».

I ricorsi per contestazioni di confini fra Comuni e Province sono decisi con decreto del Presidente della Repubblica, udito il Consiglio di Stato.

Contro il provvedimento è ammesso il ricorso, anche in merito, al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, oppure il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e la materia è di competenza della Regione che può delegare le Province, come nel caso della Regione Lombardia (l.r. n. 52/1973) e della Regione Lazio (l.r. n. 70/1980); salvo il caso di contestazioni di confini tra Comuni appartenenti a Regioni differenti, la cui competenza è dello Stato.

La fusione di comuni

L'istituzione di un nuovo Comune a seguito del processo di fusione, inteso quale risultato della soppressione di più Comuni preesistenti o dell'incorporazione di un Comune in un altro già esistente, è sottoposta dalla Costituzione a differente disciplina a seconda dell'appartenenza o meno dei Comuni interessati alla medesima Regione.

Qualora i Comuni che vogliano fondersi appartengano a Regioni differenti, occorre fare riferimento all'art. 132, comma 2 Cost. il quale dispone che: «si può, con l'approvazione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Provincie e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un'altra».

In tale ipotesi l'art. 132, comma 2, Cost., assegna alla legge statale «sentiti i Consigli regionali», la competenza a disciplinare il fenomeno del passaggio di Comuni (o Province) che ne facciano richiesta, da una Regione ad un'altra, con l'approvazione «espressa mediante referendum» della maggioranza delle popolazioni del Comune o dei Comuni interessati.

La fusione di Comuni appartenenti alla medesima Regione, ma che sono ricompresi in Province differenti, rientra infine nel campo di applicazione dell'art. 133, comma 1 Cost. che assegna alla potestà legislativa statale l'istituzione e la determinazione delle circoscrizioni provinciali.

Nel caso di Comuni che intendano fondersi appartenenti ad una medesima Regione, si versa nella situazione prevista dall'art. 133, comma 2, il quale prevede che: «la Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni».

Se ne deduce che, in tale caso, il potere di istituire un nuovo Comune appartenga alla Regione: «sentite le popolazioni interessate».

L'art. 117 Cost., dispone che alle Regioni è conferita potestà legislativa esclusiva in tema di circoscrizioni comunali; mentre l'art. 133, comma 2 Cost. evidenzia due principi importanti concernenti l'istituzione di nuovi Comuni: il primo riguardante la riserva di legge regionale e non più semplici provvedimenti amministrativi come avveniva nel passato; il secondo l'obbligo di consultazione delle popolazioni interessate finalizzata all'ottenimento del necessario consenso dei soggetti interessati.

Antecedentemente all'approvazione della L. n. 142/1990, il d.p.r. n. 616/1977, all'art. 16, rubricato Circoscrizioni comunali, comma 3, disponeva che: «fino all'entrata in vigore della legge sulle autonomie locali non possono essere istituiti nuovi Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti»; mentre nel recente passato le modificazioni territoriali erano disciplinate dall'art. 11, della L. n. 142/1990, rubricato modificazioni territoriali, fusione ed istituzione di Comuni, il quale prevedeva che l'istituto della fusione era l'unico modo di istituire Comuni che avessero la popolazione inferiore a 10.000 abitanti o che la cui costituzione comportasse, come conseguenza, che altri Comuni scendessero sotto tale limite demografico, visto l'inciso presente nel medesimo art. 11 che faceva salvi i casi di fusione.

Le Regioni potevano modificare le circoscrizioni comunali dei Comuni nelle forme previste dalla legge regionale «sentite le popolazioni interessate» ed avevano anche il dovere di predisporre un apposito programma di modifica delle circoscrizioni comunali e di fusione dei Piccoli Comuni e di aggiornarlo «ogni cinque anni, tenendo anche conto delle Unioni costituite ai sensi dell'art. 26».

Alla legge regionale istitutiva di nuovi Comuni mediante fusione era rimesso il compito di prevedere adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi alle comunità di origine o ad alcune di esse.

Veniva disciplinata la fusione di Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti anche con Comuni aventi popolazione superiore e quella di due o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.

Nel primo caso (fusione di Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti anche con Comuni aventi popolazione superiore) lo Stato era tenuto ad erogare, oltre agli eventuali contributi della Regione, appositi contributi straordinari, per i dieci anni successivi alla fusione stessa, parametrati ad una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli Comuni che si fondono; nel secondo caso (fusione di due o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti) i contributi straordinari venivano calcolati per ciascun Comune.

Qualora avvenisse la fusione di uno o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti con uno o più Comuni di popolazione superiore, i contributi straordinari venivano calcolati solo per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti e venivano iscritti nel bilancio del Comune istituito a conclusione del procedimento di fusione, con l'obbligo di destinare non meno del 70 per cento per le spese concernenti esclusivamente il territorio ed i servizi prestati all'interno del territorio dei Comuni soppressi che avevano popolazione inferiore a 5.000 abitanti.

A decorrere dal 6 maggio 2014 le modificazioni territoriali sono regolate dal novellato art. 15 del d.lgs. n. 267/2000, il quale dispone che: «1. A norma degli articoli 117 e 133 della Costituzione, le Regioni possono modificare le circoscrizioni territoriali dei Comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale. Salvo i casi di fusione tra più Comuni, non possono essere istituiti nuovi Comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri Comuni scendano sotto tale limite. 2. I Comuni che hanno dato avvio al procedimento di fusione ai sensi delle rispettive leggi regionali possono, anche prima dell'istituzione del nuovo ente, mediante approvazione di testo conforme da parte di tutti i Consigli comunali, definire lo statuto che entrerà in vigore con l'istituzione del nuovo Comune e rimarrà vigente fino alle modifiche dello stesso da parte degli organi del nuovo Comune istituito. Lo statuto del nuovo Comune dovrà prevedere che alle comunità dei Comuni oggetto della fusione siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi. 3. Al fine di favorire la fusione dei comuni, oltre ai contributi della Regione, lo Stato eroga, per i dieci anni decorrenti dalla fusione stessa, appositi contributi straordinari commisurati ad una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli Comuni che si fondono. 4. La denominazione delle borgate e frazioni è attribuita ai Comuni ai sensi dell'articolo 118 della Costituzione dopo aver ribadito che: «a norma degli articoli 117 e 133 della Costituzione, le Regioni possono modificare le circoscrizioni territoriali dei Comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale» dispone che: «salvo i casi di fusione tra più Comuni, non possono essere istituiti nuovi Comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri Comuni scendano sotto tale limite».

L'innovazione giuridica dell'istituto della fusione nella legge Delrio

La L. 7 aprile 2014, n. 56, Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni (cd. legge Delrio), introduce nell'ordinamento nuove regole concernenti la fusione di comuni, con l'art. 1, commi 109 ss..

In tema di fusione, la suddetta L. n. 56/2014, prevede che per il primo mandato amministrativo, agli amministratori del nuovo Comune nato dalla fusione di più comuni cui hanno preso parte comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti si applicano le disposizioni in materia di ineleggibilità, incandidabilità, inconferibilità e incompatibilità previste dalla legge per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti e che in caso di fusione di uno o più Comuni, il Comune risultante dalla fusione adotta uno statuto che può prevedere anche forme particolari di collegamento tra il nuovo Comune e le comunità che appartenevano ai Comuni oggetto della fusione fermo restando ciò che è previsto dall'art. 16 del TUEL ovvero che nei comuni istituiti mediante fusione di due o più comuni contigui lo statuto comunale può prevedere l'istituzione di municipi nei territori delle comunità di origine o di alcune di esse.

Nel caso in ci i Comuni risultanti da una fusione istituiscano municipi, possono mantenere tributi e tariffe differenziati per ciascuno dei territori degli enti preesistenti alla fusione, non oltre l'ultimo esercizio finanziario del primo mandato amministrativo del nuovo comune.

La legge Delrio sostituisce il comma 2 dell'art. 15 del TUEL, contenente la previsione che i Comuni che hanno dato avvio al procedimento di fusione ai sensi delle rispettive leggi regionali possono, anche prima dell'istituzione del nuovo ente, mediante approvazione di testo conforme da parte di tutti i Consigli comunali, definire lo statuto che entrerà in vigore con l'istituzione del nuovo Comune e rimarrà vigente fino alle modifiche dello stesso da parte degli organi del nuovo comune istituito, dovendo lo statuto del nuovo Comune prevedere che alle comunità dei Comuni oggetto della fusione siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi.

Il comma 3 dell'art. 15 del TUEL, così modificato dall'art. 12, comma 1, del d.l. 6 marzo 2014, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 maggio 2014, n. 68, prevede che «al fine di favorire la fusione dei comuni, oltre ai contributi della Regione, lo Stato eroga, per i dieci anni decorrenti dalla fusione stessa, appositi contributi straordinari commisurati ad una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli comuni che si fondono».

I Comuni istituiti a seguito di fusione possono utilizzare i margini di indebitamento consentiti dalle norme vincolistiche in materia a uno o più dei Comuni originari e nei limiti degli stessi, anche nel caso in cui dall'unificazione dei bilanci non risultino ulteriori possibili spazi di indebitamento per il nuovo ente; mentre il commissario nominato per la gestione del Comune derivante da fusione è coadiuvato, fino all'elezione dei nuovi organi, da un comitato consultivo composto da coloro che, alla data dell'estinzione dei Comuni, svolgevano le funzioni di Sindaco e senza maggiori oneri per la finanza pubblica.

Inoltre il comitato è comunque consultato sullo schema di bilancio e sull'eventuale adozione di varianti agli strumenti urbanistici evidenziandosi che il commissario deve convocare periodicamente il comitato, anche su richiesta della maggioranza dei componenti, per informare sulle attività programmate e su quelle in corso.

Con riguardo agli obblighi di esercizio associato di funzioni comunali fondamentali, derivanti dal comma 28, dell'articolo 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 e successive modificazioni, si applicano ai Comuni derivanti da fusione entro i limiti stabiliti dalla legge regionale, che può fissare una diversa decorrenza o modularne i contenuti, con la precisazione che in mancanza di diversa normativa regionale, i Comuni istituiti mediante fusione che raggiungono una popolazione pari o superiore a 3.000 abitanti, oppure a 2.000 abitanti se appartenenti o appartenuti a comunità montane e che devono obbligatoriamente esercitare le funzioni fondamentali dei Comuni, secondo quanto previsto dal citato comma 28 dell'articolo 14, sono esentati da tale obbligo per un mandato elettorale.

I Consiglieri comunali cessati per effetto dell'estinzione del Comune derivante da fusione continuano a esercitare, fino alla nomina dei nuovi rappresentanti da parte del nuovo Comune, gli incarichi esterni loro eventualmente attribuiti; mentre tutti i soggetti nominati dal Comune estinto per fusione in enti, aziende, istituzioni o altri organismi continuano a esercitare il loro mandato fino alla nomina dei successori.

Le risorse destinate, nell'anno di estinzione del Comune, alle politiche di sviluppo delle risorse umane e alla produttività del personale dei Comuni oggetto di fusione confluiscono, per l'intero importo, a decorrere dall'anno di istituzione del nuovo Comune, in un unico fondo del nuovo Comune avente medesima destinazione.

Fatte salve le disposizioni della legge regionale, «a) tutti gli atti normativi, i piani, i regolamenti, gli strumenti urbanistici e i bilanci dei Comuni oggetto della fusione vigenti alla data di estinzione dei comuni restano in vigore, con riferimento agli ambiti territoriali e alla relativa popolazione dei Comuni che li hanno approvati, fino alla data di entrata in vigore dei corrispondenti atti del commissario o degli organi del nuovo Comune; b) alla data di istituzione del nuovo Comune, gli organi di revisione contabile dei comuni estinti decadono. Fino alla nomina dell'organo di revisione contabile del nuovo Comune le funzioni sono svolte provvisoriamente dall'organo di revisione contabile in carica, alla data dell'estinzione, nel Comune di maggiore dimensione demografica; c) in assenza di uno statuto provvisorio, fino alla data di entrata in vigore dello statuto e del regolamento di funzionamento del Consiglio comunale del nuovo Comune si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dello statuto e del regolamento di funzionamento del Consiglio comunale del Comune di maggiore dimensione demografica tra quelli estinti».

Il Comune che nasce a seguito di fusione è "agevolato", con riguardo alla tempistica riguardante l'approvazione del bilancio di previsione; nel senso che lo strumento di programmazione economico-finanziario è approvato entro novanta giorni dall'istituzione o dal diverso termine di proroga eventualmente previsto per l'approvazione dei bilanci e fissato con decreto del Ministro dell'interno.

Oltre a ciò, a beneficio del Comune nato dal procedimento di fusione, sono apportate modificazioni alla disciplina concernente l'esercizio e la gestione provvisoria del bilancio contenuta nell'art. 163 del TUEL, il quale, al comma 1 prevede che se il bilancio di previsione non è approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno precedente, la gestione finanziaria dell'ente si svolge nel rispetto dei principi applicati della contabilità finanziaria riguardanti l'esercizio provvisorio o la gestione provvisoria.

Ne deriva che l‘ordinamento distingue tra esercizio provvisorio e gestione finanziaria; l'esercizio provvisorio rappresenta una modalità operativa concernente il bilancio intercorrente tra la data del 31 dicembre dell'anno precedente a quello cui il bilancio stesso si riferisce; nel corso dell'esercizio provvisorio o della gestione provvisoria, gli enti gestiscono gli stanziamenti di competenza previsti nell'ultimo bilancio approvato per l'esercizio cui si riferisce la gestione o l'esercizio provvisorio, ed effettuano i pagamenti entro i limiti determinati dalla somma dei residui al 31 dicembre dell'anno precedente e degli stanziamenti di competenza al netto del fondo pluriennale vincolato.

Nel corso dell'esercizio provvisorio non è consentito il ricorso all'indebitamento e gli enti possono impegnare solo spese correnti, le eventuali spese correlate riguardanti le partite di giro, lavori pubblici di somma urgenza o altri interventi di somma urgenza, mentre è consentito il ricorso all'anticipazione di tesoreria di cui all'art. 222.

Nel corso dell'esercizio provvisorio, gli enti possono impegnare mensilmente, unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei mesi precedenti, per ciascun programma, le spese di cui al comma 3 dell'art. 163 del TUEL, per importi non superiori ad un dodicesimo degli stanziamenti del secondo esercizio del bilancio di previsione deliberato l'anno precedente, ridotti delle somme già impegnate negli esercizi precedenti e dell'importo accantonato al fondo pluriennale vincolato, con l'esclusione delle spese:

a) tassativamente regolate dalla legge;

b) non suscettibili di pagamento frazionato in dodicesimi;

c) a carattere continuativo necessarie per garantire il mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti [1].

La gestione provvisoria, invece, si determina nel lasso temporale intercorrente tra la scadenza del termine ultimo dell'esercizio provvisorio e quello di approvazione del "nuovo" bilancio di previsione, in base a quanto previsto dall'art. 163, comma 2 del TUEL, il quale dispone che «nel caso in cui il bilancio di esercizio non sia approvato entro il 31 dicembre e non sia stato autorizzato l'esercizio provvisorio, o il bilancio non sia stato approvato entro i termini previsti ai sensi del comma 3, è consentita esclusivamente una gestione provvisoria nei limiti dei corrispondenti stanziamenti di spesa dell'ultimo bilancio approvato per l'esercizio cui si riferisce la gestione provvisoria».

L'Amministrazione comunale, dunque, lasciatosi alle spalle l'esercizio provvisorio ed entrata in regime di «gestione provvisoria» del bilancio, non può più spendere in dodicesimi dell'ultimo bilancio approvato, ma si deve limitare alle spese strettamente indicate dal legislatore per non produrre danni alla collettività.

Gli atti di governo che l'Amministrazione può compiere in regime di gestione provvisoria, sono puntualmente determinati in altra parte dello stesso articolo 163, comma 2, che così dispone: «nel corso della gestione provvisoria l'ente può assumere solo obbligazioni derivanti da provvedimenti giurisdizionali esecutivi, quelle tassativamente regolate dalla legge e quelle necessarie ad evitare che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi all'ente. Nel corso della gestione provvisoria l'ente può disporre pagamenti solo per l'assolvimento delle obbligazioni già assunte, delle obbligazioni derivanti da provvedimenti giurisdizionali esecutivi e di obblighi speciali tassativamente regolati dalla legge, per le spese di personale, di residui passivi, di rate di mutuo, di canoni, imposte e tasse, ed, in particolare, per le sole operazioni necessarie ad evitare che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi all'ente».

Ciò detto, la L. n. 56/2014, all'art. 1, comma 156, prevede che: «il Comune risultante da fusione: a) approva il bilancio di previsione, in deroga a quanto previsto dall'articolo 151, comma 1, del testo unico, entro novanta giorni dall'istituzione o dal diverso termine di proroga eventualmente previsto per l'approvazione dei bilanci e fissato con decreto del Ministro dell'interno; b) ai fini dell'applicazione dell'articolo 163 del testo unico, per l'individuazione degli stanziamenti dell'anno precedente assume come riferimento la sommatoria delle risorse stanziate nei bilanci definitivamente approvati dai Comuni estinti; c) approva il rendiconto di bilancio dei Comuni estinti, se questi non hanno già provveduto, e subentra negli adempimenti relativi alle certificazioni del patto di stabilità e delle dichiarazioni fiscali»; inoltre in base al comma 127 «dalla data di istituzione del nuovo Comune e fino alla scadenza naturale resta valida, nei documenti dei cittadini e delle imprese, l'indicazione della residenza con riguardo ai riferimenti dei Comuni estinti» e al comma 128 «l'istituzione del nuovo Comune non priva i territori dei Comuni estinti dei benefìci che a essi si riferiscono, stabiliti in loro favore dall'Unione europea e dalle leggi statali. Il trasferimento della proprietà dei beni mobili e immobili dai Comuni estinti al nuovo Comune è esente da oneri fiscali».

La problematica distinzione tra fusione di comuni "tradizionale" e fusione per incorporazione

La L. n. 56/2014 ha inteso dare respiro ad un nuovo assetto delle competenze delle città metropolitane, province, unioni di comuni per ridisegnare una nuova idea di Repubblica, fondata sull'efficienza, sull'efficacia e sull'economicità degli enti locali territoriali e della connessa struttura burocratica, su cui si basa l'esecuzione delle decisione degli organi d'indirizzo e di governo dei suddetti enti.

Tale visione, però, ha dovuto fare in conti con la realpolitik di quattro Regioni (Veneto, Campania, Puglia, Lombardia) che nel giugno del 2014 hanno prodotto ricorsi di legittimità costituzionale avverso 58 commi dell'unico articolo della legge n. 56/2014, fondati particolarmente sul riparto delle competenze derivanti dall'art. 117, comma secondo, lett. p), e comma 4, Cost.; censure che sono state complessivamente respinte dalla Corte costituzionale con sentenza n. 50/2015 [2].

La suddetta sentenza n. 50/2015 sussume i ricorsi presentati dalle Regioni in quattro tipologie e precisamente: disciplina delle Città metropolitane; ridefinizione dei confini territoriali e del quadro delle competenze delle Province; procedimento di riallocazione delle funzioni "non fondamentali" delle Province; disposizioni su Unioni e fusioni di Comuni, interessando, in definitiva, l'assetto complessivo della stessa legge Delrio, con la logica conseguenza che il rigetto dei fatti posti in essere dai ricorrenti riveste particolare importanza nel confermare l'assetto riformatore della legge n. 56/2014.

L'ordinamento degli enti locali, innovato dalla legge Delrio, prevede oggi due distinte opzioni per addivenire alla fusione di comuni: una fusione definibile come "tradizionale", prevista dall'art. 15 del TUEL che causa un effetto giuridico estintivo dei Comuni interessati dalla fusione medesima e la nascita di un nuovo Comune; una fusione per incorporazione, in cui la soppressione di uno o più Comuni agisce in corrispondenza della sostanziale continuità giuridica del Comune incorporante, quantunque la legge preveda l'evenienza di una sua diversa denominazione.

La prima tipologia di fusione di comuni "tradizionale" era già prevista dalla L. n. 142/1990, art. 11; ma solo da qualche anno essa ha assunto un reale importanza nel panorama degli enti locali territoriali, se non altro perché, a decorrere dagli anni 2000, si sono costituite numerose realtà comunali, a seguito di processi di fusione di comuni [4]; anche se ciò nonostante la frammentazione comunale è una costante fortemente presente nel comparto degli enti locali territoriali del nostro Paese che registra la presenza attiva su 8.047 realtà amministrative presenti la presenza di ben 5.627 Piccoli Comuni, con una incidenza di Piccoli Comuni sul totale dei Comuni regionali pari al 69,9% (dato riferito al 31 gennaio 2015; fonte Atlante dei Piccoli Comuni 2015, Ifel-Anci).

L'istituto dell'aggregazione/fusione di comuni era già presente nel passato remoto della legislazione del nostro Paese, se è vero che già nel 1860 il Ministro degli Interni del primo governo Cavour, Luigi Carlo Farini (21 gennaio 1860-21 marzo 1861) presentava un disegno di legge per l'istituzione della Commissione legislativa per lo studio e la compilazione di progetti di legge sulla riforma dell'ordinamento amministrativo del nuovo Regno, proponendo un progetto per accorpare i Comuni con meno di 1.000 abitanti, nell'ambito di una generale riforma dell'ordinamento amministrativo; proposta che non ebbe però seguito [5].

Un concreto ma, con ogni probabilità, oggi non condiviso progetto di riduzione del numero di Comuni, fu poi realizzato in epoca fascista, con l'approvazione del r.d.l. n. 383/1927 [6] attraverso il quale si addiveniva all'unione, soppressione o aggregazione coattiva di 2.184 piccoli Comuni e si rendeva possibile la facoltà di accorpare i Comuni con popolazione inferiore ai 2.000 abitanti, nel caso fossero mancati i mezzi per provvedere in maniera conveniente ai pubblici servizi.

In epoca successiva il r.d.l. n. 383/1934 [7], all'art. 30, prevedeva che: «i Comuni con popolazione inferiore ai 2.000 abitanti, che manchino di mezzi per provvedere adeguatamente ai pubblici servizi, possono, quando le condizioni topografiche lo consentano, essere riuniti fra loro o aggregati ad altro Comune. Può inoltre essere disposta la riunione di due o più Comuni, qualunque sia la loro popolazione, quando i podestà ne facciano domanda e ne fissino d'accordo le condizioni».

Le vicende storico-legislative del post ventennio fascista e l'avvento del periodo repubblicano comportarono l'emanazione della legge n. 71/1953 [8], articolo unico, dove si stabiliva che: «potrà essere disposto, ai sensi degli articoli 33 e seguenti del testo unico 3 marzo 1934, n. 383, la ricostituzione di Comuni soppressi dopo il 28 ottobre 1922, ancorché la loro popolazione sia inferiore ai 3.000 abitanti, quando la ricostituzione sia chiesta da almeno tre quinti degli elettori» [9].

Ciò ha comportato che dopo il ventennio autoritario e dittatoriale, veniva restituita ai Comuni, riuniti o soppressi in epoca fascista, la possibilità di ricostituirsi in Comuni singoli, anche in assenza del requisito minimo demografico previsto e vanificata l'opera di accorpamento forzoso inaugurata dal regime mussoliniano, dando così inizio ad un percorso di segno opposto che conduceva alla creazione di nuovi Municipi e che è continuato fino a poco tempo addietro.

La seconda tipologia di fusione definita "per incorporazione" (come visto, supra, già presente nell'ordinamento come aggregazione di comuni) è un istituto ora previsto dalla L. n. 56/2014, all'art. 1, comma 130, nel quale è specificato che: «i comuni possono promuovere il procedimento di incorporazione in un comune contiguo. In tal caso, fermo restando il procedimento previsto dal comma 1 dell'articolo 15 del testo unico, il comune incorporante conserva la propria personalità, succede in tutti i rapporti giuridici al comune incorporato e gli organi di quest'ultimo decadono alla data di entrata in vigore della legge regionale di incorporazione. Lo statuto del comune incorporante prevede che alle comunità del comune cessato siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi. A tale scopo lo statuto è integrato entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale di incorporazione. Le popolazioni interessate sono sentite ai fini dell'articolo 133 della Costituzione mediante referendum consultivo comunale, svolto secondo le discipline regionali e prima che i consigli comunali deliberino l'avvio della procedura di richiesta alla Regione di incorporazione. Nel caso di aggregazioni di comuni mediante incorporazione è data facoltà di modificare anche la denominazione del comune. Con legge regionale sono definite le ulteriori modalità della procedura di fusione per incorporazione».

Inoltre, svariate leggi regionali di riordino territoriale richiamano, già da tempo, la possibilità della fusione per incorporazione, tra le cause di modificazione delle circoscrizioni comunali.

Infatti, a tale proposito si può menzionare la l.r. n. 143/1973 della Regione Abruzzo, art. 8, «Istituzione di nuovi Comuni», che prevede l'ipotesi di «incorporazione di uno o più Comuni in altro Comune contiguo», dove è stabilito che «l'incorporazione […] è equiparata alla fusione di Comuni, mediante l'istituzione di un Comune nuovo»; la l.r. n. 54/1974 della Regione Campania, art. 3, nel quale di ribadisce che «[…] l'incorporazione di un Comune in un altro della medesima Provincia è equiparata all'ipotesi contemplata alla lettera a) del precedente articolo 2 [vale a dire la fusione tra Comuni tradizionale]»; la l.r. n. 25/1992 della Regione Veneto, che all'art. 3, dispone che: «a variazione delle circoscrizioni comunali può consistere: [...] nell'incorporazione di uno o più Comuni all'interno di altro Comune»; la l.r. n. 10/1995 della Regione Marche, la quale all'art. 3, precisa che: «il mutamento delle circoscrizioni comunali può aver luogo nei seguenti casi: a) incorporazione di un Comune in un altro contermine; b) distacco di una frazione o borgata da un Comune e sua incorporazione in un Comune contermine; [inoltre] ai fini della presente legge, all'incorporazione di Comune in altro Comune contermine devono applicarsi le stesse disposizioni poste in materia di fusione di due o più Comuni contermini»; la l.r. n. 24/1996 della Regione Emilia-Romagna, art. 20, che al comma 2 prevede che: «ai fini della presente legge, l'unificazione in un solo Comune di più Comuni preesistenti realizzata attraverso l'incorporazione di uno o più Comuni in un altro contiguo deve intendersi equiparata alla fusione di Comuni operata mediante istituzione di un Comune nuovo»; la l.r. n. 29/2006 della Regione Lombardia, la quale, nell'art. 5, «Mutamento circoscrizioni comunali», parla di «aggregazione di un Comune ad altro Comune contiguo»; la l.r. n. 68/2011 della Regione Toscana, la quale all'art. 64 stabilisce che: «in caso di fusione o incorporazione di due o più Comuni, se la legge regionale che provvede alla fusione o all'incorporazione non stabilisce alcun contributo in favore del Comune, è concesso un contributo pari a 150.000,00 euro per ogni Comune originario per cinque anni fino ad un massimo di 600.000,00 euro per il nuovo Comune a decorrere dall'anno successivo all'elezione del nuovo Consiglio comunale»; la l.r. n. 34/2014 della Regione Puglia che all'art. 6, « », comma 4, dispone che: «su richiesta dei Comuni interessati alla fusione, che può Fusione di Comuni avvenire anche per incorporazione, deliberata dai rispettivi Consigli comunali, la Giunta regionale presenta un disegno di legge per l'istituzione del nuovo Comune».

Nello specifico, la fusione "tradizionale" è riferibile all'art. 15 del TUEL, nel quale è previsto che «le Regioni possono modificare le circoscrizioni territoriali dei comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale [con la precisazione che ] salvo i casi di fusione tra più comuni, non possono essere istituiti nuovi comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri comuni scendano sotto tale limite».

La fusione per «incorporazione» è prevista, invece, dalla L. n. 56/2014, art. 1, comma 130, nel quale si delinea una differente configurazione legislativa rispetto alla fusione "tradizionale".

Nella fusione per «incorporazione» di uno o più comuni in un comune che deve essere sempre contiguo, la sua promozione compete sempre ai comuni interessati, fermo restando il procedimento previsto dall'art. 15, comma 1 del TUEL, vale a dire che è alla Regione che compete l'onere di modificazione delle circoscrizioni territoriali dei comuni coinvolti dal processo di fusione, a norma degli artt. 117 e 133 Cost. dopo che siano state «sentite le popolazioni interessate», con le modalità previste dalla legge regionale.

Anche tale "nuova" tipologia di fusione richiama nel suo divenire gli artt. 117 e 133 Cost.

Il primo dei due articoli costituzionali (117 Cost.) esplicita (almeno fino alla conclusione dell'iniziative referendaria costituzionale del 4 dicembre 2016 su «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione») [10] la competenza legislativa che «è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», prevedendo al comma 2 che lo Stato ha legislazione esclusiva in una serie di materie previste nella lettere da a) fino a s); al comma 3 l'esistenza della legislazione concorrente tra lo Stato e le Regioni con la specificazione che nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato; e disponendo, inoltre, che «spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato».

L'art. 133, comma 2, Cost., a sua volta dispone che: «la Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni»; ciò significa che l'istituzione di un nuovo comune nel territorio di propria pertinenza (o la modificazione delle loro circoscrizioni e denominazioni), la Regione può determinarlo solo dopo che ha «sentite le popolazioni interessate».

Il parere può essere richiesto tramite referendum consultivo ovvero, così come disposto dall'art. 15 del TUEL, «nelle forme previste dalla legge regionale» [10].

La Corte Costituzionale ha precisato che «[…] l'inadeguata valutazione dei pareri del Consiglio comunale […], non si risolve in una diretta violazione dell'art. 133 cpv. Cost. (che si limita ad esigere la consultazione delle popolazioni interessate mediante referendum, come la Corte ha precisato nella sentenza n. 204 del 1981); né implica – stando alla stessa impostazione del ricorso – la violazione di alcuna altra norma comunque sopraordinata alla legge regionale in esame. Ed è proprio il ricorso a dare atto che, in sede di modifica delle circoscrizioni comunali, "i pareri dei Comuni e delle Province sono" – se mai – "obbligatori ma non vincolanti": con la conseguenza che l'apprezzamento di essi da parte del Consiglio regionale sfugge al sindacato di questa Corte» [11].

Per la Corte Costituzionale «[…] l'obbligo di sentire le popolazioni interessate, che l'art. 133, secondo comma, della Costituzione sancisce come presupposto della legge regionale modificativa di circoscrizioni e denominazioni dei Comuni, è espressione di un "generale principio ricevuto dalla tradizione storica" che vuole la partecipazione delle comunità locali a "talune fondamentali decisioni che le riguardano". Tale rilevanza del precetto costituzionale si coglie nel senso di garanzia che essa assume a tutela dell'autonomia degli enti minori nei confronti delle Regioni, al fine di "evitare che queste possano addivenire a compromissioni dell'assetto preesistente senza tenere adeguato conto delle realtà locali e delle effettive esigenze delle popolazioni direttamente interessate" (sentenza n. 453 del 1989)» [12].

In sintesi, ad avviso della Corte Costituzionale la lettura del secondo comma dell'art. 133 della Costituzione è chiara ed univoca: la consultazione delle popolazioni interessate è richiesta sia per l'istituzione di nuovi Comuni, sia per la modificazione delle loro Circoscrizioni; in linea generale, quindi, popolazioni interessate sono tanto quelle che verrebbero a dar vita ad un nuovo Comune così come quelle che rimarrebbero nella parte, per così dire, "residua" del Comune di origine; altrettanto può dirsi per i trasferimenti di popolazioni da un Comune ad un altro in conseguenza di modificazioni delle circoscrizioni territoriali».

Ritornando alla fusione per incorporazione e alla L. n. 56/2014, art. 1, comma 130, dopo avere previsto che l'incorporazione sarà disposta con legge regionale e previo referendum delle popolazioni interessate, è stabilito che «il Comune incorporante conserva la propria personalità, succede in tutti i rapporti giuridici al Comune incorporato e gli organi di quest'ultimo decadono alla data di entrata in vigore della legge regionale di incorporazione».

Da ciò ne deriva che al processo di fusione non corrisponde la creazione di un nuovo Comune, ma solo la modifica dei confini del Comune incorporante, con la risultante che al Comune incorporante competono tutte le situazioni attive e passive del Comune incorporato.

Ne scaturisce un'importante conseguenza, proprio per quanto detto; vale a dire che la situazione finanziaria dei due comuni, incorporante e incorporato, giocherà un ruolo importante nel processo di fusione per incorporazione, perché lo squilibrio finanziario di almeno uno dei due comuni fungerà da ragione impeditiva alla fusione, in quanto l'onere dell'eventuale riequilibrio finanziario sarà soprattutto a carico del comune più sano finanziariamente che di conseguenza sarà portato a frenare sul processo di fusione.

Per ciò che attiene la rappresentatività, occorre aggiungere che almeno fino alle prime elezioni comunali del dopo fusione, emerge che gli organi del Comune risultante dall'aggregazione saranno solo quelli espressione dell'ente incorporante, ai quali compete la gestione della delicata fase riorganizzativa, mentre gli organi di quest'ultimo decadono alla data di entrata in vigore della legge regionale di incorporazione.

Lo Statuto del Comune incorporante, comunque, dovrà prevedere che alle comunità del Comune cessato siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi; per questo fine è necessario che lo statuto sia integrato entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale di incorporazione.

Un aspetto importante riguarda il fatto che le popolazioni interessate vanno sentite ai fini dell'articolo 133 della Costituzione mediante referendum consultivo comunale «prima che i consigli comunali deliberino l'avvio della procedura di richiesta alla regione di incorporazione».

Tale procedura, che anticipa l'ascolto delle popolazioni interessate alla fusione per incorporazione, con ogni probabilità è dovuta al fatto che «l'incorporazione» di uno o più comuni in un altro (di solito quello più grande demograficamente) può ingenerare asimmetria politica tra comune incorporato e incorporante, in quanto il primo comune rinuncerebbe a gran parte della propria identità politica vista la situazione non paritaria tra gli enti oggetto di fusione; di conseguenza, atteso che l'esito del referendum nell'ipotesi di fusione per incorporazione potrebbe essere certamente problematico proprio per tale fatto, il legislatore ha voluto saggiare l'umore della popolazione interessata dal processo di fusione «prima che i consigli comunali deliberino l'avvio della procedura di richiesta alla Regione di incorporazione».

Potrebbe giovare all'esito positivo del processo di fusione il cambio di denominazione del Comune incorporante, ponendosi tale possibilità come fattore altamente paradigmatico di discontinuità, tale da favorire le comunità incorporate a sentirsi come parte attiva e protagonista nella costruzione dell'ente locale territoriale frutto della fusione per incorporazione

Le due tipologie di fusione tra enti si riavvicinano, relativamente alla loro forma di sostegno finanziario da parte dello Stato e della Regione, poiché la vigente normativa mette sullo stesso piano dei trasferimenti, sia la fusione tradizionale e sia quella per incorporazione [13].

Per ciò che attiene la prassi applicativa, le due tipologie di fusione divergono anche per un altro aspetto; vale a dire che la fusione tradizionale di solito si determina tra Piccoli Comuni o comunque generalmente investe due o più comuni che non hanno dimensioni demografiche assai differenti tra loro e dà luogo ad un nuovo ente locale territoriale che per territorio, economia, numero di abitanti, mette su di un piano di sostanziale uguaglianza e parità i comuni che si sono estinti; mentre la fusione che si realizza per il tramite di un processo di incorporazione, si pone sempre (come del resto avviene con la fusione classica) l'obiettivo del riordino territoriale e della semplificazione della maglia amministrativa complessiva attraverso la riduzione del numero complessivo dei comuni del nostro Paese, ma realizza una posizione di superiorità dimensionale ed economica del comune incorporante, differentemente da quello che avviene nei confronti del comune incorporato che a sua volta si estingue per ingresso nel Comune incorporante, il quale, mantiene la propria personalità, i propri organi e succede, come visto, a titolo universale al Comune incorporato.

Solo a titolo d'esempio si può aggiungere che la fusione per incorporazione potrebbe funzionare nel governo della Città metropolitana, dove le piccole realtà comunali, generalmente esclude dal processo di rappresentanza, potrebbero trovare la loro ragione d'essere proprio tramite la fusione che renderebbe anche la Città metropolitana soggetto giuridico meno pletorico, nel quale potrebbe essere più agevole l'assunzione delle decisioni d'assumere.

6. Le censure delle Regioni ricorrenti avverso la L. n. 56/2014 e la posizione della Corte Costituzionale in merito alla questione della fusione di comuni

La duplice categoria della fusioni di comuni esistente nell'ordinamento, ha fatto sorgere l'interrogativo su quale sia il soggetto legittimato a normare la fusione tradizionale e la fusione per incorporazione; nel senso di vedere se la competenza legislativa debba essere differentemente ammessa in capo alle Regioni, nell'ipotesi della fusione tradizionale, mentre debba essere posta in capo all'esclusiva mano statale, nell'ipotesi di fusione per incorporazione.

Nel merito, per ciò che riguarda la fusione tra comuni classica o tradizionale che dir si voglia, occorre richiamare l'art. 117, comma 4, Cost., in base al quale è prevista la competenza legislativa regionale residuale nell'istituzione di un nuovo Comune.

Infatti, l'art. 117, comma 4 Cost., prevede che: «spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato»; e la materia dell'istituzione di un nuovo comune non la si ritrova nelle competenze statali previste nell'art. 117, comma 2, lettere da a) fino alla lettera s); e che la competenza nella fusione tradizionale sia della Regione emerge, ad adiuvandum, anche dall'art. 133, comma 2, Cost., nel punto in cui è disposto che: «la Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni».

A complicare le cose però è l'art. 117, comma 3 Cost. che disciplina le materie di legislazione concorrente tra lo Stato e la Regioni, nel punto in cui è prevista «l'armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», che permette al legislatore statale la possibilità d'intervenire su puntuali aspetti dell'ordinamento degli enti locali e, dunque, anche nell'emanazione della legislazione sulla fusione di comuni.

Per quanto attiene alla competenza legislativa della fusione per incorporazione che formalmente non istituisce un nuovo comune, occorre riferirsi alla sentenza n. 50/2015 della Corte Costituzionale.

Essa scaturisce sulla base di ricorsi presentati dalle Regioni Lombardia, Veneto, Campania e Puglia, hanno proposto varie questioni di legittimità costituzionale della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni).

Per quello che riguarda l'economia di questo scritto, le questioni proposte dai ricorrenti, coinvolgono la disciplina delle fusioni di Comuni, prevista dall'art. 1 della legge 7 aprile 2014, n. 56, Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni), per contrasto con i parametri costituzionali

In particolare, la Regione Campania ha, per un verso, dedotto il supposto difetto del titolo di competenza in capo allo Stato, ravvisando la sussistenza della competenza regionale residuale in relazione al disposto dell'art. 117, comma 4, Cost., avuto riguardo al procedimento di fusione tra Comuni (con specifico riferimento ai commi 22 e 130 dell'art. 1 della legge in questione) e ha denunciato la lesione degli artt. 123, primo comma, e 133, secondo comma, Cost., sotto il profilo dell'asserita invasione della competenza regionale nella materia concernente l'istituzione di nuovi enti comunali nell'ambito del suo territorio (così come la modificazione delle inerenti circoscrizioni o delle relative denominazioni), da realizzarsi, oltretutto, garantendo la preventiva audizione delle popolazioni concretamente interessate, e senza trascurare, altresì, la (ritenuta) violazione della riserva statutaria regionale in ordine alla disciplina dei referendum riguardanti le leggi ed i provvedimenti di competenza, per l'appunto, regionale.

La Regione Puglia, dal suo canto, ha dedotto con riguardo alla disciplina della fusione di comuni l'illegittimità delle relative disposizioni sotto il profilo della ravvisata violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., dovendosi, anche a suo avviso, a proposito di detta materia, ritenere operativa la competenza regionale residuale prevista dal medesimo art. 117 al quarto comma.

L'intervento del giudice delle leggi consacra una distinzione tra le due forme di fusione, quella "tradizionale" e quella "per incorporazione", non solo sul profilo del regime giuridico ma anche su quello attinente alla competenza legislativa.

La Corte Costituzionale nel Considerato in diritto, punto 6.2, rileva che «[…] tali questioni sono non fondate»; e nel punto 6.2.2. ribadisce che «la disposizione (sub comma 130) relativa alla fusione di Comuni di competenza regionale non ha ad oggetto l'istituzione di un nuovo ente territoriale (che sarebbe senza dubbio di competenza regionale) bensì l'incorporazione in un Comune esistente di un altro Comune, e cioè una vicenda (per un verso aggregativa e, per altro verso, estintiva) relativa, comunque, all'ente territoriale Comune e come tale, quindi, ricompresa nella competenza statale nella materia «ordinamento degli enti locali», di cui all'art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. [ed inoltre] l'estinzione di un Comune e la sua incorporazione in un altro Comune incidono sia sull'ordinamento del primo che del secondo, oltre che sulle funzioni fondamentali e sulla legislazione elettorale applicabile. Dal che la non fondatezza, anche in questo caso, della censura di violazione del titolo di competenza fatto valere dalle ricorrenti, in prospettiva applicativa del criterio residuale di cui al quarto comma dell'art. 117 Cost.».

Ad avviso della Corte Cost. insussistente è, a sua volta, l'ulteriore violazione degli artt. 123 e 133, secondo comma, Cost. denunciata dalla Regione Campania, con riferimento al medesimo comma 130 (ed in correlazione con il precedente comma 22) dell'art. 1 della legge in esame, riguardante il procedimento di fusione per incorporazione di più Comuni.

Infine «il censurato comma 130 demanda, infatti, la disciplina del referendum consultivo comunale delle popolazioni interessate (quale passaggio indefettibile del procedimento di fusione per incorporazione) proprio alle specifiche legislazioni regionali, rimettendo, peraltro, alle singole Regioni l'adeguamento delle stesse rispettive legislazioni, onde consentire l'effettiva attivazione della nuova procedura, sul presupposto che le disposizioni − di carattere evidentemente generale (e che rimandano, in ogni caso, alle discipline regionali) − contenute nella legge n. 56 del 2014 non siano, di per sé, esaustive. Per cui non risulta scalfita l'autonomia statutaria spettante in materia a ciascuna Regione».

In sintesi, secondo il ragionamento dei giudici della Corte Cost. ne deriva che la competenza legislativa nel caso di fusione "tradizionale" rimane confermata in capo alle Regioni (poiché che in tale caso si istituisce un nuovo Comune); al contrario, la fusione per incorporazione è da ricondursi alla potestà legislativa statale, poiché il processo di incorporazione (che non dà luogo alla nascita di un nuovo Comune) rientrerebbe nella materia «ordinamento enti locali», e comunque incide su funzioni fondamentali e legislazione elettorale applicabile.

Una decisione più politica che giuridica quella assunta dal giudice della leggi, in quanto Il riferimento alla materia «ordinamento degli enti locali» non figura espressamente nell'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost.; ragione per cui il fondamento giuridico sul quale la Corte Costituzionale basa la sua decisione, vale a dire il legame tra l'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost. e la materia «ordinamento degli enti locali», tradisce la mera volontà di avallo del complesso sistema della legge Delrio, n. 56/2014.

Una decisione, quella assunta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 50/2015, che contraddice una precedente posizione presa dallo stesso giudice delle leggi in materia di istituzione di comuni (Sentenza n. 261 del 3 ottobre 2011) [14].

Tale sentenza è stata emessa su input del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, che con ordinanza depositata in data 19 novembre 2010, aveva sollevato – in riferimento agli articoli 3 e 117, terzo comma, della Costituzionequestione di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge della Regione Piemonte 2 dicembre 1992, n. 51 (Disposizioni in materia di circoscrizioni comunali, unione e fusione di Comuni, circoscrizioni provinciali), nella parte in cui stabiliva, in violazione del disposto dell'art. 15, comma 1, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 secondo cui le Regioni non possono istituire nuovi Comuni con popolazione inferiore ai diecimila abitanti, il solo divieto di istituire Comuni la cui popolazione consista in meno di cinquemila unità.

Secondo il Tribunale rimettente, una corretta esegesi del novellato art. 117 Cost. condurrebbe ad includere l'istituzione di nuovi Comuni nell'ambito della previsione recata dalla lettera p) del comma 2, riferendo dunque la materia alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Per altro verso, nella prospettazione del giudice a quo, il raccordo tra la disposizione citata ed il comma 2 dell'art. 133 Cost. (che prevede l'istituzione di nuovi Comuni mediante leggi regionali) implicherebbe, per la materia de qua, una competenza concorrente di Stato e Regioni; di conseguenza sarebbe dunque riservata allo Stato l'enunciazione di principi fondamentali, tra i quali dovrebbe annoverarsi la fissazione di limiti minimi di consistenza demografica per i Comuni di nuova istituzione.

Ad avviso della Corte Costituzionale la questione sollevata in riferimento all'art. 117, comma 3, Cost. è inammissibile: a tal proposito il punto 2 del Considerato in diritto evidenzia che «in seguito alla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, la materia «circoscrizioni comunali» non è stata inclusa nel nuovo testo dell'art. 117, che invece, nel secondo comma, lettera p), attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la legislazione elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane. Nessun riferimento alle circoscrizioni comunali, in particolare, è contenuto nel terzo comma del medesimo art. 117, che elenca le materie rientranti nella competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni [mentre] a differenza dell'art. 117 Cost., è rimasto invariato, dopo la riforma del 2001, il testo dell'art. 133 Cost., nel cui secondo comma è stabilito: «La Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni».

Il tribunale amministrativo rimettente afferma inizialmente che, con l'art. 117, secondo comma, lettera p), il legislatore costituzionale «ha inteso abbracciare e includere nel raggio della competenza legislativa esclusiva dello Stato ogni segmento della vita degli enti locali, principiando dal momento genetico, identificato nella "legislazione elettorale" […]».

«Su tale presupposto interpretativo, il giudice a quo afferma che «ogni momento della vita di un ente locale è devoluto dal legislatore costituzionale alla competenza legislativa esclusiva dello Stato», con la conseguenza che «appare in re ipsa che siffatta devoluzione includa anche il momento genetico basilare della istituzione stessa di un ente locale, nelle sue componenti geografiche e personali, ivi compresa la fissazione del numero minimo di abitanti». In definitiva sarebbe possibile affermare, secondo il rimettente, la «onnicomprensività dell'ascrizione allo Stato della competenza legislativa esclusiva in tutta la materia dell'ordinamento degli enti locali», derivante, a suo dire, dalla soppressione della materia «circoscrizioni comunali», «espunta dal testo del comma 3 dell'art. 117 che enumera le materie di legislazione concorrente».

I giudici costituzionali rilevano la contraddizione che il rimettente attribuisce alle norme costituzionali; «è agevole rilevare che una competenza esclusiva statale in materia di ordinamento degli enti locali – dal rimettente definita «onnicomprensiva» ed esplicitamente riferita anche alle circoscrizioni comunali – non si concilia con una ritenuta competenza concorrente delle Regioni, che non solo non emerge dal testo del secondo comma dell'art. 133 Cost., ma non è neppure menzionata nel terzo comma dell'art. 117 Cost. La trasformazione operata dal rimettente nel corso del suo ragionamento circa la natura della competenza legislativa dello Stato – da esclusiva, come affermato in apertura, a concorrente – non trova giustificazione in alcuna disposizione costituzionale. Essa si pone anzi in netto contrasto, logico e giuridico, con l'interpretazione data dal medesimo giudice a quo della lettera p) del secondo comma dell'art. 117 Cost., che ingloberebbe, a suo dire, tutti gli aspetti della vita degli enti locali, a partire dalla loro istituzione, sino alla determinazione delle loro funzioni fondamentali».

Infine, il giudice delle leggi rileva che «se la costruzione ermeneutica del rimettente fosse plausibile, non si comprenderebbe perché lo stesso metta in rilievo una contraddizione nel dettato costituzionale, che, nella sua prospettiva, sarebbe invece del tutto coerente. Delle due l'una: o lo Stato possiede una competenza legislativa esclusiva «onnicomprensiva» in materia di ordinamento degli enti locali, ed allora la previsione dell'art. 133 Cost. costituirebbe una deroga, un "ritaglio" di una parte di tale competenza in favore della potestà legislativa residuale delle Regioni, poiché non esiste alcun appiglio, né testuale né sistematico, per affermare l'esistenza di una potestà concorrente; oppure la potestà legislativa esclusiva dello Stato non è «onnicomprensiva», ma è limitata ai campi di disciplina espressamente menzionati nella lettera p) del secondo comma dell'art. 117 Cost., ed allora dovrebbe configurarsi una competenza legislativa residuale delle Regioni, in base al criterio fondamentale di riparto stabilito nel nuovo art. 117 Cost., che contiene una elencazione di materie di competenza esclusiva statale e di competenza concorrente, con la conseguenza di far rifluire nella potestà residuale delle Regioni quelle non esplicitamente previste».

Si è parlato, supra, che quella assunta dal giudice della leggi è stata una «decisione più politica che giuridica»; in effetti l'inciso «ordinamento degli enti locali» è rintracciabile, almeno in parte, nel d.d.l. di riforma costituzionale d.d.l. (A.C. 2613), sottoposto a referendum popolare e non ancora dotato di alcuna valenza prescrittiva; infatti la motivazione che sorregge la scelta dei giudici delle leggi sembra essere un'anticipazione della nuova normativa costituzionale in fieri.

La Corte Costituzionale mette su piani diversi due istituti intimamente connessi nel loro scopo ultimo che andrebbero entrambi ricondotti alla competenza legislativa residuale regionale, ai sensi dell'art. 117, comma 4, Cost.; ma il giudice delle leggi preferisce pronunciarsi sulla base di un'interpretazione estensiva della competenza statuale in merito alla questione della fusione di comuni, anticipando in via di fatto l'efficacia delle nuove disposizioni costituzionali inserite nel progetto di riforma costituzionale, su cui è stato chiamato il popolo ad esprimersi nel mese di dicembre 2016.

[1] Ai sensi dell'art. 163, comma 7 del TUEL: «nel corso dell'esercizio provvisorio, sono consentite le variazioni di bilancio previste dall'art. 187, comma 3-quinquies, quelle riguardanti le variazioni del fondo pluriennale vincolato, quelle necessarie alla reimputazione agli esercizi in cui sono esigibili, di obbligazioni riguardanti entrate vincolate già assunte, e delle spese correlate, nei casi in cui anche la spesa è oggetto di reimputazione l'eventuale aggiornamento delle spese già impegnate. Tali variazioni rilevano solo ai fini della gestione dei dodicesimi».

[2] Ricorso Regione Puglia n. 44, depositato in Cancelleria il 16 giugno 2014; ricorso Regione Campania n. 43, depositato in Cancelleria il 13 giugno 2014; ricorso Regione Veneto n. 42, depositato in Cancelleria il 13 giugno 2014; ricorso Regione Lombardia n. 39, depositato in Cancelleria il 6 giugno 2014.

[3] L. 08/06/1990, n. 142 Ordinamento delle autonomie locali, in G. U. 12 giugno 1990, n. 135, S.O.

[4] Nel periodo 1995-2015 in Italia si sono realizzate 41 fusioni di comuni che hanno coinvolto 101 Comuni preesistenti. Sono in atto 18 ulteriori fusioni di comuni che hanno interessato52 Comuni preesistenti, per le quali si è svolto il referendum consultivo con esito positivo ma non è stata ancora emanata la legge regionale istitutiva del nuovo Comune; fonte: Fonte: elaborazione ANCI - Area Affari Istituzionali, Piccoli Comuni, Gestioni Associate, Montagna su dati Istat, anni vari, in Atlante dei Piccoli Comuni 2015, Ifel-Anci.

[5] Commissione legislativa temporanea per lo studio e la compilazione di progetti di legge sulla riforma dell'ordinamento amministrativo del nuovo Regno, presentata dal Ministro degli Interni Farini alla Camera il 16 maggio 1860, al Senato il 12 giugno 1860 e istituita presso il Consiglio di Stato con legge il 24 giugno 1860. I lavori della Commissione si protrassero fino al 4 marzo 1861.ù

[6] La delega per riorganizzare i Comuni contenuta nel regio decreto legge 17 marzo 1927, n. 383 era prevista con il termine del 31 marzo 1929.

[7] Regio decreto legge 17 marzo 1927, n. 383, Approvazione del testo unico della legge comunale e provinciale, in G.U. 17 marzo 1934, n. 65.

[8] L. 15 febbraio 1953, n. 71, Ricostituzione di Comuni soppressi in regime fascista, in G.U. 7 marzo n. 56.

[9] Regio decreto legge 17 marzo 1927, n. 383, art. 33: «Le borgate o frazioni di Comuni, che abbiano popolazione non minore di 3.000 abitanti, mezzi sufficienti per provvedere adeguatamente ai pubblici servizi e che, per le condizioni dei luoghi, siano separate dal Capoluogo del Comune a cui appartengono, possono essere costituite in Comuni distinti, quando ne sia fatta domanda da un numero di cittadini, che rappresentino la maggioranza numerica [dei contribuenti delle borgate o frazioni e sostengano almeno la metà del carico dei tributi locali applicati nelle dette borgate o frazioni]». La Corte Costituzionale, con sentenza 21 marzo 1969, n. 38, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 3 e 34 nelle parti in cui riconoscono il diritto d'iniziativa del procedimento di modificazione delle circoscrizioni territoriali ai cittadini che rappresentano la maggioranza numerica dei contribuenti delle borgate o frazioni e sostengono almeno la metà del carico dei tributi locali in esse applicati, anziché alla maggioranza dei cittadini elettori. Da tale principio non può prescindere la legislazione regionale in materia.

[10] Ad avviso della Corte Costituzionale «[…] la legittimità costituzionale della legge regionale campana 21 febbraio 1973, n. 7, istitutiva del Comune di Cellole, viene contestata sotto un duplice profilo. Per un verso, il pretore di Sessa Aurunca ritiene che tale legge contraddica il combinato disposto degli artt. 1 cpv. e 133 cpv. della Costituzione, in quanto la frazione di Cellole sarebbe stata separata dal Comune di appartenenza e costituita in Comune autonomo senza aver "sentite le popolazioni interessate" nella sola forma costituzionalmente consentita allo scopo, cioè ricorrendo all'indispensabile referendum consultivo […] per surrogare il referendum consultivo e per evitare che i Consigli regionali provvedessero arbitrariamente ad istituire nuovi Comuni ed a modificare le circoscrizioni comunali, bastava cioè che nel corso dei procedimenti formativi delle relative leggi venissero osservati – per quanto possibile – gli artt. 33 ss., della legge comunale e provinciale del 1934: con particolare riguardo alle norme attinenti "al modo di formazione e di accertamento della volontà autonomistica delle borgate o frazioni di Comuni e più ampiamente al modo di esteriorizzazione e conoscenza dell'avviso delle popolazioni comunque interessate", così da soddisfare – sia pure indirettamente – "la sostanziale esigenza di fondo" che tali popolazioni fossero sentite "attraverso i canali democraticamente adatti a coglierne gli interessi e le volontà" […]»; Corte Costituzionale, 21 aprile 1983, n. 107.

[11] Corte Costituzionale, 27 luglio 1989, n. 453.

[12] Corte costituzionale, 15 settembre 1995, n. 433.

[13] D.L. 24/06/2014, n. 90, Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari, in G. U. 24 giugno 2014, n. 144, Convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, L. 11 agosto 2014, n. 114. L'art. 23, comma 1, lett. f-ter), del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90 (convertito dalla legge 114/2014), prevede che: «l'articolo 20 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, è sostituito dal seguente: Art. 20. - (Disposizioni per favorire la fusione di comuni e razionalizzazione dell'esercizio delle funzioni comunali). - 1. A decorrere dall'anno 2013, il contributo straordinario ai comuni che danno luogo alla fusione, di cui all'articolo 15, comma 3, del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, o alla fusione per incorporazione di cui all'articolo 1, comma 130, della legge 7 aprile 2014, n. 56, è commisurato al 20 per cento dei trasferimenti erariali attribuiti per l'anno 2010, nel limite degli stanziamenti finanziari previsti in misura comunque non superiore a 1,5 milioni di euro. 2. Alle fusioni per incorporazione, ad eccezione di quanto per esse specificamente previsto, si applicano tutte le norme previste per le fusioni di cui all'articolo 15, comma 3, del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni. 3. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano per le fusioni di comuni realizzate negli anni 2012 e successivi». L'art. 1, comma 17 della L. n. 208/2015 raddoppia la percentuale di trasferimenti per le fusioni di comuni. Infatti il contributo per i comuni istituiti da fusione aumenta dal 20 al 40 per cento dei trasferimenti erariali (attribuiti per l'anno 2010) nel limite degli stanziamenti finanziari previsti ed in misura non superiore a 2 milioni di euro. Le modalità di riparto del contributo sono demandate all'approvazione di un decreto del Ministero dell'Interno, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali. In particolare, in caso di fabbisogno eccedente le disponibilità, è stabilito che venga data priorità alle fusioni o incorporazioni aventi maggiori anzianità. Tale priorità è assicurata anche ai fini del riparto delle eventuali disponibilità eccedenti il fabbisogno, nel qual caso occorrerà tener conto della popolazione e del numero dei Comuni oggetto della fusione o incorporazione. Per il 2016, vengono confermate le risorse statali stanziate per le fusioni di comuni, pari a 30 milioni annui. La legge di bilancio 2017 (allo stato ancora in corso d'approvazione) aumenta il contributo per i comuni istituiti.

[14] Corte Costituzionale, sentenza n. 261 del 3 ottobre 2011, depositata in Cancelleria il 7 ottobre 2011, disponibile all'URL: http://www.giurcost.org/decisioni/2011/0261s-11.html.

Prof. Luigino Sergio

già Direttore generale della provincia di Lecce

e-mail: luiginosergio@yahoo.it

Data: 29/11/2016 12:00:00
Autore: Prof. Luigino Sergio