Avvocati: illecito accusare il collega di comportamenti maliziosi
Per il CNF il diritto di difesa non scrimina l'offesa al collega che va sanzionata come illecito disciplinare
di Lucia Izzo - L'esercizio del diritto di difesa e critica non può tradursi in una facoltà di offendere, dovendo in tutti gli atti e in tutte le condotte processuali rispettarsi il dovere di correttezza, anche attraverso le forme espressive utilizzate.
Pertanto, commette un illecito disciplinare l'avvocato che accusa il collega avversario, difensore della Curatela, di comportamenti volutamente "maliziosi" e diretti, non all'esercizio delle sue funzioni di Curatore, bensì a ottenere l'adempimento di diritti a vantaggio del Fallimento.
Lo ha stabilito il Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 111/2017 (qui sotto allegata) pronunciandosi sul ricorso di un avvocato a cui il competente COA, a seguito di un procedimento disciplinare, aveva irrogato la sanzione della censura.
La vicenda
Al legale, difensore di un'impresa (presunta) debitrice della fallita, a seguito di un (secondo) giudizio di opposizione a precetto (intentato dopo l'estinzione del primo), veniva contestato di aver rivolto al collega, curatore del fallimento, affermazioni offensive nei suoi scritti difensivi.
Tra l'altro, questi aveva affermato che, nel suo operato, il collega aveva "negligentemente, ignorato ciò che ben poteva conoscere", si era posto "colposamente in una situazione di inconsapevolezza" e aveva "maliziosamente e colpevolmente serbato un silenzio malizioso, nella consapevolezza della non sussistenza di una forte probabilità dell'esistenza del diritto di credito azionato".
Tutto questo "non già con l'intenzione di andare ad esercitare un diritto nell'interesse pubblico" a cui era tenuto quale pubblico ufficiale, bensì allo scopo "di coartare con la minaccia della procedura esecutiva", per ottenere in tal modo "risultati non dovuti nell'an e nel quantum".
Ancora, nei carteggi si sottolineavano i "comportamenti equivoci" e la "maliziosa inerzia" del collega Curatore, che non avrebbe così "adempiuto agli obblighi su di esso gravanti", danneggiando l'impresa (presunta) debitrice con la sua "colposa (o dolosa) violazione".
Prosciolto in un precedente procedimento, l'avvocato non sfugge alla condanna per responsabilità disciplinare dopo aver ripetuto le sue espressioni "sconvenienti e offensive" nel secondo degli atti di citazione in opposizione, violando così l'art. 20 del Codice Deontologico Forense (ora art. 52 NCDF) e gli obblighi di lealtà e correttezza nell'espletamento del mandato difensivo.
Innanzi al CNF, il ricorrente lamenta violazione del divieto di "bis in idem", sostenendo di essere già stato giudicato e prosciolto con riferimento alla medesima condotta, sostenendo che la sua condotta sarebbe stata carente del necessario "animus iniuriandi"e le sue espressioni prive dei caratteri richiesti dalla norma deontologica (offensività e sconvenienza).
Avvocati: il diritto di difesa non può tradursi in offese al collega
Nonostante il "peculiare" caso di specie (assoluta identicità delle espressioni usate dal legale nel successivo atto di citazione in riassunzione) per il Collegio non sussiste un "bis in idem" in quanto la condotta giudicata nel secondo giudizio non è la stessa di quella vagliata nel precedente sotto il profilo fattuale, storico e temporale, proprio a causa della sua reiterazione.
Quanto all'elemento soggettivo dell'illecito, è evidente la sussistenza di una consapevole volontà dell'incolpato circa l'atto compiuto (c.d. "suitas" della condotta), sufficiente a fondare l'illecito disciplinare. Le espressioni usate, inoltre, appaiono chiaramente irrispettose e lesive della figura professionale del collega.
Nell'ambito della propria attività difensiva, spiega il CNF, l'avvocato deve e può esporre le ragioni del proprio assistito con rigore, utilizzando tutti gli strumenti processuali di cui dispone, ma il diritto della difesa incontra un limite insuperabile nella civile convivenza, nel diritto della controparte o del giudice a non vedersi offeso o ingiuriato.
In sostanza, l'esercizio del diritto di difesa non può travalicare i limiti della correttezza e del rispetto della funzione, al punto da fungere da scriminante dell'illiceità deontologica di espressioni esorbitanti, perché non pertinenti nè necessarie a sostenere la tesi adottata, gratuitamente offensive nei confronti del collega e, come tali, non rispettose dei generali doveri di dignità e decoro ai quali l'avvocato è comunque tenuto a conformarsi.
Il Consiglio, dunque, conferma la responsabilità disciplinare a suo carico, riformulando la sanzione in quella attenuata dell'"avvertimento" (come previsto dal nuovo Codice Deontologico all'art. 52) in adesione al principio del favor rei.
Autore: Lucia Izzo