Quando lo sfogo su WhatsApp può costare il licenziamento
Sempre più spesso l'applicazione di messaggistica istantanea è al centro delle controversie che gravitano intorno all'ambito del lavoro e delle sanzioni disciplinari ai dipendenti
di Lucia Izzo - Negli ultimi anni la comunicazione mobile ha radicalmente mutato la sua conformazione: agli sms, ormai quasi obsoleti, molti utenti 2.0 hanno preferito "WhatsApp" ovvero un'applicazione di messaggistica istantanea che meglio risponde alla necessità che l'informazione viaggi veloce e che le comunicazioni siamo immediate e intuitive.
Chat, gruppi, videochiamate, sono tanti i modi in cui è possibile mettersi in contatto su WhatsApp e gli utenti ne approfittano per affidare all'applicazione una mole indefinita di informazioni, molte anche particolarmente sensibili e personali. Una pratica che, sebbene possa sembrare innocua, può avere risvolti pericolosi. Ad esempio, chi mai avrebbe pensato che lo sfogo via WhatsApp potesse addirittura costare il posto di lavoro?!
Possibile il licenziamento a causa della chat su WhatsApp?
Per quanto riguarda i rapporti di lavoro, gli scambi di messaggi possono dar luogo a licenziamenti o sanzioni disciplinari. Si guarda sia al loro contenuto, quando le confidenze scambiate su chat e gruppi riguardino questioni lavorative, oppure anche alla circostanza che l'invio sia avvenuto proprio durante di lavoro.
Il fatto che i messaggi scambiati su WhatsApp siano considerati sempre più spesso dalla giurisprudenza come prove documentali, la produzione in giudizio può avvenire anche quando il datore di lavore non ne sia diretto destinatario.
Il Tribunale di Fermo, nel decreto 1973/2017, ad esempio, ha confermato il licenziamento comminato al dirigente di un'azienda che si era dimostrato ostile verso la società, ponendo in essere strategie di tipo intimidatorio-ricattatorio, cui si erano aggiunti pesanti apprezzamenti riguardo l'amministratore unico della azienda. Sul punto è apparsa decisiva una frase dell'uomo che è stata esibita in giudizio dalla moglie dell'amministratore unico e registrata via WhatsApp.
Anche il Tribunale di Milano (sent. del 30/05/2017) ha ritenuto giusta causa di licenziamento l'aver creato un gruppo su WhatsApp, condiviso con i colleghi di lavoro, destinato a offendere il comune datore di lavoro. Il lavoratore, nel dettaglio, "ha intenzionalmente posto in essere una condotta volta a denigrare il proprio responsabile di lavoro, da lui apostrofato con epiteti palesemente e pacificamente offensivi e denigratori, sicuramente idonei a sminuirne la credibilità e autorevolezza, trattandosi fra l'altro di un gruppo WhatsApp in cui sono esclusivamente presenti dipendenti della resistente e creato in parallelo a quello utilizzato dal datore per comunicare i turni e gli ordini di lavoro".
La chat WhatsApp ha "incastrato" e determinato una sanzione disciplinare anche a carico del dipendente ULSS che, assieme ad altri colleghi di lavoro, aveva ideato una "gara a punti" relativa all'utilizzo di aghi e cannulle delle maggiori dimensioni possibili nel trattamento dei pazienti in Pronto Soccorso, a prescindere dalle indicazioni cliniche del caso e dal rispetto delle regole in materia di appropriatezza nell'impiego di dispositivi medici.
Una condotta emersa grazie allo scambio di messaggi via WhatsApp avvenuto durante il suo turno di lavoro, con scambio di foto, che evidenziava la volontà di attuare e vincere la competizione (cfr. Tribunale di Vicenza, sent. n. 778/2017).
Legittimo il licenziamento via WhatsApp?
È possibile, inoltre, che WhatsApp sia utilizzato per intimare il licenziamento al lavoratore utilizzando un semplice messaggio? In una recente sentenza, il Tribunale del Lavoro di Catania (cfr. sent. 27 giugno 2017) ha dato risposta affermativa.
Il licenziamento intimato via chat, per il giudice, è ammissibile giacché "assolve l'onere della forma scritta" trattandosi di un "documento informatico", per di più con la prova dell'avvenuta ricezione (ossia l'impugnativa presentata dal dipendente).
Ancora, si legge nel provvedimento, la modalità utilizzata dall'azienda datrice nel caso di specie "appare idonea ad assolvere ai requisiti formali in esame – giacché - la volontà di licenziare è stata comunicata per iscritto alla lavoratrice in maniera inequivoca come del resto dimostra la reazione da subito manifesta dalla predetta parte" (per approfondimenti: Licenziamento: ora arriva anche via WhatsApp).
Una conclusione avvalorata anche dalla Corte d'Appello di Roma (sentenza 23 aprile 2018) secondo cui l'estromissione della lavoratrice dal posto di lavoro, avvenuta tramite l'invio di un messaggio WhatsApp, deve essere processualmente collegata alla volontà datoriale manifestata "nel rispetto della forma imposta dalla legge e quindi del tutto efficace"
Infatti, rammentano i giudici capitolini, in materia di licenziamento, l'art. 2 l. n. 604/1966 impone che la volontà solutoria del contratto sia "comunicata per iscritto', senza ulteriori previsioni limitative per il datore di lavoro; peraltro, proprio l'uso, da parte del legislatore, del termine "comunicazione" (che si contrappone al termine, più tecnico, di "notificazione") conferma che il precetto è soddisfatto ove il lavoratore sia informato della volontà datoriale, a prescindere dal supporto con cui lo scritto è trasmesso.
Le chat di WhatsApp come prova nei procedimenti giudiziari
Nella aule giudiziarie, ormai, WhatsApp è entrato di prepotenza nei procedimento e, sempre più spesso, i giudici i giudici (ex multis, Tribunale di Ravenna sent. 231/2017) hanno ritenuto che le chat di WhatsApp potessero fare piena prova in giudizio (per approfondimenti: Le chat su WhatsApp valgono come prova).
La delicatezza della questione riguarda il bilanciamento tra il diritto di difesa della parte che vuole utilizzare la chat come prova nel processo e il diritto di riservatezza degli utenti. Ciononostante, si è ritenuto spesso di poter derogare alla regola della segretezza in presenza di un "legittimo interesse" prevalente del terzo.
Le pronunce più recenti, pur ribadendo il rispetto di una serie di diritti fondamentali, hanno fornito una visione più adeguata alla modernizzazione delle tecnologie, che ha fortemente inciso sulle moderne comunicazioni, e hanno più volte ampliato la possibilità di produrre in giudizio le conservazioni tra privati.
In ambito penale, addirittura, la Cassazione (sent. n. 1822/2018) ha ritenuto che i messaggi WhatsApp e gli sms acquisiti dalla memoria del telefono dell'indagato sottoposto a sequestro debbano essere considerati come documenti, con conseguente applicazione dell'articolo 234 del codice di procedura penale (leggi Cassazione: Whatsapp e sms si possono acquisire come prova).
Gli stessi giudici di legittimità (Cass., sent. n. 49016/2017) hanno soggiunto che per l'utilizzabilità della chat sarà indispensabile l'acquisizione del supporto telematico o figurativo: solo in tal modo (e quindi esaminando direttamente il supporto) è infatti possibile controllare l'affidabilità della prova, ovverosia la paternità delle registrazioni e l'attendibilità di quanto esse documentano (leggi Whatsapp: chat valide come prova se si acquisisce anche il telefono).
Autore: Lucia Izzo