Avvocati: l'arringa troppo accesa non è diffamazione
La Cassazione precisa i limiti dell'esimente dell'immunità giudiziale ex art. 598 c.p.
di Lucia Izzo - Non capita di rado che gli avvocati e le parti in causa, negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati nei procedimenti dinanzi all'Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un'Autorità amministrativa, facciano uso di espressioni particolarmente "accese", che si muovono sul filo della diffamazione.
A tal proposito, nella recente sentenza n. 2507/2017 (qui sotto allegata), la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha precisato i limiti entro i quali tali espressioni possono essere utilizzate e "scusate" grazie all'esimente dell'immunità giudiziale prevista dall'art. 598 del codice penale.
Il ricorso è avanzato dalla parte civile a seguito dell'assoluzione, in sede di merito, dell'imputato ex art. 595 c.p. (diffamazione) in quanto la Corte d'appello aveva ritenuto che le dichiarazioni da costui rese non erano oggettivamente offensive della reputazione della persona offesa (mentre il primo giudice aveva affermato esattamente il contrario, scriminando, però, la condotta offensiva).
Il ricorrente deduce altresì violazione ed erronea applicazione dell'art. 598 c.p. in relazione all'art. 595, medesimo codice, e l'insussistenza dei presupposti applicativi dell'esimente della c.d. immunità giudiziale che ricorrerebbe in caso fosse accertabile un rapporto tra le offese e l'esercizio del diritto di difesa. Secondo la difesa, nel caso esaminato le offese sarebbero state non pertinenti con l'oggetto della controversia e si erano risolte solo in giudizi apodittici sulla persona offesa pronunciati in modo pretestuosamente denigratorio e sovrabbondanti rispetto al fine.
La Cassazione, tuttavia, rammenta che in tema di delitti contro l'onore, perché possa ricorrere la scriminante prevista dall'art. 598 c.p. (relativa alle offese eventualmente contenute in scritti presentati o discorsi pronunciati dalle parti o dai loro difensori in procedimenti innanzi alla autorità giudiziaria o amministrativa), è necessario che le espressioni ingiuriose concernano, in modo diretto ed immediato, l'oggetto della controversia e abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata o per l'accoglimento della domanda proposta.
Da un lato, dunue, deve ritenersi invalicabile il vincolo della rilevanza della offesa in ordine all'oggetto della controversia, dall'altro, deve ritenersi non possa sussistere alcun diritto a offendere persone che, essendo estranee e non collegate in modo diretto alla domanda proposta al giudice, non possono assumere alcun ruolo nel procedimento.
Ancora, prosegue il Collegio, in tema di diffamazione, l'esimente di cui all'art. 598 c.p., in base al quale non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati nei discorsi pronunziati dalle parti o dai loro patrocinatori innanzi all'autorità giudiziaria, costituisce applicazione estensiva del più generale principio posto dall'art. 51 c.p. (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) ed è applicabile anche alle offese contenute nell'atto di citazione, sempre che le stesse riguardino l'oggetto della causa in modo diretto ed immediato.
Deve essere esclusa, al contrario, la necessità che le offese abbiano anche un contenuto minimo di verità, o che la stessa sia in qualche modo deducibile dal contesto, in quanto l'interesse tutelato è la libertà di difesa nella sua correlazione logica con la causa a prescindere dalla fondatezza dell'argomentazione.
Ancora, precisano i giudici, la norma esaminata, nella parte in cui prevede il risarcimento del danno per le frasi offensive che "concernono" l'oggetto della causa, va inteso come riferibile a quelle offese che, pur non necessarie, siano comunque strumentali alla difesa, ed esso si pone in contraddizione solo apparente rispetto all'art. 89 c.p.c., che dispone il risarcimento soltanto per le frasi offensive che "non riguardano" l'oggetto della causa. Quest'ultima norma va infatti intesa come riferibile alle offese non necessarie alla difesa, sebbene ad essa non estranee.
Nel caso di specie, il giudice di appello ha correttamente applicato l'esimente della cd. immunità giudiziale, con ciò non incorrendo nella denunziata violazione di legge, spiegando che le due frasi offensive oggetto della iniziale contestazione penale, e cioè quella relativa alla "trasformazione del tribunale in luogo di dibattito politico" e quella relativa alla presentazione da parte dell'avv. di molteplici querele nei confronti dell'imputato, si inquadravano nel contesto di un altro processo per diffamazione nei confronti di un Consigliere regionale campano e, dunque, si contestualizzano proprio nell'ambito di una contesa politica amministrativa in cui la parte offesa aveva più volte denunziato l'imputato.
Non può dunque negarsi, per gli Ermellini, che vi fosse un collegamento tra le due frasi pronunciate, nel corso di spontanee dichiarazioni rese dall'imputato in dibattimento, e il thema decidendum della causa per diffamazione, come correttamente ritenuto anche dalla Corte distrettuale.
In sostanza, conclude la Cassazione, le espressioni utilizzate dall'imputato concernevano in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia e avevano un'evidente rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno delle sue tesi difensive, così legittimando l'applicazione della esimente in discussione. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.
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Data: 23/01/2017 21:10:00Autore: Lucia Izzo