Ordinamento giudiziario e illeciti disciplinari dei magistrati
di Luca Passarini - Nella sentenza 197 del 2018 la Corte Costituzionale, nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale dell'articolo 12 comma 5 del Decreto Legislativo 23 febbraio 2006, numero 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità», promosso dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura con due ordinanze (poi riunite in un unico giudizio perché identiche), in riferimento all'articolo 3 della Costituzione per possibile violazione del principio di eguaglianza e ragionevolezza «nella parte in cui prevede in via obbligatoria la sanzione della rimozione per il magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall'art. 3, lett. e) del medesimo Decreto Legislativo n. 109 del 2006 », ha rigettato la questione di legittimità, ritenendola non fondata.
Il fatto
La presente questione di legittimità costituzionale nasce all'interno di un processo intentato dalla Sezione Disciplinare del CSM contro un magistrato donna incolpata di un illecito disciplinare svoltosi al di fuori dell'esercizio delle proprie funzioni, fattispecie che rientra nell'applicazione dell'art. 3 comma 1 lettera e del decreto legislativo 109 del 2006 (nello specifico l'aver ottenuto un vantaggio indiretto da un imprenditore indagato presso lo stesso ufficio giudiziario) il quale prevede testualmente che: e) l'ottenere, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa essere parti o indagati in procedimenti penali o civili pendenti presso l'ufficio giudiziario di appartenenza o presso altro ufficio che si trovi nel distretto di Corte d'appello nel quale esercita le funzioni giudiziarie, ovvero dai difensori di costoro, nonché ottenere, direttamente o indirettamente, prestititi o agevolazioni, a condizioni di eccezionale favore, da parti offese o testimoni o comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti.
Il magistrato, incolpata dalla sezione disciplinare del CSM ma assolta in sede penale dalla relativa imputazione, al termine del procedimento disciplinare si vedrebbe applicata la sanzione della rimozione, quale ipotesi che rientra tra le fattispecie di illecito indicate all'art. 12, comma 5, del Decreto Legislativo 109 del 2006, norma base per stabilire la responsabilità disciplinare dei magistrati.
Prospettandosi alcuni dubbi di legittimità costituzionale, la Sezione Disciplinare del CSM ha sospeso il procedimento e ha adito il Giudice delle Leggi.
Illegittimità denunciate
Per il giudice rimettente la sanzione che si dovrebbe applicare al termine del procedimento disciplinare risulta in contrasto con il principio di ragionevolezza, in quanto fondata su una presunzione assoluta, svincolata da qualsiasi apprezzamento di proporzionalità tra l'illecito commesso e la sanzione applicabile. Per suffragare la questione di legittimità la Sezione rimettente invoca inoltre la sentenza della Corte Costituzionale n. 170 del 2015, che censurò "l'automatismo della sanzione accessoria del trasferimento d'ufficio del magistrato nell'ipotesi di sua condanna per l'illecito disciplinare previsto dall'art. 2, comma 1, lettera a), del Decreto Legislativo 109 del 2006, ritenendo che tale meccanismo privasse irragionevolmente il giudice disciplinare di ogni potere discrezionale".
L'automatica previsione legislativa della sanzione, denunciata dalla Sezione rimettente, impedisce in altre parole alla sezione stessa di procedere alla valutazione in concreto della gravità dei fatti addebitati che si potrebbe compiere solo eliminando la previsione per legge.
Viene poi sottolineato dal rimettente come tale illecito ben si possa configurarsi anche ove, come nel caso concreto da cui prende le mosse la questione di legittimità costituzionale, l'incolpato sia stato assolto in sede penale dall'accusa di induzione indebita.
Il ragionamento della Corte
Nella parte in diritto si mostra chiaramente la ratio che ha ispirato la decisione della Corte Costituzionale nel ritenere non fondate le questioni prospettate dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, basandosi su tre distinti profili, qui brevemente riassunti: a) difetto di ragionevolezza intrinseca, b) disparità di trattamento "interna"e infine c) disparità di trattamento "esterna".
Nel considerare la disparità di trattamento "esterna" – valutata in relazione ad altre ipotesi di illecito disciplinare delineate dallo stesso decreto sulla responsabilità disciplinare dei magistrati e oggetto di un trattamento sanzionatorio più favorevole –, va esclusa l'illegittimità costituzionale per contrasto con l'art. 3 della Costituzione proprio perché la legge intende tutelare l'immagine di imparzialità della funzione giudiziaria, e la connessa fiducia della società nel suo corretto svolgimento, che potrebbero essere gravemente compromesse laddove il comportamento non fosse sanzionato.
Una irragionevole disparità di trattamento non sussiste, peraltro per il Giudice delle Leggi, nemmeno sotto il profilo "interno",, per le quali si prevede in modo indifferenziato l'obbligatoria applicazione della sanzione della rimozione. E la ratio della Corte è cristallina, infatti ogniqualvolta la legge preveda la sanzione massima applicabile per una pluralità di fattispecie astratte, sarebbe irragionevole pretendere – sulla base del principio di eguaglianza – che tutte quelle fattispecie siano connotate da un disvalore tra loro esattamente comparabile. E a sostegno di questa tesi la stessa Corte propone come ragionamento il parallelo con l'ordinamento penale per cui la stessa pena massima prevista – l'ergastolo – è stabilita oggi per una pluralità di fattispecie di reato disomogenee quanto a disvalore: (prevista per l'omicidio aggravato di una persona, per la strage che ha causato la morte di più persone…)
E per ultimo, neppure il terzo aspetto prospettato dal giudice rimettente, quello della manifesta irragionevolezza intrinseca, il quale concerne non tanto una ipotetica sproporzione della sanzione rispetto a tutti i casi suscettibili di essere ricondotti alla fattispecie di illecito di cui all'art. 3, comma 1, lettera e), del decreto legislativo in questione, quanto piuttosto l'automatismo di tale sanzione, che non consentirebbe al giudice disciplinare di graduare la risposta sanzionatoria in relazione alla concreta gravità dei molteplici casi di specie suscettibili di essere ricondotti sotto l'astratta previsione normativa, deve ritenersi fondata. La scelta del legislatore cioè non è censurabile sotto il profilo della proporzionalità in senso stretto della sanzione: quest'ultima (la sanzione della rimozione) interferisce, certo, in maniera assai gravosa con i diritti fondamentali del soggetto che ne è colpito, ma - argomenta ancora la Corte - lascia all'individuo la possibilità di intraprendere altra professione, con il solo limite del divieto di continuare a esercitare la funzione giurisdizionale. Una sanzione che quindi si può definire necessaria per preservare l'integrità e la dignità della stessa magistratura.
Il dispositivo
La Corte Costituzionale, alla luce di tutto il ragionamento esposto, ha dichiarato non fondate le questioni di illegittimità costituzionale dell'art. 12, comma 5, del Decreto Legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 sollevate, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura.
Occorre rilevare che la stessa pronuncia è foriera di un probabile disaccordo interno al Collegio giudicante circa la decisione assunta, infatti non passa inosservata la sostituzione del giudice relatore Franco Modugno, sostituito per la redazione della sentenza dal Giudice Francesco Viganò come si evince chiaramente da una prima lettura della decisione depositata.
*Luca Passarini
Studente di Giurisprudenza dell'Università di Bologna
lucapassarini19@gmail.com
Autore: Luca Passarini