Avvocati incompetenti, sanzionati d'ufficio
di Marina Crisafi - Giro di vite sugli avvocati impreparati e incompetenti. La sanzione disciplinare, infatti, scatta nei loro confronti anche aldilà dell'esposto da parte del cliente e dei danni eventualmente cagionati allo stesso. Ai fini della contestazione, è sufficiente che sia chiara la condotta addebitata e il Consiglio dell'Ordine può ben procedere d'ufficio. A stabilirlo sono le sezioni unite civili della Cassazione con la sentenza n. 25633/2016, pubblicata il 14 dicembre (qui sotto allegata) rendendo definitiva la censura inflitta ad una legale dopo che il giudice aveva respinto il ricorso in favore del suo assistito.
La vicenda
Nella vicenda, il Consiglio dell'ordine territoriale elevava per violazione degli artt. 8, 12 e 38 del codice deontologico forense la sanzione della censura nei confronti della professionista per aver accettato l'incarico di una lavoratrice che voleva agire in giudizio contro il proprio ex datore di lavoro "senza averne adeguata competenza e senza adempiere all'incarico con la dovuta diligenza".
In particolare, rilevava il Coa che non solo era "confusa" la descrizione dei fatti e le conclusioni rassegnate negli atti introduttivi del giudizio, ma soprattutto il ricorso conteneva domande e prove palesemente inammissibili ed errori di diritto "ingiustificabili" (come ad esempio la richiesta di reintegra della lavoratrice all'azienda con meno di 15 dipendenti, ecc.). Peraltro, era lo stesso giudice del lavoro a rilevare la superficialità degli atti della difesa.
A questo punto, l'ordine applicava la sanzione disciplinare della censura per la mancata diligenza e competenza da parte della legale e la stessa si rivolgeva al Consiglio Nazionale Forense, il quale tuttavia confermava la decisione dell'ordine territoriale.
Il Cnf osservava, in particolare, che il Coa ha il dovere di agire d'ufficio laddove venga a conoscenza di fatti rilevanti sul piano disciplinare e confermava la violazione deontologica in presenza di una prestazione improntata "a canoni di faciloneria e superficialità" e di una difesa "confusa, disarticolata, priva di alcuna linea e sostanza giuridica, con macroscopici e ingiustificabili errori di diritto".
L'avvocato non ci stava e ricorreva in cassazione ma gli Ermellini rispondono picche.
La decisione
La ratio decidendi della sentenza, ritengono dal Palazzaccio, è ben individuata e ripropone principi affermati più volte dal giurisprudenza di legittimità. È pacifico, proseguono, che il Coa abbia il potere/dovere di promuovere d'ufficio l'azione disciplinare allorquando "venga a conoscenza di fatti lesivi dell'onore dei professionisti iscritti e del decoro della classe forense". E l'esercizio di tale potere non è condizionato certo dalla tipologia della fonte della notizia dell'illecito disciplinarmente rilevante. Da qui "l'irrilevanza della apocrificità o meno dell'esposto attribuito alla assistita" (inserita tra le doglianze del legale). L'esposto ha costituito difatti soltanto "l'innesco occasionale per accertamenti officiosi dai quali è scaturito l'esercizio dell'azione disciplinare giammai una fonte di prova" si legge in sentenza. Del resto, persino, "in sede penale gli elementi contenuti in denunce addirittura anonime possono stimolare l'attività di iniziativa del pm e della P.g. al fine di assumere dati conoscitivi".
Ex art. 38 del codice deontologico forense, costituisce violazione dei doveri professionali, "il mancato, ritardo o negligente compimento di atti inerenti al mandato quando derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita". Il che comporta che, indipendentemente da profili civilistici di inadempimento e danno in pregiudizio del cliente, la condotta dell'incolpata - per l'inadeguatezza mostrata rispetto al diritto del lavoro e per la cattiva e maldestra esecuzione del mandato difensivo - rileva "autonomamente sul piano disciplinare".
Data: 15/12/2016 20:40:00Autore: Marina Crisafi