Effetto di patronage e pubblicità del gruppo bancario
Avv. Giampaolo Morini - La dottrina, a più riprese, ha sostenuto che l'iscrizione nell'albo dei gruppi creditizi (art. 64 d. lgs. 1 settembre 1993, n. 385) nonchè le altre forme di pubblicità del gruppo bancario e appartenenza a esso comporterebbe, nei fatti, una « manifestazione esterna »[1] ovvero un «effetto » di patronage a beneficio dei terzi in generale. A sostegno di entrambe le affermazioni si è addotto un passo delle Istruzioni di Vigilanza della Banca d'Italia, il quale parlava dell'« affidamento che i terzi fanno sulla circostanza che la capogruppo normalmente risponde delle obbligazioni assunte dalle singole componenti del gruppo »[2]. Altra corrente, ha invece ritenuto, di criticare la connessione di un « effetto » di patronage alla pubblicità del gruppo in quanto tale[3].
L'effetto di patronage e la pubblicità del gruppo bancario
In questa sede s'intende dimostrare che l' « effetto » di patronage e la pubblicità del gruppo bancario — determinano un collegamento tra detta pubblicità, l'affidamento della collettività e la responsabilità della capogruppo.
Occorre procedere dall'assunto secondo cui l'affermazione a mente della quale « se la pubblicità che consegue all'appartenenza al gruppo, tramite l'iscrizione all'albo, determina anche un frequente effetto di patronage della capogruppo per l'adempimento delle obbligazioni delle società del gruppo (cfr. Istruzioni, Sezione I), allora il sistema della direzione e dei suoi contrappesi ne esce ulteriormente rafforzato e...vanificato l'argomento che, nella (presunta) assenza di un'espressa disciplina, vuol trarre argomento per opporsi al riconoscimento della legittimazione del potere di direzione » si presta a « essere letta nel senso di introdurre — nella ricorrenza del duplice presupposto della direzione unitaria e dell'iscrizione nell'albo — una sorta di 'Zustandshaftung' o 'Strukturhaftung' (e cioè una specie di responsabilità oggettiva connessa allo 'stato di capogruppo con direzione unitaria')...». Anche se « difficile intendere rettamente la portata della tesi [dell'«effetto » di patronage] per mancanza di sviluppi »[4], essa pare nondimeno effettivamente sbilanciata sul riconoscimento della responsabilità oggettiva della capogruppo[5].
La tesi testè enunciata, è stata definita « rischiosa »[6]. Non si possono infatti ignorare le riflessioni della dottrina straniera e italiana, approdate al risultato, sostanzialmente conforme e abbastanza incontroverso, ovvero « la direzione unitaria e la gestione imprenditoriale tramite la capogruppo non danno vita di per sé, in linea di principio, a nessuna fattispecie di responsabilità » e che « il puntuale adempimento dei doveri di direzione unitaria da parte della capogruppo non può essere fonte di responsabilità per essa, ove tale responsabilità non derivi da altro titolo fissato dalla legge ».
Ciò non toglie tuttavia esplorare la rilevanza esteriore sul piano dell'assunzione istituzionale da parte della prima della responsabilità per le obbligazioni delle seconde[7].
La stessa tesi assertiva della responsabilità della società 'madre' conseguente a un supposto 'effetto' di patronage discendente dalla pubblicità del gruppo è stata censurata, altresì, perché 'riduttiva', « là dove condiziona la responsabilità della capogruppo all'iscrizione all'albo (ovvero da una pubblicità) »[8].
invero, se la responsabilità dipendesse esclusivamente da una o più forme di pubblicità, il risultato interpretativo non si presenterebbe riduttivo[9], ma non appropriato e anomalo dal punto di vista sistematico; nonché esorbitante le rationes ispiratrici delle prescrizioni legislative concernenti adempimenti pubblicitari riguardanti la struttura di gruppo bancario.
Sotto il profilo sistematico, il prospettato esito sarebbe inappropriato, poichè, ne uscirebbe avvalorata la qualificazione dell'adempimento di obblighi pubblicitari di legge come elemento costitutivo anche della responsabilità del soggetto gravato dagli obblighi medesimi; nonché anomalo, dal momento che dal sistema societario si ricava invece che la pubblicità realizzata tramite iscrizione incide favorevolmente sotto il profilo della responsabilità personale, essendo tutt'al più chiamata a svolgere il ruolo di coelemento [art. 2497, comma 2o, lett. c), c.c.][10] ovvero elemento (ad esempio, art. 2331, comma 2, c.c.; art. 2519, comma 2o; combinato-disposto artt. 2612 e 2615, comma 1o, c.c.)[11] costitutivo di limitazione della responsabilità.
Il risultato ermeneutico, così concludendo, si rivelerebbe altresì eccessivo alla luce di rationes e scopi delle prescrizioni pubblicitarie aventi a oggetto il gruppo bancario ovvero l'appartenenza a esso; in particolare, di quella che impone l'iscrizione in apposito albo, la cuipeculiare funzionalità è quella di rendere conoscibile ai terzi la composizione dei gruppi, a consentire alla collettività di valutare vantaggi e svantaggi dell'appartenenza di una società a un determinato gruppo, ad autorizzare l'affidamento unicamente sull'applicazione della specifica disciplina di riferimento impositiva di quella iscrizione.
L'iscrizione prescrive, che la capogruppo svolga un determinato ruolo all'interno della struttura di gruppo ed eserciti i diritti e adempia agli obblighi specifici indicati dalla legge con riguardo alle società del gruppo[12].
Si può comunque avanzare qualche dubbio sul fatto che la tesi dell'« effetto » di patronage davvero condizioni la responsabilità della capogruppo alla pubblicità del gruppo bancario realizzata in forza dell'iscrizione all'albo dei gruppi creditizi, se con tale condizionamento s'intende che sia tale pubblicità a determinare la responsabilità, in quanto, assieme, titolo e fatto costitutivo della stessa.
Una simile conclusione, sarebbe coerente solo con la seguente lettura della tesi in commento: la pubblicità «determina » un 'effetto' di patronage; identificato questo con l'affidamento generato nella collettività nella responsabilità della società 'madre' per le obbligazioni delle società 'figlie', ne discende che la pubblicità produce il peculiare affidamento, quindi la responsabilità.
Tuttavia il dubbio che le cose stiano così non è infondato. Infatti se ci si vuole attenere strettamente ai termini in cui è svolta la tesi dell'« effetto » di patronage, l'ultimo passaggio della proposta lettura non sembra né incontrovertibile né, a ben guardare, consequenziale. Chiaro, infatti, è esclusivamente che, secondo la tesi esposta, la pubblicità produrrebbe un 'effetto' di patronage, il quale a sua volta si risolverebbe nell'affidamento della collettività sulla responsabilità della capogruppo.
Meno chiaro, però, è come tutto ciò si traduca nella o conduca alla vera e propria responsabilità della società 'madre'.
Si possono solamente sollevare alcune supposizioni.
Una di queste, attendibile quanto quella che indica nella pubblicità l'« evento generatore » o il « fondamento» (inteso come fatto costitutivo, e non solo quale titolo) della responsabilità[13], è che si sia considerato automatico il passaggio dall'affidamento dei terzi nella responsabilità della capogruppo al riconoscimento di siffatta responsabilità. Procedendo a ritroso, la responsabilità sarebbe 'determinata' dall'affidamento in essa, che a sua volta verrebbe 'determinato' dalla pubblicità. dunque, a svolgere la funzione di fatto costitutivo della responsabilità sarebbe l'affidamento, mentre la pubblicità (l'iscrizione all'albo) risulterebbe rappresentare titolo della responsabilità medesima.
Seguendo tale ricostruzione (della tesi dell'« effetto » di patronage), la questione su cui porre l'attenzione muterebbe la sua configurazione originaria: non sarebbe più rilevante stabilire se la pubblicità del gruppo (derivante dall'iscrizione all'albo dei gruppi bancari) rappresenti titolo della responsabilità della capogruppo per le obbligazioni delle società 'figlie'; ma piuttosto di accertare se fatto costitutivo possa essere di per sé la lesione dell'affidamento ragionevole in codesta responsabilità suscitato dalla pubblicità del gruppo così ottenuta.
Al nuovo quesito si ritiene di potere e dovere dare risposta positiva.
Alla capogruppo deve essere chiesto di farsi carico di un'attribuzione di significato di patronage qualora altri pretendessero di operare nei confronti delle forme di pubblicità del gruppo bancario. La capogruppo deve sapere di questa attribuzione, perché in essa deve esistere la consapevolezza di un presunto significato obiettivo di patronage di fenomeni che ne sono privi. Questa capacità a possedere un'attitudine significativa di patronage rende non tutelabile un affidamento di segno contrario di terzi; è inoltre ragionevole e quindi tutelabile anche un altro affidamento, quello che la capogruppo ripone nel fatto che, in quanto tali, le forme di pubblicità del gruppo vengano intese nel traffico giuridico in quei significati certi e univoci, diretti e immediati, che obiettivamente loro appartengono.
Conseguentemente, ogni soggetto potrà riporre legittimo affidamento su questi significati altri dal patronage: questi affidamenti meriterano protezione e, e quindi potrà, dare luogo alla responsabilità della società a capo del gruppo bancario.
Si presenta a questo punto un duplice problema, di più ampia portata:
da una parte, se l'affidamento nella responsabilità della capogruppo per le obbligazioni delle società 'figlie', in quanto tale e in difetto di conformi indicazioni di diritto positivo, basti a fare sorgere la stessa;
dall'altra, se la rappresentazione del gruppo (non esclusivamente bancario) e dell'appartenenza a esso nel traffico giuridico possa generare, in sé e per sé e in difetto di una previsione di legge che la contempli, quella responsabilità.
Un identico risultato può rivelarsi esaustivo per entrambi i quesiti: l'isolato dato metagiuridico del presunto affidamento nutrito dalla collettività nel fatto che una specifica regola di correttezza e/o diligenza imporrebbe sempre e comunque alla capogruppo di addossarsi i debiti delle società « figlie » e di risponderne ove le proprie affiliate fossero inadempienti non sconfina di per sé nel giuridico, non risaltando come elemento bastante in quanto tale a riferire alla società « madre » una responsabilità per le obbligazioni delle società aderenti al gruppo.
Discorrendo della tesi messa a punto in Germania, secondo la quale « il concetto di apparenza giuridica...farebbe nascere la responsabilità della società controllante per la società controllata dallo affidamento dato ai terzi della esistenza di una tale corresponsabilità », avverte Salandra che per « poter parlare di affidamento, di apparenza giuridica meritevole della protezione della legge, deve essersi prodotta una situazione apparente obiettiva tale che un terzo di buona fede possa ragionevolmente credere corrispondente d una situazione reale. Ciò non avviene nel caso in esame... »[14].
Quanto al problema della sufficienza della mera rappresentazione nel traffico giuridico del gruppo e dell'appartenenza a esso nonché della semplice presenza della capogruppo con potere di direzione e coordinamento a determinare automaticamente, quali fatti apprezzabili dalla collettività, la responsabilità della capogruppo, merita ancora oggi di essere approvata l'opinione — anch'essa risalente agli albori degli studi italiani sui gruppi e formulata tra i primi sempre da Salandra — che non « può essere considerata fondamento sufficiente per l'assunzione di una responsabilità la vaga fiducia generata in chi contrae dalla notoria esistenza di un rapporto di controllo e la sua conseguente aspettativa di un intervento della società controllante a favore della società controllata »[15]. Come nessuna ragione di rilievo, dogmatico ovvero normativo, esiste per discostarsi dalla conforme, quasi coeva posizione assunta in argomento da uno scrittore dell'autorità di Ascarelli: « prescindendo dalla ipotesi di una eventuale società in nome collettivo tra società anonime, più di uno, e io tra questi, è contrario a far discendere dalla semplice sussistenza del gruppo una responsabilità di ciascuna società per i debiti dell'altra in base ad una malfida apparenza che dovrebbe sovrapporsi a quanto risulta dalla pubblicità sociale »[16].
Secondo Giuseppe Ferri: « nelle società collegate, nonostante la stretta connessione degli interessi economici, nessun vincolo sociale viene posto in essere, sulla cui materiale esteriorità possano trovare la base giuridica i rapporti fra l'ente sociale ed i terzi e sulla cui base possa quindi ammettersi una responsabilità della società madre...per le obbligazioni assunte dalla società figlia »[17].
D'altronde, queste idee sono state condivise, in tempi assai più vicini, dalla giurisprudenza di legittimità[18] e di merito[19]: essendosi data carico la prima, almeno in un'occasione, di puntualizzare che non è « concepibile una responsabilità di tipo fideiussorio al di fuori di un rapporto contrattuale di tal fatta, solo per il generico affidamento derivante al creditore di una società dalla presenza...di un'altra società avente il controllo sulla debitrice »[20]; e avendo avuto occasione la seconda di precisare, tra l'altro, che « la...applicazione concreta può essere ed è stata 'temperata'... anche dall'applicazione di principi fondamentali che non incidono però sull'inesistenza di una nozione giuridica di gruppo quale 'super-ente' in grado di vincere il diaframma della distinta soggettività degli enti che lo compongono »[21].
Sotto il profilo della inidoneità della mera rappresentazione nel traffico giuridico del gruppo e dell'appartenenza a esso di una società a determinare di per sé la responsabilità della capogruppo, si può constatare, infine, una perfetta sintonia e armonia della tesi qui seguita con l'orientamento cui si ispira in altre esperienze — soprattutto in Germania e Svizzera, ma anche in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti —, la più accreditata dottrina e parte consistente della giurisprudenza in materia di c.d. responsabilità da affidamento nella capogruppo e nel gruppo.
Nel diritto svizzero, ad esempio — in tempi recenti assai sensibile alla questione e dove gli ultimi sviluppi in argomento sono legati a diverse sentenze del Supremo Tribunale[22], la prima delle quali[23] ha richiamato l'attenzione, oltre che della dottrina elvetica, di studiosi di altri Paesi euro pei —, si ammette che sia i dati fenomenici del «semplice legame di gruppo » e della connessa rappresentazione unitaria del gruppo nel traffico giuridico, sia le « indicazioni di carattere generale in merito all'esistenza di una relazione di gruppo non possono ingenerare una responsabilità fondata sulla fiducia. Merita di essere protetta solo la fiducia che deriva da un comportamento della società madre suscettibile di evocare aspettative sufficientemente concrete e determinate» .
Similmente, autorevole dottrina ha coerentemente esplicita e conclude che il «semplice riferimento ad una società come 'figlia' inserita in una struttura di gruppo, la sua qualificazione come 'una società del gruppo X', come 'parte integrante del gruppo Y' e la sua collocazione nella gestione imprenditoriale della società capogruppo non costituiscono come tali fattispecie di affidamento giuridicamente tutelabili e non determinano perciò alcuna responsabilità da affidamento per le obbligazioni delle figlie...»
Azione di responsabilità nei confronti della capogruppo
Quanto alle condizioni per l'esercizio dell'azione, la responsabilità ex art. 2497 c.c. può essere fatta valere soltanto qualora il socio (soltanto il socio "attuale", secondo T. Milano, 28.1.2008, n. 1765: ad esempio, «il titolare di "warrant" prima dell'esercizio del suo diritto non può avere legittimazione ad agire nel quadro di questa norma, poiché non è in condizioni di lamentare il danno che quella è tesa a ristorare») o il creditore danneggiati non siano «stati soddisfatti dalla società soggetta alla direzione e coordinamento»: in altre parole, si presuppone l'intervenuto espletamento dell'azione nei confronti della seconda.
Pervero, non può sottacersi, a questo proposito, che questa "condizione" è affetta da una duplice erroneità: la prima, costituita dal fatto che i primi soggetti responsabili, in una siffatta situazione, sono gli amministratori (della controllata) e non la società; la seconda, relativa alla circostanza che in tal modo ancora una volta si dispone che debbano essere tratti dallo stesso patrimonio della società, in ipotesi, danneggiata, i fondi per risarcire i soci o i creditori pregiudicati. Peraltro, non si comprende proprio il senso delle menzioni, in quest'ambito, del socio, oltre che del creditore sociale: quanto a quest'ultimo, infatti, ci si trova al cospetto di un soggetto il cui diritto risulta, in linea di principio, perfettamente delimitato, sia quantitativamente sia qualitativamente, e riferito, appunto, alla società. Il creditore pretende la soddisfazione del suo credito, e lo pretende dalla società debitrice: non si tratta, dunque, di un risarcimento, bensì di un vero e proprio diritto di credito, e pertanto, non può formulare in questi sensi la sua richiesta nei confronti della controllante, neppure in virtù dell'art. 2497 c.c., posto che «deve essere esclusa la possibilità di estendere la responsabilità contrattuale verso terzi tra società controllante e società controllata (e viceversa) in virtù del rapporto di direzione e coordinamento che lega dette società, atteso che le stesse, al di là dei limitati casi e presupposti di responsabilità previsti tassativamente dall'art. 2497 c.c., rimangono due distinti e separati centri di imputazione giuridica, come si desume chiaramente per le società per azioni dagli artt. 2325 e 2331 c.c.» (T. Benevento, 21.8.2008, n. 1394; conf. T. Monza, 31.3.2005[24]). Questo diritto, qualora, per i comportamenti illeciti della controllante, viene ad essere leso, può trovare così soddisfazione, questa volta sì, sul piano risarcitorio, nei confronti di quest'ultima.
Con riferimento alla posizione del socio, la norma è totalmente priva di significato: il pregiudizio alla "redditività" ed al "valore" della partecipazione sociale non possono essere proprio in tesi risarciti dalla società controllata, in quanto, maggiore sarà il risarcimento dovuto, maggiore sarà la riduzione della "redditività" e del "valore" sopramenzionati, posto che il danneggiato resta sempre socio: di tal che, si tratta di un cane che si morde per sempre la coda. D'altronde, altrettanto ovvio è che «il socio, per la natura aleatoria del suo apporto e del risultato utile del bilancio, non può vantare pretese legittime di redditività»[25]: di tal che, l'utilità della norma si rinviene (soprattutto) nella situazione in cui la realizzazione di questi esiti non sia avvenuta per il comportamento tenuto dalla capogruppo. Tutto ciò conduce a ritenere che il socio possa agire nei confronti dei soggetti responsabili senza che debba verificarsi il previo o contestuale esperimento di alcuna azione nei confronti della società alla quale partecipa.
Profili soggettivi della responsabilità
Sul piano soggettivo, è esplicito il riferimento alle "società" e agli "enti", nonché a «chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio», con l'omissione delle persone fisiche: tale omissione, ad avviso di chi scrive, e nonostante la diversa dizione letterale della norma, pare doversi necessariamente risolvere nel senso di considerare incluse anche queste ultime, salvo a volere ritenere palesemente violati fondamentali principi costituzionali in tema di parità di trattamento; non essendo fondatamente prospettabili differenze tra soci/società e enti e soci/persone fisiche. E' altresì nota la genesi della norma: la versione originaria dell'art. 2497, 1° co., c.c. riguardava "chiunque" esercitasse quest'attività; e poi, nella stesura definitiva del testo del D.Lgs. 17.1.2003, n. 6[26] si è tramutato il "chi" in "le società o enti".
Invero, a prescindere dalle concrete motivazioni contingenti della modifica, sul piano formale la riformulazione dei soggetti interessati dagli artt. 2497 ss. c.c. derivava dalla vaghezza della disposizione originaria che sembrava potersi riferire anche a soggetti totalmente estranei all'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento[27]. Tuttavia, se è ben comprensibile che vadano esclusi dal novero di applicabilità della previsione coloro i quali – come la moglie di un imprenditore – possono trarre profitto da illegittime attività di direzione e coordinamento pur senza esservi stati mai coinvolti, pare del tutto diverso il caso della persona fisica che invece, benchè le abbia poste in atto, non sarebbe coinvolta in un'azione di responsabilità in quanto non è una società o un ente.
D'altronde è agevole la controprova di questo discorso: laddove non si condivida quanto qui esposto, la conseguenza non può che essere la negazione della possibilità, per soggetti diversi dalle società o dagli enti, di dirigere e coordinare un gruppo. Altrimenti, si dovrebbe riconoscere che, a seconda della (presenza o meno di una particolare) struttura organizzativa (società o ente, persona fisica) di chi svolge quell'attività, ne consegua in un caso la responsabilità e nell'altro la irresponsabilità: ciò che chi scrive non può che contestare.
Tale seconda opzione è evidentemente comprensibile e dignitosa quanto la prima: in tal caso, però, è agevole rispondere affermativamente alla domanda se sia possibile ritenere che laddove, in violazione del divieto, la persona fisica egualmente svolga quell'attività, non sia ad essa applicabile, interpretativamente, la medesima disciplina.
Ben si comprende allora perché, nei primi precedenti giurisprudenziali, e riprendendo un risalente arrêt della S.C. (C., Sez. I, 26.2.1990, n. 1439[28]), si sia senza mezzi termini affermato che «nell'ipotesi di "holding" di tipo personale, cioè di persona fisica che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie e svolga professionalmente, attraverso una stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società medesime (non limitandosi al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio), è configurabile un'autonoma impresa, come tale assoggettabile a fallimento, qualora la suddetta attività, sia essa di sola gestione del gruppo ("holding" pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria ("holding" operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio e, dunque, fonte di responsabilità diretta del loro autore, presentando un'obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima» (T. Napoli, 8.1.2007[29]). Con la precisazione che l'art. 2497 c.c. non «esclude che l'attività di direzione unitaria di un gruppo di imprese sia, nel concorso delle condizioni normativamente previste dalla legge fallimentare, assoggettabile alla procedura concorsuale».
I Limiti dell'attività di direzione e coordinamento degli amministratori della capogruppo
Da tutte le considerazioni sin qui svolte, sorge poi il problema della possibile qualificazione dell'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento come vero e proprio obbligo che cede in capo alla capogruppo: ciò che, nell'ambito del gruppo bancario, già per molti versi si riconosce[30], e che, quanto alla generalità delle imprese societarie, viene riproposto[31] alla luce della riforma societaria del 2003. Ci si è altrove domandato[32], cioè, se si possa affermare che – pur nell'indubbio silenzio degli artt. 2497 ss. c.c. sul punto –, qualora la capogruppo sia posta nella condizione di potere dirigere e coordinare il gruppo, lo debba poi effettivamente fare; ed, in caso di risposta affermativa, se questo dovere corrisponda ad un diritto di qualcuno, che, laddove violato, sia fonte anche di una responsabilità per la prima e per i suoi amministratori.
Pervero, non si ritiene che, al di fuori delle ipotesi in cui ciò sia esplicitamente stabilito (gruppo bancario, etc.), vi possa essere, fondatamente, in materia una legittima aspettativa all'esercizio di questo potere da parte delle società controllate e dei soggetti comunque interessati alle sorti di queste: questi ultimi potranno lamentare eventualmente il cattivo uso, ovvero l'abuso che la controllante ne dovesse fare, ma giammai l'omissione di un diretto intervento in tal senso. Non può cioè configurarsi nel diritto comune un effetto, pur considerato soltanto in senso lato, di patronage, a differenza di quanto accade, ad esempio, per la capogruppo di gruppo bancario, a carico della quale è invece stabilito un preciso obbligo di tutelare l'interesse alla stabilità del gruppo (art. 61, 3° co., t.u. l. banc.[33]).
La circostanza che non sussistano "doveri" di esercizio concreto della direzione unitaria, ma solo nel suo eventuale esercizio, a carico della controllante e dei suoi amministratori nei confronti della società controllata e dei soggetti che rientrano nella sfera d'influenza di quest'ultima, non esaurisce però il novero di soggetti che possono lamentare il mancato esercizio di un potere che, di fatto, esiste: ad avviso di chi scrive, infatti, l'obbligo certamente può ravvisarsi (tra l'altro, nelle numerose disposizioni civilistiche che individuano precisi vincoli a carico degli "amministratori", in tema di bilancio, di organi delegati, di collegio sindacale, e persino di controllo giudiziario va sicuramente ravvisato), ma questo cede soltanto a carico degli amministratori della controllante, non anche della società stessa. Conseguentemente, il suo mancato rispetto determina una responsabilità di questi ultimi ex artt. 2392, 2393, 2393 bis e 2394 c.c., nei confronti dei soggetti legittimati a farla valere, e non già, almeno in linea di principio, e salvo l'esame di specifici casi particolarissimi, ex art. 2395 c.c. o 2497 c.c., e comunque, non nei confronti delle società controllate, e dei loro soci o creditori sociali. Diversa potrebbe al più essere l'ipotesi in cui, nell'ambito delle società di diritto comune, sia fatta la pubblicità di cui al successivo art. 2497 bis c.c.: laddove, cioè, la controllata dichiari di essere sottoposta all'attività di direzione e coordinamento di altro soggetto, il quale, a sua volta, non proponga iniziative volte a "smentire" tale asserzione.
In argomento, altra peculiarità risiede nel fatto che la legittimazione a "reagire" alle gravi irregolarità in tal senso commesse dal soggetto che esercita attività di direzione e coordinamento viene posta esclusivamente in capo agli organi di controllo interno ed ai soci "di quest'ultimo" – ove naturalmente applicabile – e non anche "delle società controllate", nell'ambito dei patrimoni delle quali, in tesi, il danno si produce. Elemento, questo, utile nella dimostrazione di come l'inadempimento degli amministratori della controllante agli obblighi di gestione delle controllate rilevi solo come violazione dei doveri nei confronti della prima, e non anche delle seconde. Peraltro, la nuova formulazione dell' art. 2409 c.c. suona come un'implicita conferma di quanto affermato in precedenza: cioè, utilizzando l'espressione di cui la dottrina si era avvalsa ben prima della riforma del 2003, e che, in tal modo, non può ritenersi abbia perso d'attualità, «quando la capogruppo assume la direzione unitaria del complesso i suoi amministratori restano ex lege obbligati a perseguire l'interesse di tutte e singole le società partecipanti, "limitatamente", però, alle funzioni gestorie effettivamente centralizzate»[34]. Insomma, la gestione della capogruppo si sostanzia anche nel dirigere e coordinare le società controllate: comportamento che, in quest'ottica, è senz'altro doveroso, senza che però in tal senso si possa reputare superata o elisa la netta separazione che comunque persiste tra società controllante e controllate[35].
Qualificazione della responsabilità ex art. 2497 c.c.
In conclusione, qualche cenno si può prospettare in merito alla qualificazione della responsabilità della capogruppo per il cattivo esercizio della direzione unitaria. Prima della riforma societaria del 2003, erano autorevolmente sostenute sia la tesi della responsabilità contrattuale – dalla quale si faceva discendere come conseguenza, tra l'altro, che "non occorrerebbe provare l'esistenza di particolari direttive vincolanti, di una particolare vessazione o soggezione della volontà degli amministratori della controllata: sarebbe sufficiente dimostrare proprio l'estremo della direzione unitaria"[36] – , sia quella della responsabilità extracontrattuale: la ricostruzione della qualificazione di questa responsabilità ha difatti dato adito a molte discussioni ed alla formulazione delle più varie tesi della dottrina e della giurisprudenza intorno a questa – obiettivamente complessa – problematica[37].
Questo tema con la surrichiamata riforma del 2003 è tornato di attualità: non vi è dubbio che il legislatore con la norma in commento abbia tentato, seppure non in maniera esplicita – in tal caso, si sarebbe certo resa quantomeno più ostica una diversa ricostruzione – , di ricacciare il problema nella extracontrattualità[38]. Ed anche i primi precedenti giurisprudenziali affermano univocamente che «l'abuso dell'attività di direzione e controllo da parte della società controllante, nei confronti dei creditori delle società controllate, rientra nella fattispecie della responsabilità extracontrattuale» (T. Napoli, Sez. IV, 28.5.2008[39]; T. Roma, 17.7.2007; T. Pescara, 3.2.2009).
Tuttavia, la dottrina più arguta si ostina, anche nell'analisi della disciplina dell'art. 2497 c.c., a ravvisare in questa stessa norma un'ipotesi di responsabilità non extracontrattuale, bensì contrattuale[40], prospettando che il comportamento illecito del socio che abusa della maggioranza di cui dispone sostanzierebbe una violazione del "contratto coi consoci" per la corretta gestione societaria ed imprenditoriale della società, o, alternativamente, come si riferiva all'inizio, soffermandosi sulla base del proposto dovere per la capogruppo di esercizio dell'attività di direzione e coordinamento. Con tutta la rilevanza, anche sul piano del funzionamento dell'onere probatorio, che tale affermazione determina: insomma, sul piano della responsabilità della capogruppo pure dopo la riforma il dibattito resta ben vivace ed acceso.
Avv. Giampaolo Morini
legalfinancegpm@gmail.com
[1] ZAMBONI GARAVELLI, Il gruppo creditizio: profili di vigilanza, in La ristrutturazione della banca pubblica e la disciplina del gruppo creditizio, Banca d'Italia. Quaderni di ricerca giuridica della Consulenza Legale, n. 26, 209; Titolo I-Capitolo 2 (Gruppi Bancari), Nuovo fascicolo « Istruzioni di vigilanza per le banche » (Banca d'Italia, Circolare 21 aprile 1999, n. 229)
[2] Istruzioni, 13 gennaio 1992, cap. LII del volume delle Istruzioni di Vigilanza per gli enti creditizi intitolato « Gruppi creditizi », Sezione I.
[3] CARIELLO, Capogruppo e patronage alla collettività, Milano, 2002 , capitolo I.
[4] PORTALE, Gruppi e capitale sociale, in I gruppi di società, cit., III, 1839 (di cui sono gli ultimi due virgolettati nel testo).
[5] BLANDINI, Direzione unitaria e responsabilità nei gruppi. Riflessioni a proposito del gruppo bancario, Napoli, 1999, 204
[6] PORTALE, Gruppi e capitale sociale, in I gruppi di società,
[7] VISINTINI, Principi e clausole generali nella disciplina dei fatti illeciti, in Clausole e principi generali nell'argomentazione giurisprudenziale degli anni novanta, a cura di Cabella Pisu e Nanni, Padova, 1998, 406)
[8] PORTALE, op. cit.
[9] Portale, qualificando riduttiva la tesi che sancisce la responsabilità della capogruppo per le obbligazioni delle società 'figlie' in forza della pubblicità del gruppo ottenuta tramite l'iscrizione all'albo, si richiama a un duplice ordine di considerazioni: la tesi è riduttiva perché connette la responsabilità alla pubblicità del gruppo invece che ad altro; nonché perché sottintende che questa pubblicità da sola basti a fare sorgere quella responsabilità.
[10] IBBA, Pubblicità e responsabilità nella s.r.l. unipersonale, in Giur. comm., 1994, I, 266 ss.
[11] MARASÀ, Consorzi e società consortili, Torino, 1990, 77
[12] MOLITERNI, Commento all'art. 64, in Commentario al testo unico in materia bancaria e creditizia, a cura di Capriglione, cit., seconda edizione, Tomo I, Padova, 2001, 495
[13] MAZZONI, Le lettere di patronage, Milano, 1986, 28 s., secondo il quale, peraltro, « in tema di patronage la prospettiva della responsabilità 'di posizione' non coincide ora per eccesso, ora per difetto con quella della responsabilità 'da dichiarazione' »: 32
[14] SALANDRA, Il diritto delle unioni di imprese (Consorzi e Gruppi), Padova, 1934, 191 s.
[15] SALANDRA, op. cit., 192.
[16] ASCARELLI, Problemi preliminari nella riforma delle società anonime, in Foro it., 1936, IV, 31.
[17] G. FERRI, Responsabilità dell'unico socio di un'anonima, in G. FERRI, Scritti giuridici, III, Tomo II, Napoli, 1990, 735.
[18] Cass., 9 maggio 1985, n. 2879
[19] Trib. Alba, 25 gennaio 1995.
[20] Cass., 9 maggio 1985, n. 2879.
[21] Trib. Napoli, 21 marzo 1991.
[24] Trib. Monza, 31.03.2005
La circostanza che un socio disponga, direttamente e/o indirettamente dell'intero capitale sociale di una società di capitali, non comporta la confusione del patrimonio personale del primo con quello della seconda, e perciò i creditori dell'uno, pur se socio sovrano o tiranno, non possono aggredire i beni dell'altra, sottraendoli alla loro primaria funzione di garanzia dell'adempimento delle obbligazioni sociali. Invece, proprio per rafforzare questa funzione, a norma dell'art. 2497, comma 2, c.c., nella formulazione previgente a quella introdotta dall'art. 7 D.Lgs. 3 marzo 1993 n. 88, nel caso di insolvenza di una società a responsabilità limitata, per le obbligazioni sorte nel periodo in cui le quote sociali siano appartenute ad un solo socio, questi ne rispondeva illimitatamente con il suo patrimonio.
[25] Weigmann, La nuova disciplina, 16
[26] Pubblicato nella Gazz. Uff. 22 gennaio 2003, n. 17, S.O. Nel presente decreto sono state riportate le rettifiche e le correzioni di cui al Comunicato 4 luglio 2003 (Gazz. Uff. 4 luglio 2003, n. 153), al Comunicato 4 luglio 2003 (Gazz. Uff. 4 luglio 2003, n. 153) e al Comunicato 18 luglio 2003 (Gazz. Uff. 18 luglio 2003, n. 165). Con riferimento al presente provvedimento sono state emanate le seguenti istruzioni:
- Ministero delle attività produttive: Circ. 25 febbraio 2004, n. 3572/C; Circ. 28 maggio 2004, n. 3578/C.
[27] Enriques, Gruppi di società e gruppi di interesse, in Il nuovo diritto societario, tra società aperte e società private, a cura di Benazzo, Patriarca, Presti, Milano, 2003, 247 ss.
[28] Cass. civ. sez. I, 26.02.1990 n. 1439
A capo di un gruppo di società può esservi una holding societaria o individuale: ambedue queste figure possono qualificarsi imprenditori commerciali se, con apposita organizzazione e continuità professionale, esercitano un'attività di direzione, coordinamento e programmazione delle società commerciali controllate, idonea ad incrementarne sul piano economico o profitti (in tal caso l'impresa è comune a più imprenditori, ossia le società che l'esercitano direttamente la holding pura operativa che la esercita indirettamente); o anche, in alternativa, se esercitano una funzione soltanto ausiliaria, di finanziamento o di tesoreria o di procacciamento di affari o di servizi resi alle società commerciali controllate, purché tale attività sia svolta in nome proprio ed economicamente remunerata.
[29] Trib. Napoli sez. VII, 08.01.2007
Nell'ipotesi di "holding" di tipo personale, cioè di persona fisica che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie e svolga professionalmente, attraverso una stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società medesime (non limitandosi al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio), è configurabile un'autonoma impresa, come tale assoggettabile a fallimento, qualora la suddetta attività, sia essa di sola gestione del gruppo (holding pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria ("holding" operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio e, dunque, fonte di responsabilità diretta del loro autore, presentando un'obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima.
[30] Blandini, Direzione unitaria e responsabilità nei gruppi. Riflessioni a proposito del gruppo bancario, Napoli, 2000, passim
[31] Sacchi, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nelle società di capitali, in Gco, 2003, pag. 668 ss.
[32] Blandini, Categorie di quote e categorie di soci, Milano, 2009
[33] 61. Capogruppo.
1. Capogruppo è la banca italiana o la società finanziaria con sede legale in Italia, cui fa capo il controllo delle società componenti il gruppo bancario e che non sia, a sua volta, controllata da un'altra banca italiana o da un'altra società finanziaria con sede legale in Italia, che possa essere considerata capogruppo (158).
2. [La società finanziaria è considerata capogruppo quando nell'insieme delle società da essa controllate abbiano rilevanza determinante, secondo quanto stabilito dalla Banca d'Italia in conformità delle deliberazioni del CICR, quelle bancarie, finanziarie e strumentali] (159).
3. Ferma restando la specifica disciplina dell'attività bancaria, la capogruppo è soggetta ai controlli di vigilanza previsti dal presente capo. La Banca d'Italia accerta che lo statuto della capogruppo e le sue modificazioni non contrastino con la gestione sana e prudente del gruppo stesso.
4. La capogruppo, nell'esercizio dell'attività di direzione e di coordinamento, emana disposizioni alle componenti del gruppo per l'esecuzione delle istruzioni impartite dalla Banca d'Italia nell'interesse della stabilità del gruppo. Gli amministratori delle società del gruppo sono tenuti a fornire ogni dato e informazione per l'emanazione delle disposizioni e la necessaria collaborazione per il rispetto delle norme sulla vigilanza consolidata.
5. Alla società finanziaria capogruppo si applica l'articolo 52 (160).
(158) Comma così modificato dalla lettera e) del comma 1 dell'art. 1, D.L. 27 dicembre 2006, n. 297.
(159) Comma abrogato dalla lettera e) del comma 1 dell'art. 1, D.L. 27 dicembre 2006, n. 297.
(160) Comma così sostituito dall'art. 9.18, D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, inserito dall'art. 2, D.Lgs. 6 febbraio 2004, n. 37. Vedi, anche, la disciplina transitoria di cui all'articolo 6 del citato decreto legislativo n. 37 del 2004.
[34] Abbadessa, I gruppi di società nel diritto italiano, in I gruppi di società, a cura di Pavone La Rosa, Bologna, 1982, 144
[35] Galgano, Il punto sulla giurisprudenza in materia di gruppi di società, in CeI, 1991, spec. 900 s.
[36] Martorano, Gruppo di imprese e amministrazione straordinaria, in DF, 1984, I, 82
[37] Blandini, Categorie di quote e categorie di soci, Milano, 2009, pag. 171 ss.
[38] Sbisà, Sulla natura della responsabilità da direzione e coordinamento di società, in CeI, 2009, 809 ss.
[39] App. Napoli sez. IV, 28.05.2008
In merito al risarcimento del danno, la prescrizione di cui all'art. 2947 c.c. inizia a decorrere non dal momento in cui il fatto del terzo determina la modificazione che produce danno all'altrui diritto, ma dal momento in cui la produzione del danno e della sua ingiustizia si manifesta all'esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile usando l'ordinaria diligenza. (Cass. civ., n. 12666/03). Deve, inoltre, considerarsi che il fatto illecito di cui all'art. 2947 c.c. non consiste solo nella condotta materiale dell'agente, ma è costituito anche dall'evento dannoso che si sia estrinsecato in modo percepibile, perché altrimenti non si può parlare di inerzia del titolare del diritto. E' questa la ragione per la quale la Cassazione ha ritenuto, con sentenza del 21 febbraio 2003, n. 2645, che il termine di prescrizione per un soggetto che ha subito il contagio di una malattia infettiva comincia a decorrere non dal momento del contagio, ma da quello in cui il soggetto leso comincia ad avvertire i sintomi della malattia e ad approfondire le indagini circa la sua sussistenza e pericolosità.
[40] Weigmann, La nuova disciplina, 157; Abriani, Gruppi di società e criterio dei vantaggi compensativi, in Gco, 2002, I, 613 ss.; Sacchi, 669; Scognamiglio, Danno sociale e azione individuale nella disciplina della responsabilità da direzione e coordinamento, in Abbadessa, Portale, Il nuovo diritto delle società Liber Amicorum Gian Franco Campobasso, III, Torino, 2007, 959 ss.; Guerrera, "Compiti" e responsabilità del socio di controllo, in RDS, 2009, 512 ss. E v. anche Mazzoni, Regoli, Parere sullo schema governativo espresso dai componenti del Collegio dei docenti del dottorato di ricerca in diritto commerciale interno ed internazionale, in RS, 2002, 1507, che ravvisano la possibilità di una duplice responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale
Data: 22/07/2017 18:00:00Autore: Giampaolo Morini