La colpevolezza di "Ignoto 1" o delle ignote garanzie
Caso Gambirasio
A distanza ormai di qualche giorno dalla sentenza della Corte d'Assise di Appello di Brescia che ha confermato la precedente pronuncia di condanna all'ergastolo, emessa del Tribunale di Bergamo, per l'imputato Massimo Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio, torna in auge e, forse, s'inasprisce, il dibattito relativo alle garanzie processuali.
Senza entrare nel merito della colpevolezza o meno dell'imputato, si ritiene necessaria una riflessione sul nostro sistema processuale penale e sulle potenziali, goffe e paradossali falle della norma 111 della Costituzione.
L'intera riflessione è mossa da un interrogativo di fondo al quale cerchiamo di dare risposta: il nostro ordinamento processuale penale risente di vecchi retaggi del processo inquisitorio ?
Il principio dialettico, l'oralità, la formazione della prova in contraddittorio sono principi ancora cardini del nostro ordinamento?
A ben giudicare, i principi poc'anzi richiamati, in realtà, rischiano di essere decapitati, sacrificati drammaticamente sull'altare di una irripetibile "prova scientifica" che, seppur portatrice di una evidenza, tuttavia, qualora prodotta al di fuori del contraddittorio, senza consentire alcuna contro-valutazione difensiva, è da considerarsi irritualmente prodotta.
La deriva del rispetto delle forme
Ed è questa una delle principali patologie del nostro sistema processuale: la deriva del rispetto delle forme. Il processo è fatto di forma e il diritto è rispetto della forma.
La riforma del processo penale introdotta nel 1989, adottando il principio accusatorio a discapito del principio inquisitorio, si augurava di impedire la condanna di un imputato sulla base di prove raccolte "solo" dal Pubblico Ministero (fatta eccezione, chiaramente, per i casi ove vi sia consenso delle parti).
Vi è di più, nel 1999, il legislatore novellando l'art. 111 della Costituzione, consacra definitivamente il rito accusatorio dotando di dignità costituzionale principi come il giusto processo, il contradditorio tra le parti in condizioni di parità, la formazione della prova in contraddittorio, l'imparzialità del giudice, la ragionevole durata del processo.
Orbene, il comma quinto dell'art. 111 della Costituzione contempla i casi in cui "la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita"
Et voilà, appare chiaro ed evidente il retaggio del vecchio processo inquisitorio. L'accertata impossibilità di natura oggettiva del contraddittorio rende la "prova" fornita dal Pubblico Ministero perfettamente legittima.
Pertanto, volendo ragionare applicando tali considerazioni al caso Bossetti, possiamo desumere come, in linea di principio, l'ordinamento non cade in errore fino al momento in cui il Pubblico Ministero raccoglie prove, (nel caso di specie in materia di DNA) senza tener conto dell'imputato, non essendo lo stesso ancora individuato all'epoca della raccolta della prova.
Tuttavia tale ragionamento viene messo in crisi nell'istante in cui l'imputato è individuato, e dunque compare sulla scena processuale. In tal caso, il principio accusatorio non può indietreggiare, essendo un diritto costituzionale ferreo e sacrosanto quello secondo cui l'imputato ha diritto ad esigere, per tutte le attività compiuta dal Pubblico Ministero, il contraddittorio in sede peritale con annesse contro-valutazioni sulla prova dedotta dalla pubblica accusa, per mezzo di consulente nominato dal giudice.
Ove non si concedesse l'opportunità di una controprova a discarico, allora, in questi casi, il diritto alla difesa verrebbe barbaramente mortificato. E il nostro ordinamento processuale non consente tali soprusi.
Perfino ove l'impossibilità oggettiva fosse dettata dall'esiguo o dall'esaurito campione di una prova, anche in questo caso, comunque, il giudice dovrebbe non astenersi dal disporre una verifica peritale sugli accertamenti compiuti dalla pubblica accusa senza contraddittorio.
In conclusione, tale vicenda ci offre uno spunto per riflettere sull'effettivo e concreto pericolo di una minacciosa reviviscenza del processo inquisitorio, oltre a qualche suggestiva domanda.
E' possibile condannare sulla scorta di un accertamento così decisivo, come la prova del DNA, senza che su tale accertamento s'instauri un contraddittorio? Si può condannare per impossibilità oggettiva di contraddittorio ?
E se la risposta fosse affermativa, forse, non staremmo tornando indietro, sprofondando in quello scuro e minaccioso principio inquisitorio?!
Alla Cassazione l'ardua sentenza.
Autore: Pierluigi Abenante