Il vincolo paesaggistico e il condono
Avv. Antonella Trentini - Il Consiglio di Stato, con l'ordinanza n. 422 del 31 gennaio 2018 (sotto allegata), è intervenuto su un tema di rilevantissimo impatto, in ragione dei valori specifici in esso compendiati e delle conseguenti plurivoche interpretazioni - l'abusivismo edilizio in zona tutelata da vincolo paesaggistico - sancendo alcuni principi di notevole rilevanza, sui quali ha portato chiarezza.
L'abusivismo in Italia e le leggi di condono edilizio
In linea generale è risaputo che in Italia l'abusivismo è sempre stato uno dei fenomeni connaturati alla storia del Paese, al punto che il legislatore ne ha in varie epoche preso atto, emanando disposizioni che potremmo definire "multidirezionali" (c.d. condoni), poiché dirette a conseguire più risultati: da un lato, il risultato più "nobile", scoraggiare l'abusivismo prevedendo sanzioni per gli speculatori, anche demolitorie, dall'altro lato il risultato più "utile", ovvero legittimare comportamenti illeciti per reperire entrate straordinarie.
Da qui le varie leggi di condono edilizio susseguitesi nel corso degli anni, a partire dalla legge 28 febbraio 1985, n. 47, a scansione decennale (leggi n. 724/1994 e n. 326/2003).
Questo per quanto concerne le discipline, c.d. straordinarie, a cui si affianca la disciplina ordinaria dell'accertamento di conformità (c.d. sanatoria ordinaria).
Le due categorie, benché nella prassi i termini condono e sanatoria siano spesso utilizzati come sinonimo, si differenziano invero in maniera sostanziale.
Con il termine "sanatoria" si intende un provvedimento amministrativo consentito dalla legislazione urbanistica, tanto che, a differenza del "condono" (norma speciale), la sanatoria (ordinaria) richiede la c.d. doppia conformità urbanistica, terminologia tecnico-giuridica con cui si intende attribuire legittimazione sostanziale a ciò che, pur carente, lo era (comunque) formalmente. L'assenza di ciò comporta il diniego di concessione in sanatoria, vale a dire quando ricorra la situazione in cui l'opera sia stata realizzata tanto in difformità alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione, quanto a quella della domanda di sanatoria, o qualora vi sia difformità rispetto ad una delle due normative. In sostanza, l'opera deve essere in un rapporto di conformità urbanistica in entrambi i due momenti salienti della propria esistenza: al momento della (dichiarata) realizzazione, e al momento successivo in cui è richiesta la sanatoria all'Ente.
Il condono, invece, si atteggia diversamente, in ragione della propria specialità e derogatorietà alle norme, in cui il dato rilevante è la dead line stabilita dal legislatore quale termine di ultimazione delle opere entro cui occorre provare l'esistenza dell'abuso. Dunque la differenza è sostanziale: ordinem in un caso, extra ordinem nell'altro.
Pur trattandosi di disciplina speciale e derogatoria, anche il "condono" non costituisce provvedimento di regolarizzazione monetizzata in via assoluta. Contempla pure esso alcuni casi, troppo pochi per la verità, di esclusione dalla possibilità di condonare abusi edilizi, fra cui figurano, ad esempio, le opere eseguite su aree già vincolate prima della realizzazione del manufatto e sottoposte a vincoli speciali di carattere permanente (in materia di paesaggio, di difesa delle coste, di sicurezza militare, di sicurezza interna od altri), che comportassero inedificabilità dell'area stessa.
Tuttavia, la copertura legittimante extra ordinem rimane(va) elevata. E proprio la specialità e derogatorietà tipica dei condoni ha comportato che, all'indomani della prima legge sul condono (L. n. 47/1985), si scaricassero milioni di istanze da parte di cittadini sugli uffici tecnici dei Comuni, aggravando organici (a volte appena) adeguati alle ordinarie funzioni ed inadeguati del tutto a fronteggiare tanta e tale straordinarietà. Siffatta situazione, unita molto spesso all'incompletezza delle pratiche presentate dagli speculatori, ha determinato dilatazioni delle tempistiche lunghe decenni, tanto che una recente indagine ha evidenziato che allo stato attuale i comuni devono ancora esaminare complessivamente qualche milione di pratiche di concessioni edilizie in sanatoria relative a tutti e tre i condoni edilizi (1985, 1994 e 2003).
Ciò non toglie che alcuni Comuni particolarmente virtuosi (è il caso di molti comuni dell'Emilia-Romagna, ad esempio), abbiano concluso del tutto le pratiche relative al condono 1985, permanendo, in taluni casi, strascichi giudiziari, anch'essi di durata oramai ultraventennale.
Da qui gli enormi problemi legati al ripristino della legalità violata, che irradia effetti tanto gravi quanto diversificati: sia sulla sicurezza, che economici ed erariali. Un abuso edilizio è di per sè un manufatto irregolare poiché privo di valutazioni, permessi e autorizzazioni, anche connesse alla sicurezza del territorio. E' ben noto lo stretto rapporto esistente, ad esempio, tra abusivismo edilizio e dissesto idrogeologico, come testimoniato da quanto accade in vaste zone del nostro Paese con cadenze sempre più frequenti e preoccupanti. Sono numerose le indagini (quasi sempre successive ad accadimenti di grande clamor fori), da cui si evidenzia che una elevatissima percentuale di territorio italiano è soggetto a elevato rischio di frane e alluvioni, rischi sismici, ecc. Da qui ne discende la necessità di valutare attentamente i fenomeni dell'abusivismo in sede di sanatoria – sia speciale che ordinaria – soprattutto in presenza di vincoli paesaggistici e ambientali.
Gli enti locali dovrebbero essere "posti nelle condizioni di concludere l'iter delle pratiche di condono, e di avviare una seria campagna di demolizioni di ciò che è stato costruito in spregio delle leggi e del buon senso. Il denaro incassato permetterebbe ai Comuni di realizzare interventi che in certi territori possono cambiare totalmente le prospettive di vita di migliaia di cittadini: argini per fiumi e torrenti, canali di scolo per la pioggia, impianti idrovori, consolidamento della piantumazione" (Italia Nostra, Comunicato del 29.08.2017).
Ma così non è. E' evidente che lo speculatore tenti ogni strada per allungare i tempi e mantenere il proprio abuso. In ciò gioca un ruolo importante anche la giustizia amministrativa, che troppo spesso - quando si tratta di sanzioni demolitorie - accoglie le istanze cautelari dei privati, limitandosi con poche righe a sospendere i provvedimenti degli Enti, così determinando in molti casi la "quasi matematica certezza che l'immobile abusivo non verrà abbattuto. (...) e le ordinanze comunali di demolizione effettivamente eseguite saranno l'eccezione, non la regola" (Nunzio Fragliasso, reggente della procura di Napoli, 27.4.2017, in merito al c.d. "ddl Falanga" sulle demolizioni degli edifici abusivi).
E' allora evidente la grande rilevanza dell'ordinanza della VI Sezione del Consiglio di Stato n. 422/2018, in controtendenza rispetto ad una prassi di maggior deresponsabilizzazione del Giudice innanzi al "timore" di consentire la demolizione che avverrebbe respingendo i tentativi cautelari.
E lo è ancora di più laddove l'abuso edilizio oggetto di domanda di condono insista in zona assoggettata a vincolo paesaggistico.
Da qui l'intenso dibattito – più di matrice dottrinale - sull'armonizzazione della disciplina in materia edilizia con quella in materia di tutela dei beni culturali (intesi anche come beni paesaggistici), sul quale, invece, la giurisprudenza – sia amministrativa che penale – ha assunto un orientamento pressoché unitario e costituzionalmente orientato, di cui l'ordinanza in commento costituisce una preziosa specificazione su alcuni punti di particolare rilievo.
La vicenda
Fatte queste premesse, la vicenda trattata dalla VI Sezione del Consiglio di Stato concerne l'impugnazione da parte del proprietario di un immobile su cui insistevano numerosi abusi edilizi, dei provvedimenti amministrativi emessi da un Comune in conseguenza dell'accertata persistenza degli abusi perpetrati in zona assoggettata a vincolo paesaggistico previo, dopo l'annullamento della concessione in sanatoria di cui al "condono 1985", avvenuto a seguito della conclusione di un iter giurisdizionale durato un ventennio.
In specie, la proprietà dell'immobile situato in zona collinare di grande pregio e vincolata con Decreto ministeriale sin dal 1955, aveva abusivamente ampliato l'edificio in un arco temporale compreso tra gli anni 1960 e 1980, tanto da portare la superficie utile complessiva dell'intero immobile, originariamente di circa 60 mq., fino alla consistenza di mq. 450, all'epoca della richiesta di condono.
Dalle cartografie dell'epoca (1965), prodotte dall'istante a corredo della pratica di condono, risultava infatti un solo, piccolo, edificio di circa 60 mq. A seguito di tali successivi e rilevanti interventi in ampliamento della struttura e di cambio di destinazione d'uso senza autorizzazioni, sin dal 1974 l'ente diffidava la proprietà a procedere alla demolizione delle opere abusive, giungendo ad emettere nel 1979 l'ordinanza di demolizione quale atto conseguente e dovuto dopo il diniego opposto alla domanda intesa ad ottenere la licenza edilizia, motivando (il diniego) sul fatto "che il fabbricato in oggetto insiste in un'area destinata a zona di rispetto ambientale dalla vigente Variante al PRG per la Zona Collinare (..). Il progetto è in contrasto con l'art. 8 delle NTA in quanto l'ampliamento richiesto non rientra nei limiti delle possibilità edificatorie dell'area di cui trattasi; limiti già ampiamente superati dalla volumetria esistente. Il progetto, inoltre, non è accettabile anche per motivi estetici in quanto l'intervento viene a snaturare il paesaggio circostante".
Non regolarizzato con sanatoria ordinaria, fu la volta del "condono" voluto dal legislatore del 1985, strumento utilizzato dalla proprietà per tentare di legittimare gli interventi abusivi.
Come previsto dalla L. n. 47/1985, l'ordine di demolizione impartito è rimasto "inoperante" a seguito dell'istanza di condono presentata dalla proprietà al Comune. E' noto, infatti, che con la presentazione di istanza di condono, i provvedimenti repressivi rimangono inoperanti fino a pronuncia espressa o tacita dell'Amministrazione (cfr. in tal senso, per il principio, Cons. St., sez. IV, 19.2.2008, n. 849 e Cons. St., sez. VI, 5 aprile 2013, n. 5706).
Seguiva il rilascio alla Società richiedente della concessione edilizia in sanatoria, valevole anche come autorizzazione ex art. 7 della l. n. 1497/1939, sulla quale permaneva il potere ministeriale di annullamento per vizi di legittimità, potere esercitato dalla Soprintendenza nel 1995 con l'annullamento del provvedimento rilascito dal Comune, in uno con la concessione in sanatoria.
Nel 1995 la società impugnava innanzi al TAR l'annullamento della concessione in sanatoria. Respinto il ricorso in primo grado, seguiva l'appello nel 2009, anch'esso respinto dal Consiglio di Stato, con la recente sentenza n. 727 del 23/2/2016: poichè l'atto impugnato era l'annullamento di concessione in sanatoria, detto annullamento era legittimo. Sicché cadeva in uno l'autorizzazione paesaggistica e la concessione edilizia, e parallelamente riprendeva vigore l'ordine di demolizione temporaneamente sospeso dalla domanda di condono.
Successivamente alla sentenza definitoria dell'intero contenzioso, recentemente la Società chiedeva al Comune di "rimotivare" ora per allora il provvedimento di autorizzazione paesaggistica ex art. 7, L. 1497/1939, annullato dalla Soprintendenza e analiticamente motivato dalla medesima (ben possibile, atteso il rilevato vizio di carenza di motivazione sulle ragioni dell'assenso da parte del Comune).
In proposito vale la pena svolgere una riflessione. Sulla base di un impianto teoretico alquanto singolare, avanzato per lo più fondendo tra loro stralci di differenti decisioni, è stato sostenuto che l'ordine giudiziale (ndr: di riesercitare il potere), laddove non disposto, non sarebbe neppure necessario, discendendo de plano dalle ragioni dell'annullamento ministeriale dell'autorizzazione, cioè dalla rilevata "mancanza di motivazione dell'autorizzazione paesaggistica" rilasciata dal Comune. Secondo tale teoria, dunque, la Soprintendenza dovrebbe limitarsi ad un mero controllo di legittimità (sull'esistenza cioè di eventuali vizi), attribuendole il potere di annullamento sic et simpliciter, del tutto avulso dalla sua precipua funzione di gestione e di estrema salvaguardia dei valori paesaggistici coinvolti che le è propria: di talché, annullata l'autorizzazione paesaggistica per assenza o insufficienza della motivazione dell'autorizzazione, l'ente dovrebbe rieditare il potere motivazionale, altrimenti inesistente.
Sembrerebbe coniarsi una sorta di controllo di legittimità in capo alle Soprintendenze analogo (se non sovrapponibile) a quello esercitato dal giudice amministrativo nell'esercizio del potere d'annullamento di un atto amministrativo per vizi di legittimità, ma senza le guarentigie previste per i casi di annullabilità del provvedimento per i c.d. "vizi non invalidanti".
Se può dubitarsi che con l'introduzione del codice Urbani (d.lgs. n. 42/2004) l'autorizzazione paesaggistica sia divenuta condizione di validità del permesso di costruire, altrettanto non può dirsi per il passato; nel caso di spcie la concessione edilizia in sanatoria (annullata) era stata rilasciata nel vigore della precedente disciplina, allorquando l'autorizzazione paesaggistica era pacificamente da considerare condizione di efficacia del titolo edilizio.
Resta il fatto che all'epoca del "condono 1985" la Soprintendenza, nell'esercitare il potere di annullare l'autorizzazione paesaggistica, doveva effettuare il mero controllo di legittimità dell'atto con preclusione, in via generale, di riesaminare nel merito le scelte discrezionali compiute dall'ente delegato (il Comune), al fine di evitare sovrapposizioni fra valutazioni di merito, ma "il divieto di effettuare valutazioni di merito sussiste soltanto se l'ente che rilascia l'autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell'opera. In caso contrario gli organi ministeriali possono annullare il provvedimento adottato per difetto di motivazione e indicare le ragioni di merito, sorrette da una puntuale indicazione degli elementi concreti della fattispecie specifica, che concludono per la non compatibilità delle opere edilizie con i valori tutelati" (ex multis Cons. St., n. 173/2012, n. 4925/2015, n. 234/2015, n. 4876/2015; A.P. n. 9/2001; ecc.).
Pertanto, come rilevato anche dall'ordinanza n. 422 del 31 gennaio 2018, laddove sia rilevata dalla Soprintendenza - in sede di controllo di legittimità - l'assenza della motivazione, le valutazioni dalla medesima svolte nel merito, sono non solo possibili, ma financo doverose, ed in tale evenienza non costituiscono espressione di un potere di mero controllo, ma di amministrazione attiva "ad estrema difesa del vincolo", da intendere come vera e propria co-gestione del vincolo stesso. Nella situazione in esame ben poteva, quindi, la Soprintendenza rilevare come l'autorizzazione paesaggistica, rilasciata dall'autorità sub delegata, non contenesse una motivazione tale da far comprendere in base a quali criteri l'Amministrazione comunale avesse positivamente valutato la compatibilità della permanenza dell'opera abusiva con l'esigenza di tutela del contesto ambientale vincolato" (Cons. St., 4876/2015).
Tuttavia, sulla base della teoria fondata sull'obbligatorietà da parte del Comune di rieditare il potere immanente implicitamente nell'annullamento ministeriale di mera ed esclusiva legittimità, incurante della motivazione resa puntualmente dalla Soprintendenza, si è avviato un nuovo iter processuale, in luogo del ripristino della legalità violata.
Come si è sin qui evidenziato molteplici aspetti si intersecano in una unica fattispecie, e tutti contenuti nell'ordinanza n. 422 del 31 gennaio 2018, di seguito sintetizzati:
a) annullamento dell'autorizzazione paesaggistica ad opera della Soprintendenza per difetto di motivazione da parte del Comune; come incide tale annullamento ministeriale sulla concessione in sanatoria rilasciata dal Comune, nonché sulla doverosità o meno da parte dell'ente locale di rieditare il potere di motivazione dell'autorizzazione paesaggistica annullata;
b) sorte dell'ordine di demolizione sospeso con l'avvio del procedimento di condono, una volta annullata la concessione in sanatoria;
c) decorso del tempo.
L'autorizzazione paesaggistica nella vigenza del "condono 1985"
In proposito si rileva come, in materia di condono edilizio, la concessione in sanatoria rilasciata dal Comune è atto unitario pluricomposto (ovvero, dalla concessione e dall'autorizzazione), e pertanto formalmente perfezionato con il rilascio da parte dell'ente delegato, ma sostanzialmente sottoposto a condizione di efficacia (cioè al parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, da rendere all'interno del procedimento di condono ai sensi dell'art. 32 legge 47/1985, che ne è condizione da cui dipende l'efficacia della sanatoria, trattandosi di presupposto legittimante la trasformazione urbanistico-edilizia della zona protetta).
La disciplina rilevante è contenuta negli artt. 31 e seguenti della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie). In particolare, l'art. 32 dispone che "il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo, è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso".
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha costantemente affermato, quanto all'oggetto della valutazione paesaggistica nel contesto del procedimento di condono edilizio, che il detto parere "ha natura e funzioni identiche all'autorizzazione paesaggistica", per essere entrambi gli atti il presupposto legittimante la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta, "sicché resta fermo il potere ministeriale di annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento affidato dall'ordinamento allo Stato, come estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario" (cfr., Cons. Stato, VI, 10 maggio 2013, n. 2535). Il Consiglio di Stato ha anche affermato che il potere di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica da parte della Soprintendenza, che esprime non un potere di controllo, bensì una manifestazione di cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema difesa (cfr. per tutte Cons. Stato, Ad. plen., 14 febbraio 2001, n. 9), non comporta un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall'ente competente "tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell'autorizzazione, ma si estrinseca in un vaglio di legittimità che si estende a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere" (Cons. Stato, Sez. VI, 9 aprile 2013, n. 1905; VI 14 agosto 2012, n. 4562). Il divieto di effettuare valutazioni di merito sussiste, però, soltanto se l'ente che rilascia l'autorizzazione (Comune) abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell'opera. In caso contrario, com'era nel caso di specie), gli organi ministeriali possono annullare il provvedimento adottato per difetto di motivazione e indicare le ragioni di merito, sorrette da una puntuale indicazione degli elementi concreti della specifica fattispecie, che concludono per la non compatibilità delle opere edilizie con i valori tutelati (tra gli altri, Cons. Stato, VI, 18 gennaio 2012, n. 173; VI, 28 dicembre 2011, n. 6885; VI, 21 settembre 2011, n. 5292).
Né va obliterato un dato storico: le pratiche del "Condono 1985" seguivano un iter ben differente da quanto avviene nelle odierne pratiche. Occorre rammentare che a quel tempo si agiva in un contesto amministrativo privo di due provvedimenti caratterizzanti l'odierno agere, ovvero l'assenza della L. n. 241/1990 ss.mm., e l'assenza della distinzione fra "politica e amministrazione", sancita solo in seguito alle "leggi Bassanini". Ciò determinava che le pratiche edilizie, e dunque anche le concessioni edilizie in sanatoria (valevoli anche come autorizzazione ex art. 7 della l. n. 1497/1939), erano rilasciate dall'organo politico (sindaco o assessore delegato). Né sorprenderebbe, volgendosi indietro, che in assenza di motivazioni valide all'assenso e/o di obbligo motivazionale, l'organo politico ricorresse a formule stereotipate per accontentare il privato, residuando pur sempre la condizione ex lege per cui "il Ministero per i B.A.C. ha la facoltà di procedere all'annullamento".
Ebbene, uno dei temi chiariti dal Consiglio di Stato con l'ordinanza n. 422 del 31 gennaio 2018 è proprio la natura dell'autorizzazione paesaggistica nell'ambito del procedimento del "condono 1985": "all'esito della domanda di sanatoria, è stato rilasciato l'atto 13.1.1995, che contiene tanto l'autorizzazione paesaggistica, quanto la concessione in sanatoria vera e propria. E' però evidente che il titolo edilizio, ovvero la concessione stessa, sta e cade con l'autorizzazione paesaggistica, sì che l'annullamento di questa ha sulla prima efficacia caducante, e non meramente viziante. A seguito quindi dell'annullamento della autorizzazione paesaggistica anche il titolo edilizio deve ritenersi venuto meno".
Del tutto inutile, quindi, una richiesta diretta alla riedizione del potere motivazionale realtivo ad una autorizzazione paesaggistica che, in quanto inscindibilmente fusa nel titolo edilizio, ha un vicendevole effetto caducatorio. A comprova vi è che l'atto originariamente avversato dalla società è stato proprio l'"annullamento della concessione in sanatoria".
Di talché nessuna specie di vincolo imposto "implicitamente" al Comune deve ravvisarsi nell'annullamento ministeriale dell'autorizzazione paesaggistica. Al riguardo non soccorre neppure quella parte di giurisprudenza (cfr. TAR Toscana 2/2/2015, n. 179), che ritiene valido i"l principio per cui a seguito dell'annullamento ministeriale dell'autorizzazione paesaggistica il Comune deve procedere ad un nuovo esame della domanda del privato", poiché ciò è stato ritenuto a seguito della pronuncia di illegittimità del Decreto ministeriale di annullamento dell'autorizzazione comunale perchè "risulta indebitamente interferire con aspetti estranei all'istanza di condono (...)". Solo laddove sia annullato giudizialmente il decreto ministeriale di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica, si riespande il potere del Comune di rimotivare, non potendo "limitarsi a prendere atto della decisione dell'autorità statale" annullata,"ma deve procedere ad un nuovo esame della domanda del privato" (essendo in quel caso illegittimo il decreto ministeriale di annullamento).
In caso opposto si tratterebbe, all'evidenza, di un ordine "retorico" (se dato da un giudice), o di un nuovo esercizio di potere ripetitivo (se fatto dall'ente locale), atteso che un eventuale riesercizio del potere comunale avrebbe dovuto considerarsi vincolato (e dunque attenersi) alle indicazioni contenute nel legittimo decreto ministeriale, la cui congrua motivazione non consente di considerarlo tam quam non esset (cfr. ex multis, Cons. St., VI, n. 234/2015; idem, VI, n. 4925/2015).
Ordine di demolizione e condono edilizio
L'ordinanza di demolizione sospesa dall'avvio della pratica di condono edilizio, a quale sorte è destinata in caso di esito negativo del condono stesso? Occorre adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, o si riespande l'efficacia di quello sospeso?
Su questo punto si era svolta la dialettica fra le parti, risolta sapientemente con l'ordinanza citata.
L'art. 38 della L. n. 47/1985 impone all'Amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva, la quale vanificherebbe a priori l'eventuale rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, mentre l'art. 44 prevede la sospensione de iure dei procedimenti sanzionatori già avviati.
L'ordinanza di demolizione non perde efficacia a seguito della presentazione di una domanda di condono, poiché nessuna disposizione contenuta nelle varie leggi sul condono edilizio prevede ciò, mentre l'art. 38 della L. 47/85 si limita a disporre per questo caso la sospensione dei procedimenti sanzionatori amministrativi, i quali non possono essere eseguiti fino alla definizione della medesima domanda.
Essa, meramente inoperante ("sospesa" dice la legge), durante il procedimento di condono, ove non rimossa a seguito di specifica impugnazione, non può certo costituire ragione di illegittimità derivata a carico dei successivi provvedimenti sanzionatori dell'abuso. Anzi, li impone. Se si volesse essere ancor più pignoli, occorrerebbe addirittura precisare che la domanda di condono, stando al disposto di legge, introduce un procedimento autonomo che giammai è in grado di inficiare la vita o la legittimità dell'ordinanza di demolizione, ma incide solo sulla sospensione della sua efficacia, la quale si riespande nel caso in cui la sanatoria extra ordinem abbia avuto un esito negativo.
Pertanto, non inficiando la domanda di condono la legittimità dell'ordinanza di demolizione, la quale dismette unicamente e temporaneamente la sua efficacia a seguito della presentazione dell'istanza di sanatoria, detta efficacia è destinata a riespandersi in caso di rigetto della domanda di condono.
Nel caso di specie, l'ordinanza n. 422/2018 ha ben evidenziato che "le opere in questione dovrebbero comunque essere demolite, non essendo oltretutto mai stata impugnata l'originaria ordinanza di demolizione (...), non vi sono quindi ragioni per mantenere le opere in questione", eliminando ogni dubbio sul fatto che il provvedimento sanzionatorio originario, sospeso durante il tempo necessario a definire la pratica di condono (nello specifico, dilatata da due gradi di giudizio), non è mai venuto meno. Di conseguenza è stato ritenuto legittimo il provvedimento "con cui il Comune ha preso atto dell'inefficacia dell'autorizzazione annullata, ha dichiarato di confermare l'efficacia dell'ordinanza di demolizione emessa a suo tempo, prima che fosse presentata la domanda di condono, ed ha assegnato alla proprietà un termine per decidere se demolire essa stessa le opere abusive".
D'altra parte l'orientamento appare consolidato, ribadito in tempi recenti anche da TAR Campania, n. 3410/2016, secondo cui "(...) in caso di diniego [ndr: del condono] l'autorità amministrativa è comunque tenuta a reiterare l'ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per l'ottemperanza da parte dell'interessato".
Pertanto, la presentazione di una istanza di condono edilizio non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso, ma comporta, tuttalpiù, un arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria (Con. St., Sez. VI, sent. 8 aprile 2016 n. 1393).
Il decorso del tempo e l'ordine di demolizione
Altro punto controverso è quello del decorso del tempo, troppo spesso ascritto alla responsabilità della P.A. ingiustamente.
Con recenti pronunce, fra le quali si annoverano quelle nomofilattiche dell'Adunanza Plenaria, il Consiglio di Stato è intervenuto sul problema della repressione degli abusi edilizi a distanza di diversi decenni dalla commissione dell'abuso.
Le ultime sentenze pongono fine alla querelle che fondava sul solo decorso del tempo, o su presunti "affidamenti incolpevoli" una sorta di "prescrizione" dell'abuso edilizio: l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è un atto vincolato alla constatata abusività e che dunque non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
Nel caso di specie, la Società ricorrente (poi appellata), aveva ritenuto che il trascorrere del tempo dall'emissione dell'originaria ordinanza di demolizione (sospesa dalla domanda di condono e bloccata da vent'anni di cause), avesse ingenerato un "legittimo affidamento" a causa del "protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza", cioè del Comune.
Se ciò fosse vero, sarebbe sufficiente l'uso strumentale del processo per ottenere "condoni mascherati". Fatto, questo, non sfuggito alla giurisprudenza, la quale, con orientamento maggioritario e più recente, ritiene che:
– la repressione degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso;
– l'illecito edilizio ha carattere permanente. Esso si protrae e conserva nel tempo la sua natura, e l'interesse pubblico alla repressione dell'abuso è in re ipsa. L'interesse del privato al mantenimento dell'opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza della normativa urbanistico–edilizia e al corretto governo del territorio;
– non sussiste alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, anche se è trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e il momento dell'adozione dell'ordinanza di demolizione. Infatti, l'ordinamento tutela l'affidamento solamente se esso è incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, I, sent. n. 17 del 5 gennaio 2018; Cons. Stato, VI, sent. 8 aprile 2016, n. 1393; A.P., nn. 8 e 9 del 17 ottobre 2017).
Non sfugge un diverso e minoritario orientamento, più datato, che nell'ottica del privato giunge a ritenere il notevole periodo di tempo trascorso tra la commissione dell'abuso e l'adozione dell'ordinanza di demolizione, quando si accompagni al protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, costituisce indice sintomatico di un legittimo affidamento in capo al privato, a fronte del quale grava quantomeno sul Comune, nell'esercizio del potere repressivo-sanzionatorio, un obbligo motivazionale "rafforzato" circa l'individuazione di un interesse pubblico specifico alla emissione della sanzione demolitoria, diverso e ulteriore rispetto a quello al mero ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato, in deroga al carattere strettamente dovuto dell'ingiunzione a demolire.
In buona sostanza, emerge uno spaccato che dovrebbe inibire da parte del privato l'utilizzo di comportamenti meramente dilatori, dal momento che costituisce oramai ius receptum la non applicabilità a un fatto illecito del "acomplesso di acquisizioni che, in tema di interesse pubblico, è stato enucleato per ladiversa ipotesi dell'autotutela decisoria. Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sulla doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso la relativa sanzione (soprattutto una volta concluso l'iter giurisdizionale), deve conseguentemente essere escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso è del tutto congruo che l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercè il richiamo al comprovato carattere abusivo dell'intervento (su cui non vi è contestazione) senza che si impongano suol punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela decisoria".
Nel caso di specie, il notevole lasso di tempo non era ascrivibile a responsabilità dell'Ente, ma soltanto a quella del privato, sicché il trascorrere del lungo lasso temporale non solo non è stato ritenuto idoneo a far divenire legittimo ciò che era sin dall'origine illegittimo, ma ha portato persino il Giudice a ritenere che "non vi sono ragioni per mantenere le opere in questione".
Data: 06/02/2018 16:00:00Autore: VV AA