Cassazione: colpire zone vitali è tentato omicidio
Avv. Francesca Servadei - La I Sezione della Corte di Cassazione con sentenza del 19 settembre 2017, numero 42797 (sotto allegata) ha enunciato un importante principio di diritto alla luce del quale, dal combinato disposto dell'articolo 56 e 575 del Codice Penale, nel reato di tentato omicidio, rispetto al reato di lesioni, sussiste un elemento aggiuntivo che va oltre l'evento realizzato, atto a determinarne uno più grave rispetto al bene giuridico stesso ovvero al bene giuridico superiore, non riuscendo ad arrecarlo per cause estranee alla volontà dell'agente, così come statuisce l'articolo 56 del Codice Penale.
La fattispecie
Il ricorrente, sia in primo che in secondo grado era stato condannato per il reato di rapina e tentato omicidio, avendo lo stesso inferto ben venti colpi di cacciavite alla persona offesa, sia al volto che al capo, al fine di sottrargli il portafogli. I giudici di merito evidenziavano come il cacciavite era stato usato come pugnale e come il rapinatore avesse in un secondo momento istigato i correi ad uccidere la persona offesa; sottolineavano poi che la direzione nella quale i colpi erano stati sferrati era idonea a cagionarne la morte con l'intento omicida; inoltre veniva evidenziato che non vi era stata desistenza e che il portafogli era stato sottratto dopo che la persona offesa era al suolo sanguinante. Nel ricorso per Cassazione, la difesa sussumeva che l'elemento psicologico non si traduceva nella volontà di uccidere, bensì in quello di ledere e che la desistenza vi era stata per volontà del ricorrente una volta sottratto il portafogli.
Cassazione: colpi inferti in zone vitali è tentato omicidio
Gli Ermellini di Piazza Cavour riprendono un consolidato orientamento, rievocando il granitico orientamento espresso dalla I Sezione Penale con sentenza numero 37516 del 22 settembre 2009, alla luce della quale: "Nel primo reato l'azione esaurisce la sua carica offensiva nell'evento prodotto, mentre nel secondo vi si aggiunge un quid pluris che, andando al di là dell'evento realizzato, tende ed è idoneo a causarne uno più grave in danno dello stesso bene giuridico o di un bene giuridico superiore, riguardanti il medesimo soggetto passivo, non riuscendo tuttavia a cagionarlo per ragioni estranee alla volontà dell'agente".
Dal Palazzaccio aggiungono poi che dalla relazione del Pubblico Ministero si evince la volontà del soggetto agente a provocare la morte della persona offesa. Alla luce di questi aspetti il giudice ha inquadrato la fattispecie in omicidio, sottolineando che "Il giudizio di idoneità, come è stato ripetutamente sottolineato, consiste in una prognosi con riferimento alla situazione che si presentava all'imputato al momento dell'azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili nel caso particolare. I giudici di merito si sono attenuti a tali parametri ed hanno correttamente concluso, riconoscendo la idoneità degli atti in funzione omicidiaria".
Inoltre la Suprema Corte riprende l'orientamento espresso sempre dalla I Sezione (con pronuncia n. 32851/2013), statuendo che l'animus necandi è ritenuto di esplicita incidenza dimostrativa, a dimostrazione di ciò vi è il mezzo usato per inferire colpi alla vittima, un cacciavite, dotato di una grave potenzialità offensiva, alla distanza ravvicinata con la vittima, alla zona compromessa - viso e capo - alla forza con cui i colpi sono stati inferiti ed al numero di questi. Nella sentenza in esame, i giudici di piazza Cavour riportano anche altre sentenze (tra cui la n. 43036/2012), con cui affrontano la tematica del tentativo ravvedendone gli estremi. Nella decisione i giudici di legittimità concordano altresì con le conclusioni di merito in quanto dalla testimonianza della persona offesa, nonché dalle perizie cliniche sulla stessa sono emerse le gravissime lesioni alla scatola cranica ravvisabili nella fattispecie della volontà omicida.
Inoltre in sede di legittimità la difesa lamentava la sanzione applicata dal giudice di merito, ma la Suprema Corte così statuisce: "Le censure non si confrontano con la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013). Pertanto il giudice di merito, con la enunciazione, anche sintetica, della eseguita valutazione di uno (o più) dei criteri indicati nell'art. 133 c.p., assolve adeguatamente all'obbligo della motivazione; infatti, tale valutazione rientra nella sua discrezionalità e non postula un'analitica esposizione dei criteri adottati per addivenirvi in concreto (Sez. 2, n. 12749 del 19/03/2008,; Sez. 4, n. 56 del 16/11/1988)".
La S.C., nella fattispecie in esame, ravvede infine il vincolo della continuazione con il conseguente aumento di pena affermando che non è necessaria una specifica motivazione per i reati satellite, essendo sufficienti le ragioni di quanto è stato quantificato per la pena base. Alla luce di quanto espresso la Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente.
Avv. Francesca Servadei
Studio legale Servadei
Lariano (Roma)
Mobile 3496052621
E-mail: francesca.servadei@libero.it
Data: 11/11/2017 16:00:00
Autore: Francesca Servadei