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La resilienza, dalla psicologia al diritto

L'educazione dei figli alla resilienza come dovere giuridico educativo dei coniugi


Abstract: L'Autrice indica come "dovere giuridico educativo" l'aiuto ai bambini a diventare adulti nella consapevolezza di quanto è dura ma ricca di possibilità, un'esistenza vissuta con la capacità di rialzarsi.

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro spiega: "La parola «resilienza» fa parte di quel gruppo di termini che indicano da secoli, talvolta da millenni, fenomeni ben noti sotto altro nome o in contesti diversi da quelli delle scienze umane, ma che, per essere relativamente nuovi, finiscono col richiamare l'attenzione perfino dell'opinione pubblica, arrivando a diffondere la convinzione che una parola «nuova» indichi un fenomeno nuovo. In realtà, non si tratta di una novità, ma di una qualità umana alla quale si faceva riferimento, tra gli altri sinonimi, con l'espressione «forza d'animo». Se volete mostrarvi al passo con i tempi, usate pure «resilienza», l'importante è sapere di cosa stiamo parlando. Il termine «resilienza» è ben noto in campo metallurgico per indicare la capacità di resistenza di un metallo alle forze che a esso vengono applicate. Se la resilienza manca o è scarsa, il metallo è fragile. Si capisce così la fortuna di questa parola, se è applicata agli esseri umani. Pietro Trabucchi ne dà questa definizione: «La resilienza psicologica è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino. Il verbo "persistere" indica l'idea di una motivazione che rimane salda». Abbiamo trovato un altro sinonimo: «persistenza»1.

In questo rapporto mutualistico tra linguistica, metallurgia e psicologia è interessante passare anche dalla psicologia al diritto per vedere quali siano i possibili riferimenti giuridici per la tanto richiamata resilienza.

Quello che scrive il geografo Franco Michieli, riferendosi all'esplorazione o alle scalate di montagne, si addice anche all'esplorazione e alla scalata della vita: "Vivere ore, ma anche minuti di dubbi, eppure andare avanti, è un'esperienza ponte che ci mette nei panni degli esseri viventi di ogni tempo e luogo. Se la leggiamo in positivo, aiuta a sentirci più vicini all'infinità di vite che per i più svariati motivi si trovano disperse. La bellezza di un luogo sta nell'infinità di storie che, là dentro, potrebbero avvenire e coinvolgerci. In fondo, l'evoluzione della vita si fonda sulle deviazioni: la natura stessa usa l'errore per generare la meravigliosa varietà dei viventi e la biodiversità. Oggi la vocazione di perdersi invita a superare quel tenersi ai margini per sentirsi al sicuro. Le scoperte a cui ci portano l'esperienza, la fatica fisica, il contatto con i piccoli fatti della vita, l'incertezza su dove porti un sentiero, sono forse più preziose del sentimento sublime elaborato al chiuso del pensiero. L'immersione nel corso della vita ci porta a sentirci più piccoli, anche nell'animo, e non più grandi. E forse questa forma di umiltà a cui conducono i cammini non pianificati, in cui avvengono tante cose che non dipendono dall'uomo, rivela qualcosa di più autentico sul sacro". Per affrontare la varietà e le difficoltà della vita (che ne fanno la bellezza) è sempre più necessario educarsi e educare alla resilienza.

Educare figli e bambini alla resilienza nella quotidianità: facendo toccare tutte le superfici, facendoli uscire anche quando fa freddo o piove. Tutto serve, tutto si conserva e torna quando necessario. Come si ricava dalle parole dello scrittore Aldo Nove: "La vita dura poco. È dura, estremamente dura, sempre. Lo impari da subito, quando le tue mani insicure toccano il legno per la prima volta e sentono che non è accogliente come il corpo di tua madre, ma è duro, e lo senti quando il freddo riempie le case"2. E anche dalle parole dello psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro: "Fallimenti, sofferenze, insuccessi. La vita è una sfida continua e dobbiamo allenarci, fin dall'infanzia, ad affrontare le difficoltà il nostro effettivo potenziale". Una potenzialità da educare e cui educare sin dalla nascita è la resilienza, la capacità di alzarsi dopo le cadute, di risalire dal fondo, di superare gli ostacoli (e non di aggirarli). Educare è far sì che le potenzialità diventino capacità o, meglio, competenze (e di certo la resilienza rientra tra le otto competenze chiave per l'apprendimento permanente richieste a livello europeo dal 2006), come previsto nell'art. 29, par. 1, lettera a Convenzione Internazionale sui Diritti dell'Infanzia: "[…] promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo, dei suoi talenti, delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutto l'arco delle potenzialità".

Già nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell'Infanzia si legge che: "[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali". Come spiega Fulvio Scaparro: "Occorre che chi ci accoglie in questo mondo ci insegni – meglio se lo fa con l'esempio – che il coraggioso ha paura come il vile. La differenza sta nel fatto che il coraggioso tenta di dominare la propria paura, e il vile ne è dominato. Di fronte alle difficoltà non dobbiamo dimenticare i nostri limiti. Dobbiamo essere abbastanza umili da non esporci a situazioni che non possono essere affrontate con i nostri mezzi limitati, confondendo il coraggio con la temerarietà. Il resiliente non è incosciente, ma scava dentro se stesso per trovare un modo realistico di superare gli ostacoli. Resilienza è sia fare i conti con la propria impotenza sia vincere la paura del domani".

La resilienza viene insegnata dalla vita stessa sin dalla nascita e dal modo di nascere, infatti il primo vagito, il primo impatto con l'aria, simboleggia la prima fatica e la prima frustrazione da sostenere. "Il mondo alla rovescia è quello che ci siamo trovati davanti alla nascita, e il nostro sforzo dovrebbe essere quello non di ri-rovesciarlo, ma di rimetterlo in paro" (il saggista Goffredo Fofi). Quando si cade si va a testa in giù e si vede il mondo in modo diverso: essere resilienti è rinascere dopo una caduta dandosi una spinta per riuscirci. E questo deve essere compreso dai genitori che devono educare alla resilienza per il bene dei figli e di tutti. L'accettazione sana del limite che inerisce alla vita umana consente di riconoscere che c'è altro da sé e, quindi, di ricomprendere l'idea della libertà. Il bambino va educato al limite, a riconoscere e accettare i propri limiti: anche questa è educazione alla resilienza. Come nella fiaba di Hansel e Gretel e in tante altre fiabe didascaliche. "La deponenza - precisa il sociologo Mauro Magatti - è il riconoscimento che, oltre la nostra azione, c'è qualcos'altro che non è un limite in senso negativo […], ma un limite sano che ci consente di stare al mondo"3.

"Come ci insegna la psicologia dell'età evolutiva, tutto lascia pensare che non siamo nati per soffrire e semplicemente sopravvivere, ma per vivere e sfuggire, per quanto possibile, al dolore. «La vita è l'insieme delle funzioni che resistono alla morte» (Bichat Xavier [fisiologo francese]). Ma il dolore c'è, gli ostacoli, i fallimenti, le frustrazioni ci sono. Non possiamo evitarli. Talvolta sono di tale portata che non possiamo che soccombere senza che qualcuno ci aiuti. È per questo che l'educazione alla resilienza deve iniziare fin dalla più tenera età. L'individuo resiliente non si arrende facilmente anche di fronte alle prove più dure; quello fragile (è il termine opposto a «resiliente») alza subito bandiera bianca" (F. Scaparro). Educare alla resilienza è educare all'autonomia, quell'autonomia di cui si parla espressamente solo nell'art. 23 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell'Infanzia in cui sono disciplinati i diritti dei bambini con disabilità. Questo deve indurre i genitori a riflettere che, se un bambino deve saper affrontare una forma di disabilità, ancor di più deve saper reagire di fronte ad ostacoli, fallimenti o altre esperienze negative.

Fulvio Scaparro aggiunge: "Troppo frequenti sono i casi di fragilità che osserviamo nei ragazzi e nelle ragazze. Di fronte alle inevitabili difficoltà che la vita presenta loro, non è rara la tendenza ad arrendersi, a piangersi addosso o a scaricare sugli altri le responsabilità personali. Chi ha la fortuna di essere stato educato alla resilienza, tende a rialzarsi dopo una caduta, a riprendere il cammino e a non perdere di vista la meta. A me sembra un aspetto di grande importanza nella formazione del carattere, ma ho qualche perplessità su molti esempi di adulti che predicano bene e razzolano male, perché so bene quanto i nostri figli siano sensibili alla coerenza tra il dire e il fare". "I genitori o le altre persone aventi cura del fanciullo hanno primariamente la responsabilità di assicurare […] le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fanciullo" (art. 27 par. 2 Convenzione Internazionale sui Diritti dell'Infanzia). Sviluppo è il contrario di avviluppamento e di questo sono "responsabilissimi" i genitori.

Per lo sviluppo, che sia tale, di un figlio occorre anche il codice paterno perché così lo richiede la vita. Quel codice paterno che è necessario pure per l'educazione alla resilienza, come esplicato dallo psicologo e psicoterapeuta Osvaldo Poli: "La ferita inferta dal padre riguarda esattamente questo: costringe il figlio a smettere di pensare la vita in termini infantili, quasi fosse un paradiso terrestre dove tutto è facile, senza fatica, dove nulla è richiesto per poter vivere e per avere un buon rapporto con gli altri. Anche i figli infatti debbono amare i genitori, accettando le condizioni che rendono possibile un rapporto ispirato a tale sentimento. Il padre chiede al figlio di "sacrificare" il modo infantile di affrontare la vita, rinunciando alle condizioni favorevoli o poco impegnative garantite sin a quel momento dalla famiglia e dalla mamma in particolare. Egli intende dire al figlio: renditi conto che la vita non dà tutto senza chiedere niente, non tutto il mondo "gira intorno a te" al solo scopo di renderti felice, e non puoi pensare che gli aspetti difficili e impegnativi semplicemente "non esistano", o che qualcun altro si debba sentire incaricato di rimuoverli"4.

Mai causare dolore ai bambini, ma abituarli al dolore, educarli al dolore, perché la vita è anche dolore (che, spesso, è l'altra faccia dell'amore): educarli alla resilienza è uno dei doveri educativi, è una delle esigenze della vita. "Chi provoca il pianto dei bambini non sarà perdonato. Ogni bimbo che nasce è una morte nuova sotto il cielo, è una strada possibile che il male può percorrere. [...] Ma il pianto di un bambino è un assoluto" (la scrittrice Mariapia Veladiano)5.

1 F. Scaparro in "Resistere con ponderazione" su Messaggero di sant'Antonio, settembre 2016, pp. 84-85

2 A. Nove in "Tutta la luce del mondo", ed. Bompiani, 2014

3 M. Magatti in "Prepotenza, impotenza, deponenza. È possibile un'altra narrazione del nostro futuro?", ed. Marcianum Press, Venezia, 2015, p. 48

4 O. Poli in "Cuore di papà. Il modo maschile di educare", San Paolo Edizioni, 2011

5 M. Veladiano in "Il tempo è un Dio breve", Einaudi Editore, 2012

Data: 03/01/2017 15:00:00
Autore: Margherita Marzario