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Reati societari: rapporti tra distrazione, appropriazione ed infedeltà

Le condotte di appropriazione, distrazione ed infedeltà nei reati societari


Avv. Lucia Apuzzo - La condotta distrattiva è presente in diversi delitti: l'art. 255 c.p. (soppressione, falsificazione o sottrazione di atti e documenti concernenti la sicurezza dello Stato); l'art. 616 c.p. (violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza) ed, in particolare, l'art. 216 l. fall. in tema di bancarotta fraudolenta. «Un tratto comune alle varie condotte di distrazione indubbiamente esiste, nel senso che tutte esprimono deviazione da uno scopo prefissato. E' però una nota così generica che si stempera nella fisionomia di ogni singola fattispecie»[1]. Insomma, la condotta di distrazione, diversamente dall'appropriazione indebita (art. 646 c.p.), non si traduce nell'ambito del sistema penale, in una norma vera e propria, capace di dar vita ad una fattispecie autonoma. Di conseguenza, a causa dell'indeterminatezza della nozione di distrazione, la verifica dei rapporti intercorrenti tra le condotte appropriative e quelle distrattive, risulta alquanto problematica.

Condotta distrattiva: la giurisprudenza

Con la storica sentenza delle Sezioni Unite del 23 maggio 1987, che sanciva la natura privatistica dell'attività bancaria, la Cassazione aveva escluso che la concessione abusiva di fido bancario potesse realizzare la fattispecie di appropriazione indebita, poiché il reato di appropriazione indebita previsto dall'art. 646 c.p., postula che il possessore si comporti verso la cosa come se fosse propria, compiendo cioè sulla stessa quegli atti che potrebbe compiere solo il proprietario, mentre nella concessione abusiva di un fido bancario, in cui l'operatore bancario travalica i limiti fissati dalle norme o dalle direttive che regolano gli affidamenti, siamo in presenza di una condotta distrattiva[2]. Successivamente, con la sentenza del 28 febbraio 1989, la Cassazione ha modificato in parte il precedente orientamento, definendo in modo più articolato i concetti di distrazione e appropriazione, ammettendo «la configurabilità del reato di appropriazione indebita nel caso in cui il dipendente dell'istituto bancario abbia concesso di fatto un fido al cliente, violando in collusione con lo stesso, le norme sugli affidamenti stabilite dagli istituti[...]. Se, infatti, l'appropriazione si concreta anche con il dare alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificano il possesso, ne consegue che, allorquando il dipendente dell'istituto di credito, nel concedere il fido al cliente, travalichi i limiti fissati dalle norme o dalle direttive che regolano gli affidamenti, egli pone in essere una condotta che rientra nella previsione dell'art. 646 c.p. [...], poiché «realizzando un'arbitraria attribuzione di beni della banca a favore di terzi, compie un atto di disposizione uti dominus, si comporta cioè come se la cosa fosse propria. Qualora, poi, ciò avvenga in collusione con il cliente abusivamente favorito e al fine di procurargli un ingiusto profitto, si realizza anche l'estremo soggettivo del reato di cui all'art. 646 c.p. che consiste appunto nella volontà di invertire il titolo del possesso per trarre dalla cosa un ingiusto profitto per sé o per altri».[3].

Tale sentenza, come osserva Bellacosa[4], fornisce i criteri per distinguere i comportamenti distrattivi da quelli appropriativi. Non sarà sufficiente un semplice comportamento infedele dell'operatore bancario che si sia tradotto nella concessione abusiva del fido, ma occorrerà, perché si versi in una fattispecie di appropriazione indebita, che l'abuso abbia le caratteristiche di irreversibilità e definitività nell'impiego delle somme, nel senso che il denaro sia erogato come un vero e proprio stanziamento a fondo perduto, ovvero come una regalia a favore del cliente.

La diversità concettuale tra appropriazione e distrazione

Esiste, pertanto, una innegabile diversità concettuale tra le attività di appropriazione e di distrazione. Nella prima, «l'agente è soggettivamente ed oggettivamente orientato ad impadronirsi della cosa, cioè ad instaurare un completo dominio su di essa, immettendola nel proprio patrimonio; nella distrazione, la condotta dell'agente è rivolta semplicemente ad un uso arbitrario del bene, con impiego per fini diversi da quello cui il bene era destinato»[5]. Nonostante le diversità, deve comunque essere condivisa la tesi, che considera l'appropriazione come una modalità specifica della condotta distrattiva che rappresenta il genus nel cui ambito va ricompresa l'appropriazione[6]. Riaffiora l'immagine proposta da Delitala[7] dei due cerchi concentrici di raggio diverso in cui la distrazione, per le sue modalità esecutive più generiche e onnicomprensive di destinazione della cosa ad un fine diverso ed incompatibile con quello cui era destinata, è caratterizzata dal cerchio maggiore, mentre il cerchio minore dell'appropriazione si risolve in una vera e propria situazione di espropriazione del bene, in cui il proprietario del bene perde in maniera definitiva qualsiasi rapporto con la res.

Il rapporto tra infedeltà patrimoniale e appropriazione indebita

Particolarmente controverso appare, poi, il rapporto tra infedeltà patrimoniale ed appropriazione indebita, cui la giurisprudenza ricorreva al fine di poter punire le condotte inquadrate oggi, dopo la riforma (d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61), nel delitto di cui all'art. 2634 c.c.. Le due condotte sono in rapporto di reciprocità, appartenendo entrambe alla generale categoria delle condotte distrattive, ma, mentre l'infedeltà patrimoniale, traducendosi in un abuso di gestione dei beni sociali, si caratterizza per un uso arbitrario del bene che viene impiegato per fini diversi da quello cui era destinato, nell'appropriazione indebita di beni sociali, l'amministratore si comporta verso il bene come se fosse proprio, sottraendolo alla società in maniera irreversibile e definitiva, espropriando, cioè, la società del bene[8].

La giurisprudenza è intervenuta più volte sui rapporti tra le due fattispecie.

Con la prima sentenza del 7 ottobre 2003[9] la Cassazione ha stabilito che l'art. 2634 c.c. disciplina sia situazioni di conflitto d'interessi, sia condotte non tipizzate di abuso di gestione, puntualizzando che l'infedeltà patrimoniale è lex specialis rispetto all'appropriazione indebita (art. 646 c.p.), ossia in rapporto di specialità unilaterale[10], presentando una serie di elementi specializzanti quali il conflitto d'interessi, gli atti di disposizione dei beni sociali, oltre all'intenzionalità della condotta. Nelle successive sentenze[11], la Suprema Corte, ha chiarito che il reato di appropriazione indebita può trovare ancora applicazione nell'ambito societario, quando gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori si siano resi responsabili di atti di aggressione al patrimonio sociale, evidenziando che «l'intento del legislatore sia quello di punire [...] l'eccesso di potere per sviamento», mentre nell'appropriazione indebita l'agente pone in essere atti di aggressione del patrimonio, appropriandosi del denaro o della cosa mobile dell'ente, di cui abbia la disponibilità in ragione della carica.

Nel reato di infedeltà patrimoniale, in particolare, sono diversi i soggetti, trattandosi di reato proprio, ma soprattutto sono i requisiti che la caratterizzano, quali il conflitto d'interessi, gli atti di disposizione dei beni sociali da cui deve scaturire un danno patrimoniale alla società, l'intenzionalità del danno patrimoniale, il dolo specifico che, oltre l'ingiusto profitto, ricomprende anche qualsiasi altro vantaggio, che la rendono ontologicamente diversa dall'appropriazione indebita[12].

Comunque sia, che si voglia ritenere che tra le due fattispecie esista una relazione di specialità unilaterale o, viceversa, un rapporto di specialità reciproca[13], non v'è dubbio che le due figure sono ontologicamente e concettualmente diverse e trovano applicazione in contesti diversi e differenziati[14]. Infatti, come rileva la Cassazione[15], l'appropriazione indebita si traduce in atti di aggressione del patrimonio sociale, con cui l'amministratore si appropria di denaro o di cose mobili di cui ha la disponibilità in ragione della carica, l'infedeltà patrimoniale si riferisce ad atti di abuso di gestione in cui il bene sociale, a seguito di atti di disposizione da parte dell'amministratore, subisce una destinazione diversa da quelli che sono i suoi fini istituzionali.

«Il delitto d'infedeltà è configurabile, allorquando l'amministratore, per perseguire una finalità di profitto per sé o per altri ai danni della società, si avvalga degli schemi negoziali tipici della gestione d'impresa: acquisto e vendita di beni, pagamenti o forniture di prestazioni. E' invece integrato il fatto tipico appropriativo nell'ipotesi in cui l'amministratore, muovendosi al di fuori dell'attività negoziale, realizzi un arricchimento personale o di terzi, mediante l'arbitraria acquisizione dei beni sociali. In tali circostanze l'amministratore si avvale della posizione funzionale rivestita per realizzare ai danni della società, il comportamento uti dominus, proprio come un qualsiasi soggetto attivo dell'appropriazione indebita»[16].

Avv. Lucia Apuzzo

luciapuzzo88@gmail.com

[1] G. MARINUCCI, Distrazione, in Enc. Dir., vol. XIII, Milano, 1964, p. 310 ss.

[2] Cass., sez. unite, 23 maggio-16 luglio 1987, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, p. 695.

[3] Cass., sez. unite, 28 febbraio-17 luglio 1989, in Giust. pen., 1989, II, p. 513

[4] M. BELLACOSA, Obblighi di fedeltà dell'amministratore di società e sanzioni penali, collana Luiss, Giuffré, 2006, p. 187-188.

[5] Così A. D'AVVIRO- E. DE MARTINO, I reati di bancarotta societaria, cit., p. 69.

[6] R. BARTOLI, La distinzione tra appropriazione e distrazione e le attuali esigenze di tutela penale, in Dir. pen. proc., 2001, n. 9, p. 1137.

[7] G. DELITALA, Concorso di norme, concorso di reati, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1934, p. 104 ss.

[8] A. D'AVVIRO- E. DE MARTINO, I reati di bancarotta societaria, cit., p. 70.

[9] Cass., sez. V, 7 ottobre 2003, M. 38110, in Giur. comm., 2004, II, p. 599.

[10] F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 487.

[11] Cass., sez. I, 24 giugno 2004, in Riv. pen., 2004, 1080; Cass., sez. II, 26 ottobre 2005, 40921, in Ced. Cass. pen., 2005, 222525.

[12] A. D'AVVIRO- E. DE MARTINO, I reati di bancarotta societaria, cit., p. 71.

[13] Come è stato affermato in una recente sentenza della Cassazione, Cass. pen., 1 febbraio 2012, n. 4244.

[14] M. BELLACOSA, Obblighi di fedeltà dell'amministratore di società, cit., p. 199.

[15] Cass., sez. II, 26 ottobre 2005, m. 4092.

[16] Così M. BELLACOSA, Obblighi di fedeltà dell'amministratore di società, cit., p. 200.

Data: 16/01/2018 17:30:00
Autore: Lucia Apuzzo