È reato non dichiarare i redditi dei figli nell'Isee
Madre condannata per falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico. Per la Cassazione non rileva la circostanza affermata dal genitore di non aver avuto conoscenza dei redditi dei congiunti
di Lucia Izzo - Va condannata per falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico la madre che non ha inserito i redditi dei figli nelle informazioni rilevanti ai fini della dichiarazione ISEE. A nulla rileva la circostanza di non averne avuto conoscenza.
Sulla questione si è pronunciata la Corte di Cassazione, sezione Feriale Penale, nella sentenza n. 42896/2017 (qui sotto allegata).
La vicenda
I giudici di merito avevano confermato la responsabilità di una donna per il reato di cui all'art. 483 c.p. (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico), poiché aveva presentato una dichiarazione utile ai fini della ricostruzione dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) non veritiera, in quanto nella stessa non erano indicati i redditi percepiti dai figli.
In Cassazione, l'imputata si difende affermando che i giudici abbiano irragionevolmente desunto il dolo dall'inserimento del nominativo dei figli nella dichiarazione ISEE, ma ciò non dimostra affatto che la donna fosse a conoscenza dei redditi percepiti dai figli, i quali, sebbene dimoranti con lei, erano sempre stati silenti circa i propri redditi.
Inoltre, soggiunge la ricorrente, il ragionamento della Corte di merito appare contraddittorio nella parte in cui evoca un obbligo di accertamento della condizione reddituale dei figli, laddove il modus vivendi di costoro, che rivolgevano alla madre continue richieste di denaro giustificate dalla mancanza di occupazione, era più che eloquente in ordine alle loro condizioni economiche.
Conclude ritenendo sia una pretesa illogica "esigere la verifica materiale e/o contabile della situazione patrimoniale dei figli della ricorrente, in assenza di emergenze storico-fattuali di segno opposto".
Redditi dei figli non inseriti nell'ISEE: è reato
Per la Cassazione il ricorso non merita accoglimento. Sotto il profilo soggettivo, infatti, nessuna incongruenza o caduta di logicità è ravvisabile nel ragionamento della Corte d'appello, che ha fatto leva sull'inserimento dei figli nella dichiarazione sostitutiva unica e sul fatto che nessuna indicazione, circa il reddito di costoro, era stata fornita.
Il semplice inserimento del nominativo dei congiunti, senza però contestualmente dichiararne i redditi, bastava per i giudici a dedurre la consapevolezza dell'imputata circa l'obbligo di tener conto dei redditi dei figli e di indicarli nel loro ammontare.
Tale consapevolezza, peraltro, non è negata nemmeno dalla ricorrente, la quale si è trincerata, piuttosto, dietro l'affermazione di non sapere quale fosse il reddito dei figli.
Questa dichiarazione totalmente negativa, prosegue il Collegio, è effettivamente "emblematica di una omissione consapevole e inescusabile", giacché la convivenza, non negata, della madre con i figli dimostra, da sola, che la donna sapeva dell'esistenza di redditi in capo a costoro.
Pertanto, se avesse voluto rispettare il dettato normativo, avrebbe dovuto informarsi circa il loro ammontare e, non riuscendovi, avrebbe dovuto astenersi dal rendere la dichiarazione o, al massimo, farne menzione nella DSU.
Il suo silenzio sul punto è effettivamente indicativo, quindi, della sua consapevole volontà di omettere un dato rilevante per la determinazione dell'indicatore della situazione economica equivalente e, quindi, del dolo richiesto nella specie.
Prive di pregio sono, conclude la Cassazione, le ulteriori deduzioni della ricorrente sul punto, ad esempio sul fatto che i figli fossero "bamboccioni" e avanzassero continue richieste di denaro, pur lavorando "saltuariamente", giacché non intaccano il ragionamento della Corte di merito, fondato su dati certi e altrimenti indicativi della situazione psicologica della dichiarante in ordine all'attestazione cui era tenuta.
Autore: Lucia Izzo