Responsabilità medica: obiezione di coscienza e responsabilità penale del medico
Abogado Francesca Servadei - Con la legge 194 del 1978, "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza", è stato legittimato ed ha preso forma normativa, il fenomeno dell'aborto, prassi questa che, sino all'entrata in vigore di detta legge, veniva compiuta clandestinamente e che il più delle volte portava a conseguenze dannose se non alla morte della donna.
La ratio di tale corpo normativo, composto da 22 articoli, consiste nella maggior tutela possibile alla salute della gestante, nonché la facoltà di autodeterminazione della donna alla quale spetta il potere di interrompere o non interrompere la gravidanza; inoltre secondo quanto è disposto dall'articolo 14, il medico che esegue l'interruzione di gravidanza deve rendere edotta la donna non solo sulla regolazione delle nascite, ma deve anche renderla partecipe dei procedimenti abortivi, procedimenti questi che devono essere eseguiti nel rispetto della dignità della donna.
Una particolare attenzione deve essere soffermata sull'articolo 9 del citato corpo normativo, ove si legge che il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui all'articolo 5 e 7 ed agli interventi per l'interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza; si tratta dei c.d. "obiettori di coscienza".
A far luce su tale disposizione è stata la Suprema Corte con sentenza 14974 del 2013, con la quale la sesta sezione ha condannato ai sensi dell'articolo 328, Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione, ad un anno di reclusione il sanitario che si era rifiutato di prestare cure mediche alla paziente sottoposta ad interruzione di gravidanza mediante somministrazione farmacologica.
I giudici di piazza Cavour hanno ravvisato l'elemento oggettivo del citato articolo nel rifiuto del sanitario a visitare la donna, dopo l'intervento interruttivo, a seguito di richieste avanzate dall'ostetrica nonché dal primario e dal direttore sanitario, omettendo quindi un atto che, per ragioni di sanità, il sanitario in questione, la guardia medica, avrebbe dovuto porre in essere senza ritardo; il rifiuto è stato tradotto come un indebito, non trovando alcuna giustificazione in leggi ovvero in normativa amministrativa, mentre l'atto da compiere possiede il carattere dell'urgenza, in quanto il suo differimento avrebbe procurato delle conseguenze dannose alla salute nonché alla vita della donna.
Dalla lettura del III comma dell'articolo 9 citato si evince che l'obiezione non si riferisce all'assistenza antecedente e successiva dell'intervento e pertanto l'obiettore non può esimersi ad effettuare quelle cure (precedenti e postume) che assicurino la tutela della salute e della vita della donna. Da ciò si comprende che gli Ermellini di Piazza Cavour hanno sottolineato, alla luce della Legge 194/1978, che l'obiezione solleva il medico unicamente dal compimento delle procedure e delle attività necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza, diritto che peraltro trova il suo limite nella tutela della salute della donna, tanto è vero che il comma 5 dell'articolo 9 della citata legge esclude ogni operatività dell'obiezione di coscienza nei casi in cui l'intervento del medico obiettore, sia indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo. Nella fattispecie sulla quale si è pronunciata la Suprema Corte, il sanitario era stato chiamato ad intervenire nella fase, quale secondamento, ossia non nella fase in cui si è verificata l'interruzione della gravidanza, bensì nella fase successiva, per la cui inadempienza la vita della donna avrebbe corso rischio se non fosse intervenuto d'urgenza il primario.
Alla luce di quanto esposto è lecito affermare che il diritto di obiezione esonera il medico nell'esercitare le attività mediche che si traducono nel diretto intervento di interruzione della gravidanza, non riferendosi pertanto a quelle precedenti ovvero successive per le quali ne è responsabile.
Il diritto di obiezione, secondo quanto disposto dall'articolo 9 della Legge 194/1978, deve essere esercitato con preventiva dichiarazione, la quale deve essere comunicata al medico provinciale e nel caso in cui gli obbiettori siano dipendenti dell'ospedale ovvero dipendenti della casa di cura detta dichiarazione deve essere conosciuta anche al direttore sanitario delle rispettive strutture.
I termini entro i quali esercitare tale diritto sono: entro un mese dall'entrata in vigore della Legge 194/1978; entro un mese del conseguimento dell'abilitazione; entro un mese dall'assunzione presso enti ove si pratica l'interruzione di gravidanza, ovvero entro il medesimo termine da quando la struttura nella quale si esercita abbia stretto una convenzione con enti previdenziali che svolgano l'attività di interruzione di gravidanza. L'obiezione può essere revocata ovvero essere prestata fuori del termine indicato; in quest'ultimo caso l'efficacia della dichiarazione decorre trascorso un mese dalla presentazione al medico provinciale.
L'obiezione di coscienza deve intendersi revocata, con effetto immediato, laddove l'obiettore pone in essere quelle attività di interruzione di gravidanza che non rientrino nel diritto alla salute ed alla vita della donna; contrariamente laddove un obiettore intervenga, procurando un aborto, per salvare la vita alla donna, ovvero per tutelarla, la sua dichiarazione non perde efficacia, rimanendo lo stesso sanitario obiettore di coscienza, in quanto ha agito per la salvezza della vita della donna.
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Data: 17/01/2017 15:00:00Autore: Abg. Francesca Servadei