Basta il sarcasmo dei colleghi per far scattare il mobbing
Per la Cassazione il giudice non può aprioristicamente ritenere normale o in evitabile la reazione degli altri lavoratori che sostituiscono il dipendente mobbizzato spesso in malattia
di Lucia Izzo - A far scattare il mobbing nei confronti del lavoratore potrebbe contribuire anche il sarcasmo dei colleghi. Il giudice, infatti, non può aprioristicamente ritenere normale o inevitabile la reazione degli altri lavoratori che sostituiscono il dipendente mobbizzato nei suoi frequenti giorni d'assenza per malattia.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nell'ordinanza n. 16247/2018 (qui sotto allegata) che ha accolto il ricorso di un dipendente delle poste che aveva chiesto, senza esito positivo, risarcimento del danno da mobbing.
In particolare, nel rigettare la domanda risarcitoria, la Corte d'appello aveva ritenuto insussistente una condotta mobbizzante posta in essere nei confronti di lavoratore dalla società datrice di lavoro.
Il dipendente, sottolinea la Corte d'Appello, si era rifiutato di svolgere le mansioni di portalettere che non erano dequalificanti e non vi erano stati nei suoi confronti atti di ostilità da parte dei colleghi di lavoro, essendosi trattato solo di qualche minima manifestazione di sarcasmo nei suoi confronti, ma pur sempre di manifestazioni critiche civili.
In Cassazione, il lavoratore contesta il giudizio del giudice a quo relativamente alla sussistenza del mobbing, non potendo, a detta della difesa, ricavarsi dalla motivazione della sentenza in base a quali risultanze processuali il collegio di merito avesse deciso per la sua inesistenza.
Anzi, sottolinea il ricorrente, il mobbing era stato accertato dal giudice di prime cure in base ad ampia e complessa istruttoria completata con una consulenza medico legale, che aveva accertato una grave forma di "disturbo ansioso depressivo" riconoscendo un invalidità permanente del 15%.
Neppure la Corte territoriale, secondo la difesa, aveva spiegato in base a quali elementi processuali aveva ricavato che il lavoratore era un simulatore, atteso che gli infortuni sul lavoro occorsogli erano tutti documentati da certificazioni mediche, come anche non era in contestazione l'estraneità del suo bagaglio professionale alle mansioni di portalettere alle quali era stato adibito, estraneità che aveva compromesso la sua capacità lavorativa determinando gli infortuni non essendo egli capace di condurre un motociclo
Mobbing: può contribuire anche il sarcasmo dei colleghi
In effetti, rileva la Cassazione, la sentenza impugnata è viziata per omessa pronuncia non avendo nella sua motivazione messo il ricorrente in condizione di conoscere l'iter logico-argomentativo e giuridico seguito e posto a fondamento della decisione.
La sentenza "del tutto omettendo di porre a fondamento della sua motivazione gli elementi fattuali emersi nel giudizio di primo grado, sia attraverso le testimonianze che attraverso la consulenza medico legale di ufficio, ha fornito una personale e non obiettiva valutazione della vicenda processuale" del dipendente del tutto priva di qualsivoglia correlazione con le effettive risultanze della causa di primo grado, di cui ha omesso qualsiasi riferimento.
Il provvedimento impugnato, nell'escludere il mobbing in danno del dipendente, aveva formulato due premesse del tutto assertive: la prima laddove ha ritenuto che all'assenza di demansionamento, rilevata anche in prime cure, si contrapponeava in realtà una "viscerale repulsa per le mansioni di portalettere" che corrispondeva "ad una notoria ancestrale ripugnanza, largamente diffusa, per attività utili e sociali ... a fronte di inveterate preferenze per mansioni da svolgersi seduti ad una scrivania".
La seconda premessa assertiva riguardava le reazioni di sarcasmo dei colleghi nei confronti del dipendente che la Corte territoriale aveva considerato atteggiamenti ammissibili, quindi leciti e tollerabili, quando "come nel caso in esame, consistono in una reazione addirittura inevitabile e quindi non assimilabile a comportamento scorretto".
Per gli Ermellini, il vizio di motivazione si desume, dunque, direttamente dalla sentenza, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, perché il provvedimento, per escludere il mobbing, formula due premesse assertive, su cui poi fonda la restante incoerente, dunque apparente, ratio decidendi. Parola al giudice del rinvio.
Autore: Lucia Izzo