Profili legali dei trattamenti di fine vita
Generalmente l'ordinamento giuridico non ha difficoltà a rimaneggiare le sue regole per adeguarsi alle mutate esigenze della coscienza sociale. Assistiamo continuamente al sorgere di nuove leggi e decreti, e la stessa giurisprudenza evolve quotidianamente nel tentativo di colmare la distanza tra il di legalità e la molteplicità della casistica. Il nostro sistema giuridico modifica continuamente le sue leggi e le sue regole, ma quando si tratta di intervenire su argomenti che investono problemi di natura etica e morale (come nel caso dei trattamenti di fine vita) assistiamo a una situazione di stasi del diritto.
L'ordinamento giuridico avverte ostacoli enormi nell'affrontare questioni che dividono l'opinione pubblica e questo favorisce il consolidarsi di un "vuoto legislativo" che lascia spazio a soluzioni interpretative inevitabilmente foriere di incertezza.
A ben vedere tutte queste difficoltà traggono origine da un equivoco di fondo e cioè dall'idea, sempre più diffusa, che il legislatore abbia il compito di individuare principi morali assoluti e porli alla base dei suoi interventi.
In un ottica di questo tipo la contraddizione risulta evidente giacché la morale si caratterizza proprio per essere l'espressione di una pluralità di opinioni e di credenze che divergono da soggetto a soggetto.
Dovremmo dunque comprendere che non esiste una morale uguale per tutti giacché ognuno di noi ha le sue proprie individuali tavole dei valori.
Il matematico Charles Ddogson, meglio conosciuto con il nome di Lewis Carroll, in un noto racconto intitolato Attraverso lo specchio, sembra voler offrire una possibile risposta a questo problema della morale e al nostro modo di porci di fronte ad essa.
Egli narra di una bambina che riesce a entrare all'interno dello specchio del suo salotto, catapultandosi in una realtà "altra" dove le regole del mondo visibile vengono completamente stravolte. L'immagine della protagonista che oltrepassa lo specchio ci pone di fronte a un dubbio: qual è la realtà vera, quella giusta e incontrovertibile?
La risposta di Lewis Carroll sembra essere: "dipende dai punti di vista".
Ed è proprio qui il nocciolo della questione.
Il diritto si rende conto che non esistono valori assoluti e condivisi da tutti e che non c'è modo di confezionare un vestito adatto per tutte le stagioni.
Questo non significa che il diritto non debba interessarsi della moralità. L'ordinamento giuridico deve certamente interessarsi dei valori morali ma nel senso che deve prendere atto della loro inestricabile molteplicità.
Se l'approccio per affrontare un problema come quello dei trattamenti di fine vita diventa questo, allora è molto più agevole trovare una soluzione dal punto di vista giuridico giacché il riferimento fondamentale e imprescindibile diventa la volontà e la libertà del singolo. La legge dovrà rispettare questa libertà finché tale libertà non vada a porsi in contrasto con la libertà degli altri.
Si tratta di un principio di civiltà giuridica dal quale non si può e non si deve prescindere.
Ogni volta che la legge vuole porre un limite alla libertà dell'individuo, deve giustificare questo "sacrificio" per la necessità di salvaguardare degli interessi contrapposti che siano meritevoli di tutela. Al di fuori di questo principio ogni prescrizione rischia di diventare un'intollerabile e ingiustificata ingerenza nella sfera individuale del singolo.
Come possiamo allora definire dal punto di vista giuridico le possibilità e i limiti di intervento del medico quando è di fronte a un malato terminale? Come definire in quale momento egli deve arrendersi alla morte?
Interrogativi questi a cui possiamo dare una risposta facendo riferimento ad alcuni principi generali del nostro ordinamento.
Innanzitutto occorre sgombrare il campo da ogni perplessità relativa a quelle situazioni in cui è conosciuta o conoscibile la volontà del paziente.
Sappiamo tutti che negli ultimi 15 anni il modo di concepire la relazione medico-paziente è profondamente cambiata. Di certo è venuto meno quel paternalismo medico che per secoli aveva caratterizzato il rapporto del medico con il proprio paziente. Oggi si è consolidata l'idea che in questa particolare relazione riveste un ruolo di centralità la volontà espressa dal paziente.
Non dobbiamo dimenticare che la stessa giurisprudenza considera la relazione medico - paziente come qualcosa che scaturisce da un contratto (si parla non a caso di responsabilità contrattuale del medico). Ma come si può ipotizzare che un contratto si formi senza l'incontro libero delle volontà?
Il paziente dunque deve essere parte di ogni decisione e deve poter decidere liberamente se sottoporsi a una determinata cura.
Ma al di la di ogni possibile considerazione teorica. Esistono principi costituzionali di estrema chiarezza sul punto.
Mi riferisco principalmente all'art. 32 della Costituzione in base al quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
Anche l'art. 34 del nuovo codice di deontologia medica sembra aver recepito tale principio laddove stabilisce che "Il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell'indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona. Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso".
La norma fa anche un esplicito richiamo alla cosiddette "direttive anticipate di trattamento" o living will di cui il medico non potrà non tenere conto.
Sulla scorta di questi principi alcuni giudici di merito hanno rafforzato il convincimento della centralità della volontà del paziente attraverso alcune pronunce che vale la pena citare.
Una sentenza della Pretura di Roma del 3 aprile 1997 ha assolto un medico che non aveva praticato la trasfusione a un testimone di Geova. Il giudice ha infatti rilevato che nella fattispecie il paziente non aveva dato il consenso al trattamento e che la trasfusione non è un intervento obbligatorio per legge ex 32 cost.
Un'altra significativa sentenza è quella resa dalla Corte di Assise di Firenze l'otto novembre del '90. La Corte nel condannare un medico che aveva operato una paziente senza il suo necessario consenso ha affermato senza mezzi termini che il paziente ha la libertà di rifiutare le cure e lasciare che la malattia segua il suo corso anche se questo possa risultare fatale.
In sostanza se la volontà del paziente è conosciuta perché dichiarata o perché precedentemente espressa dobbiamo riconoscere a tale volontà un valore preminente. Il paziente, se persona adulta, potrà dunque liberamente decidere di rifiutare ogni tipo di cura e non soltanto quelle che costituiscono forme di accanimento terapeutico. Egli potrebbe rifiutare anche una semplice idratazione e alimentazione artificiale se si tiene conto di quanto dispone l'art. 51 del codice di deontologia medica.
Il problema naturalmente si presenta più complesso quando la volontà del paziente non è conosciuta.
Sappiamo ad esempio che nei casi d'urgenza il medico non ha bisogno del consenso informato. La sua attività, priva del consenso, viene considerata lecita perché sussisterebbe la scriminante di cui all'art. 54 del codice penale (si tratta del cosiddetto stato di necessità che da facoltà al medico di intervenire sul paziente allorché sussista il pericolo attuale di un danno grave alla sua persona).
Di certo il medico si troverà di fronte a situazioni in cui è difficile compiere una scelta anche perché ogni sua decisione può essere fonte di responsabilità.
Certo sarebbe auspicabile che nel futuro il medico possa agire con maggiore serenità e non sotto la costante minaccia di una possibile azione penale specie quando si tratta di compiere scelte difficili e per le quali egli non può che fare appello alla propria coscienza.
La legge dovrebbe riconoscere il diritto del medico e del paziente a poter svolgere il loro incontro con maggiore tranquillità.
Nel frattempo, in base alle leggi vigenti cosa si può fare se il paziente non può esprimere la propria volontà?
Anche in questo caso occorre sgombrare il campo da un equivoco di fondo.
Si dice spesso che il medico ha il dovere di 'salvare la vita', Ma non si dice altrettanto spesso che il medico deve anche 'alleviare le sofferenze'.
Se leggiamo con attenzione la formula pronunciata dal medico durante il Giuramento Professionale ci accorgiamo che uno degli impegni fondamentali è quello di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza.
Richiamo questo piuttosto esplicito e che fa parte anche dei doveri del medico indicati dall'art. 3 del codice di deontologia.
Vi sono poi altre norme dello stesso codice a cui si può fare riferimento: Art. 14 - Il medico deve astenersi dall'ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita; Art. 37 "In caso di malattia a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all' assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita. In caso di compromissione dello stato di coscienza il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile".
In buona sostanza di volta in volta il medico dovrà compiere una valutazione comparativa per verificare fino a che punto sia utile una terapia.
Se ad esempio si vuole sottoporre un paziente a chemioterapia si sa che tale terapia darà delle sofferenze ma questo può trovare giustificazione se attraverso la cura si può allontanare la malattia e migliorare la qualità della vita. Se però ci si trova di fronte a un malato in fase terminale, una chemioterapia potrebbe non avere altro effetto che quello di dare al paziente inutili sofferenze senza alcun concreto beneficio. Ecco dunque che il medico deve valutare attentamente, nel caso singolo che dovrà affrontare, se sia opportuno o meno procedere a una determinata cura valutandone soprattutto la sua concreta utilità. E questo discorso deve valere per ogni tipo di trattamento di fine vita (sia esso chirurgico, di rianimazione o di idratazione e nutrizione artificiale).
Quello che il medico deve considerare è l'utilità della cura facendo appello principalmente al buon senso e alla ragionevolezza.
Probabilmente è necessario capovolgere il nostro punto di vista. Non si deve solo pensare ai doveri del medico, ma anche ai diritti del malato. E il malato ha diritto in primo luogo a evitare inutili inutili. Per questo se un intervento medico ha il solo effetto di prolungare la sua agonia essendo improbabile un esito positivo della cura non si vede quale possa essere il senso di un intervento di sostegno vitale.
Quando cura non serve a nulla (qualunque essa sia) siamo di fronte a un accanimento terapeutico che deve essere in ogni modo evitato a meno che non sia il paziente stesso a chiederlo.
Il malato non è solo un numero nella corsia di un ospedale, egli ha bisogno di sentirsi stringere le mani dai suoi cari, di avere vicino le persone che ama e di avere l'assistenza necessaria per poter affrontare un momento della vita con cui tutti prima o poi dovremo confrontarci.
Alleviare le sofferenze di chi è giunto al termine della propria esistenza è certamente un modo per rendere meno drammatico e più naturale quello che costituisce il termine ultimo e comune della vita di ognuno di noi. Forse il vero problema della morte è che ancora oggi non vogliamo riconoscere che c'è un modo per poterla affrontare con maggiore serenità e, magari, con un po' meno di ostinazione.
-------------------------------------------------
(Questo articolo è tratto da un intervento dell'Avv. Roberto Cataldi al seminario "Ultimi Passi: Accanimento terapeutico eutanasia o cure palliative?" tenutosi il 24-25 Maggio 2005 presso Palazzo Valentini Sala Di Liegro. Il Convegno si è svolto sotto l'Alto Patronato della Presidenza della Repubblica è stato organizzato di concerto tra Antea Formad e l'Università degli studi di Roma "Tor Vergata") Data: 08/07/2005
Autore: Roberto Cataldi