Cassazione: dare dell'omosessuale non è reato
Dott. Giuseppe Carpino - Rivolgere a taluno l'espressione "omosessuale" non integra il reato di diffamazione, in quanto si deve escludere che il termine in questione abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo. È quanto ha stabilito la quinta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza del 29 novembre 2016, n. 50659 (qui sotto allegata).
Per comprendere a pieno il problema, e conseguentemente apprezzare le conclusioni a cui è giunta la Suprema Corte, appare preliminare ricostruire il quadro normativo di riferimento. Nel nostro ordinamento il reato di diffamazione è un delitto posto a tutela dell'onore della persona ed è definito come l'offesa all'altrui reputazione, che deve essere comunicata a più persone con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di comunicazione.
Il bene giuridico tutelato dalla norma è la reputazione intesa come il senso della dignità personale, in conformità all'opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico (Cass. Pen., sez. V, 24 marzo 1995, n. 3247), ricadendo in tale ambito tutte le lesioni alle proprie qualità intellettuali, professionali e personali, sempre che, le affermazioni, abbiano effettivamente portata diffamatoria, travalicando il limite posto dalla legge penale alla libertà di pensiero sancita dall'art. 21 Cost.
La Suprema Corte ha, inoltre, precisato che integra la lesione della reputazione altrui non solo l'attribuzione di un fatto illecito, perché posto in essere contro il divieto imposto da norme giuridiche, assistite o meno da sanzione, ma anche la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio (Cass. Pen., sez. V, sentenza del 2008, n. 40359).
Al fine di valutare se vi sia stata lesione di tale bene la giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel ritenere che vada valutato il significato complessivo delle parole, scritte o pronunciate. La manifestazione offensiva ha un significato che per quanto collegato con le parole pronunciate o scritte non è sempre identico per tutte le persone. Ciò che rileva è il significato obiettivo: il senso che l'espressione ha nell'ambiente in cui il fatto si svolge, secondo l'opinione della generalità degli uomini, opinione di cui è interprete il giudice del fatto. Di conseguenza, la particolare suscettibilità dell'offeso non è presa in considerazione (Antolisei, Manuale di Diritto Penale, 2008, p.205).
Cio premesso, nel caso che ci occupa il Giudice aveva condannato alla sola pena pecuniaria ed ai soli effetti penali l'imputato per il reato di diffamazione commesso ai danni di un uomo identificandolo nell'ambito di una querela proposta nei confronti di altra persona come "omosessuale". L'imputato ricorreva in Cassazione contestando la natura offensiva del termine in questione e sostenendo come lo stesso abbia perso nel linguaggio comune qualsiasi connotato lesivo.
Gli Ermellini, nell'annullare la sentenza per insussistenza del fatto hanno evidenziato come secondo l'elaborazione tradizionale della stessa Cassazione e della dottrina, oggetto di tutela nel delitto di diffamazione è l'onore in senso oggettivo o esterno e cioè la reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi come il senso della dignità personale in conformità all'opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico (così tra le tante Sez. 5, n. 3247 del 28 febbraio 1995, Labertini Padovani ed altro, Rv. 20105401). In definitiva, secondo quella che viene comunemente identificata come concezione fattuale dell'onore, ciò che viene tutelato attraverso l'incriminazione di cui si tratta è l'opinione sociale del "valore" della persona offesa dal reato. Come noto, soprattutto in dottrina si è affermata anche una diversa elaborazione del concetto di "onore", da intendersi come attributo originario dell'individuo, costituendo esso un valore intrinseco della persona umana in forza della dignità che gli è propria e che non può essere negata dalla comunità sociale. Concezione questa ispirata al principio personalistico che pervade la carta costituzionale e che, superando, la dicotomia tra onore in senso soggettivo ed oggettivo propria della concezione fattuale, tende a ricondurre ad unità l'oggettività giuridica dei delitti previsti dagli artt. 594 e 595 c.p. 3.2 Le due concezioni trovano in ogni caso un punto di contatto nel distinguere la lesione della reputazione da quella dell'identità personale, che, secondo la definizione di autorevole dottrina, corrisponde al diritto dell'individuo alla rappresentazione della propria personalità agli altri senza alterazioni e travisamenti. Interesse che può essere violato anche attraverso rappresentazioni offensive dell'onore, ma che, al di fuori di tale ultimo caso, non ha autonoma rilevanza penale, integrando la sua lesione esclusivamente un illecito civile (Sez. 5, n. 849/93 del 6 novembre 1992, Tabucchi, Rv. 19349401).
La tipicità della condotta di diffamazione, prosegue la Corte, consiste nell'offesa della reputazione. E' dunque necessario, nel caso della comunicazione scritta od orale, che i termini dispiegati od il concetto veicolato attraverso di essi siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo. Fatta questa premessa, i Supremi Giudici affermano che è innanzi tutto da escludere che il termine "omosessuale" utilizzato dall'imputato abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto.
A differenza di altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio secondo i canoni del linguaggio corrente (cfr. Sez. 5 n. 24513 del 22 giugno 2006, M., inedita), il termine in questione assume infatti un carattere di per sè neutro, limitandosi ad attribuire una qualità personale al soggetto evocato ed è in tal senso entrato nell'uso comune. Precisa, inoltre, che deve escludersi che la mera attribuzione della suddetta qualità - attinente alle preferenze sessuali dell'individuo - abbia di per sé un carattere lesivo della reputazione del soggetto passivo e ciò tenendo conto dell'evoluzione della percezione della circostanza da parte della collettività, quale che sia la concezione dell'interesse tutelato che si ritenga di accogliere. Infine il termine utilizzato non può ritenersi effettivamente offensivo nemmeno se valutato nel contesto in cui è stato concretamente dispiegato, evocativo, secondo la sentenza impugnata e la persona offesa, dell'intento denigratorio dell'imputato. Infatti l'inconferenza, rispetto all'oggetto della denuncia presentata dal C., della precisazione circa il presunto orientamento sessuale del querelante non è di per sé in grado di rendere tipica l'offesa, anche nel caso, come quello di specie, in cui il soggetto passivo rivendica la propria eterosessualità. Circostanza che semmai rivela come la condotta dell'imputato sia al più riconducibile ad una lesione dell'identità personale della persona offesa, che, per le ragioni già illustrate, non è autonomamente rilevante ai fini della configurabilità del reato contestato.
Da qui, dunque, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per insussistenza del fatto.
Data: 22/12/2016 19:00:00Autore: Giuseppe Carpino