Mandato d'arresto europeo e diritti umani
di Giovanni Mastria - Analizziamo il delicato tema relativo al rispetto dei diritti fondamentali nelle procedure di mandato d'arresto europeo, con particolare riguardo alla possibilità che il soggetto coinvolto, dopo la consegna, incorra in trattamenti inumani e degradanti a causa delle condizioni penitenziarie del paese richiedente.
- Il rischio di trattamenti inumani e degradanti dopo la consegna
- Corte di Giustizia: rapporto tra esigenze procedurali e rispetto dei diritti della persona
- La posizione della Cassazione in ordine al rischio di trattamenti inumani per il consegnando
Il rischio di trattamenti inumani e degradanti dopo la consegna
In proposito si rende opportuna la disamina e la comparazione di due recenti pronunzie giurisprudenziali -una comunitaria e l'altra nazionale- con lo scopo di fornire elementi di riflessione sulla necessità di garantire piena e concreta tutela ai diritti della persona coinvolta. In disparte le imperfezioni contenute nella disciplina di origine ed in quella interna[1], si è avuta ulteriore conferma del fatto che il principio di mutuo riconoscimento, pregnante l'intera disciplina del m.a.e., non può intaccare quelle garanzie faticosamente conquistate nel corso del tempo ed insuperabili nello stato di diritto. Celerità e semplificazione della cooperazione giudiziaria europea, quindi, non devono in modo alcuno portare al sacrificio dei diritti umani.
Corte di Giustizia: rapporto tra esigenze procedurali e rispetto dei diritti della persona
Al fine di dimostrare la perdurante attualità dell'argomento giova prendere le mosse dalla recente sentenza n. 220/18 della I sez. della Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Nel caso in oggetto la Corte è stata investita di un rinvio pregiudiziale con carattere di urgenza (dalla decisione dipendeva infatti la libertà del soggetto richiesto) sollevato dal Tribunale superiore del Land di Brema in relazione ad un mandato d'arresto europeo processuale emesso dai giudici di Nyiregyhéza, Ungheria. La richiesta di consegna, in particolare, riguardava un cittadino magiaro dimorante in Germania, ed era finalizzata a sottoporre il suddetto ad un procedimento penale per i delitti di percosse, lesioni, danneggiamento, truffa semplice e furto con scasso, presuntivamente commessi in territorio ungherese tra il mese di febbraio e il mese di luglio 2016.
Attese le disastrose condizioni degli istituti penitenziari ungheresi[2], gli organi giurisdizionali tedeschi si interrogavano sulla portata delle rassicurazioni fornite loro dalle autorità del paese di emissione, relative, più nel dettaglio, al fatto che il consegnando non sarebbe andato incontro ad alcun trattamento inumano o degradante. Il giudice a quo, dopo aver posto questione sulla valenza di un mezzo di ricorso recentemente introdotto in Ungheria (dove oggi è consentito ai detenuti di contestare le condizioni di detenzione), sollevava ulteriori quesiti. In particolare veniva chiesto se in presenza di un generale pericolo di lesione dei diritti umani dovuto alle condizioni degli istituti di pena dello stato richiedente sussista sempre, a carico dell'autorità dello stato di esecuzione, l'obbligo di verificare le condizioni detentive di tutti gli istituti penitenziari nei quali il consegnando potrebbe, in concreto, essere ridotto in vinculis dopo la consegna.
Nel rispondere ai suddetti quesiti i giudici comunitari ribadivano, attraverso una puntuale disamina dell'istituto in oggetto, che la ratio ispiratrice della disciplina sul m.a.e. è quella di garantire la massima speditezza e celerità alle procedure di consegna, basando il tutto sul principio di reciproca fiducia e conseguente mutuo riconoscimento dei provvedimenti giurisdizionali[3]. Ciò al fine di scongiurare il pericolo che la libertà di circolazione nell'eurozona si possa tradurre in sostanziale impunità per chi delinque in un paese e in seguito si sposta in un altro. Evidentemente, il funzionamento di tale meccanismo si basa sul presupposto che tutti gli altri paesi membri rispettino il diritto dell'Unione[4] e, più in particolare -senza dover porre in essere di volta in volta continue verifiche- le garanzie destinate ai soggetti coinvolti nelle varie fasi del procedimento penale. Garanzie formalmente riconosciute dalle normative sovranazionali europee ed ormai parte del cosiddetto acquis communautaire.
In proposito la Corte sottolineava la centralità dei principi consacrati nella Carta Europea dei Diritti dell'Uomo che, giova ricordarlo, ai sensi dell'art. 51 si applica altresì alle istituzioni, organi e organismi dell'Unione, come pure agli Stati membri quando attuano, come nel caso di specie, il diritto comunitario. In virtù di ciò veniva richiamata la rilevanza dell'art. 4 della suddetta carta, a mente del quale "Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti". Benché non espressamente richiamato dalla Corte, in questa sede appare opportuno precisare che tale divieto (seppur nel preambolo e non nella parte dispositiva, con tutte le conseguenze del caso sin da subito sottolineate dalla dottrina più oculata[5]), è peraltro espressamente previsto anche dal Tredicesimo Considerando della DQ 2002/584/GAI istitutiva del mandato d'arresto europeo, il quale sancisce il divieto di allontanamento, espulsione o estradizione di una persona 'verso uno Stato allorquando sussista un serio rischio che essa venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altri trattamenti o pene inumani o degradanti'.
Alla luce di ciò i giudici comunitari, come già affermato nella sentenza Aranyosi e Caldararu[6], avevano modo di ribadire che anche nelle procedure di consegna m.a.e. quanto appena detto non può rimanere mera affermazione di principio, dovendosi garantire al soggetto richiesto il concreto rispetto dei diritti umani.
Di conseguenza, anche sulla scorta di altre recenti pronunzie[7], la Corte ammetteva che "in circostanze eccezionali" possono essere apportate, nell'applicazione della disciplina sull'euromandato, limitazioni ai cennati principi di riconoscimento e di fiducia reciproci tra Stati membri. Indubitabilmente –e questo pare fondamentale- tra tali circostanze rientra a buon diritto il rischio che il soggetto interessato possa, a seguito di consegna, incorrere in trattamenti detentivi inumani o degradanti ai sensi del suddetto art. 4 della Carta E.d.u. Rischio, questo, che a detta della Corte legittimerebbe il rifiuto della richiesta da parte dell'autorità giudiziaria dell'esecuzione.
I giudici comunitari -pur ritenendo "eccessiva" una richiesta minuziosa e dettagliata delle condizioni di detenzione all'interno di tutti gli istituti penitenziari nei quali la persona interessata potrebbe in teoria essere ristretta- hanno quindi avuto modo di ribadire l'insuperabilità di un accertamento del rispetto dei diritti umani del consegnando per mezzo di una valutazione individualizzante e concreta.
In particolare la Corte ha confermato che in presenza di una situazione carceraria tale da pregiudicare le garanzie dei detenuti (evidenziata tramite, ad esempio, eventuali censure provenienti da organi comunitari o internazionali), ai sensi dell'art. 15 paragrafo 2 della decisione quadro 2002/584, le autorità giurisdizionali che devono decidere sulla consegna sono gravate da un vero e proprio obbligo, consistente nel sollecitare allo stato richiedente la dazione di ogni informazione necessaria sulle condizioni alle quali si prevede, in concreto, di detenere il consegnando. Ciò al fine di permettere la verifica del rispetto della dignità umana mediante i criteri elaborati nel corso del tempo dalla giurisprudenza, quali, ad esempio e solo a volo d'aquila, la sussistenza di uno spazio personale minimo superiore a 3 m2, della sufficiente libertà di movimento fuori della cella e di attività esterne adeguate. Ciò allo scopo di accertare che salute e benessere del detenuto siano sufficientemente assicurati e che lo stesso non versi in uno stato di sconforto e sofferenza eccessivi, tali da costituire trattamento inumano o degradante.
Come ribadito dalla Corte di Giustizia, questo rappresenta il parametro su cui l'autorità che decide sulla consegna deve basarsi. Il principio del mutuo riconoscimento, benché fondamentale, deve quindi essere sacrificato laddove non vi sia una certezza in ordine a tali requisiti insuperabili posti a tutela della persona. In presenza di dubbi vi è l'obbligo di richiedere allo stato di emissione informazioni integrative ai sensi dell'art. 15 della decisione quadro 2002/584, al fine di comprendere se sia opportuno procedere o se, per contro, al fine di garantire la tutela del soggetto richiesto, la consegna debba essere rifiutata.
La posizione della Cassazione in ordine al rischio di trattamenti inumani per il consegnando
Dopo aver vagliato la posizione della corte comunitaria sul punto, appare opportuno verificare quanto affermato in proposito dalla Suprema Corte di Cassazione in una sentenza di poco precedente a quella sopra analizzata. Ciò al fine non solo di cogliere il dialogo tra le corti interne ed europee ma, anche, allo scopo di apprezzare il modo in cui il Supremo Consesso ha cercato arginare alcune infelici prassi sviluppatesi nella giurisprudenza di merito che, forse con qualche leggerezza, ha corso il rischio di sacrificare l'effettiva garanzia dei diritti delle persone raggiunte da m.a.e.
L'argomento è stato trattato nella recente sentenza n. 8916/18 della VI Sezione della Corte di Cassazione, attraverso la quale anche la Suprema Corte ha sottolineato -in un'ottica personalista e solidarista- la necessità che i giudici di merito, in presenza del fumus di una possibile sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti dei soggetti ristretti debbano, prima di accordare la consegna, acquisire dallo stato di emissione informazioni integrative circa la situazione nelle strutture detentive in cui sarà ristretto in vinculis il consegnando. Anche il Giudice di Legittimità, quindi, ha chiarito l'insuperabilità della tutela della persona nelle procedure m.a.e.
Il caso di specie riguardava un soggetto nei cui confronti era stato spiccato, dall'autorità giudiziaria belga, un mandato di arresto europeo di tipo processuale. In particolare, il Tribunale di Hainaut aveva richiesto allo stato italiano la consegna dell'indagato sulla base di un'ordinanza cautelare emessa a seguito di varie condotte delittuose (plurimi episodi di rapina) presuntivamente commesse da quest'ultimo nel territorio del paese di emissione.
La Corte d'Appello di Napoli, organo istituzionalmente e territorialmente competente ai sensi dell'art. 5 L. 69/2005, disponeva la consegna dell'interessato affinché questi fosse interrogato in Belgio, alla condizione che il suddetto venisse in seguito rinviato in Italia per scontare la pena eventualmente inflittagli. I giudici territoriali, in vero, ritenevano che negli istituti penitenziari del paese richiedente non vi fosse, per il soggetto richiesto, alcun pericolo di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti che, come noto, ai sensi dell'art. 18 lett. h) della L. 69/2005 costituisce motivo di rifiuto della consegna. Benché espressamente richiamata dai giudici di merito, veniva considerata superata la celebre sentenza Vasilescu della Corte E.d.u.[8], che nel 2014 aveva condannato il Belgio per le degradanti condizioni in cui, nelle case circondariali del paese, versavano i detenuti. A detta della Corte d'Appello di Napoli, infatti, la suddetta pronunzia si riferiva a situazioni ormai risalenti nel tempo in quanto rilevate nel 2011, peraltro solo in due penitenziari specifici (Anversa e Merksplas). Tali condizioni, quindi, dovevano ritenersi ormai bonificate, stante l'assenza di ulteriori indicazioni in proposito provenienti da organismi europei o internazionali o, ancora, da qualificate organizzazioni non governative. Inoltre le allegazioni della difesa, relative, in particolare, a scioperi degli agenti penitenziari in vari istituti carcerari belgi, erano state giudicate inidonee a dimostrare il pericolo di trattamenti inumani e degradanti poiché, a detta della corte partenopea, quanto prodotto risultava provato solo da fonti giornalistiche, non attendibili e non controllabili nel loro contenuti.
Veniva presentato ricorso avverso al provvedimento di consegna ed il Supremo Consesso, accogliendo i motivi di doglianza, aveva modo di ribadire alcuni principi cardine in tema di tutela dei diritti del consegnando.
I giudici di legittimità, sulla scia di quanto già chiarito in altre occasioni[9], sottolineavano dapprima la sussistenza di elementi sintomatici, nel caso belga, di un generale rischio di possibili trattamenti inumani e degradanti dovuti a condizioni carcerarie intollerabili, tali da esporre i soggetti ristretti "al pericolo per la propria salute e la loro stessa vita". Detti elementi, dovuti a problemi strutturali ed endemici del sistema penitenziario belga, non solo avevano già condotto a nette censure da parte della Corte E.d.u. mediante la cennata sentenza Vasilescu ma, addirittura, avevano trovato nuova voce con la più recente segnalazione del Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d'Europa del 13/07/17.
Alla luce di ciò, veniva lapidariamente censurata la condotta dei giudici di merito i quali, con estrema leggerezza, avevano svalutato gli elementi di cui sopra, ritenendo "in maniera del tutto congetturale ed indimostrata" che i problemi del sistema penitenziario belga fossero ormai risolti senza procedere ad altri e ben necessari accertamenti.
Oltre ad evidenziare l'immotivata ed aprioristica esclusione di una generale situazione di rischio (nel caso di specie sussistente), la Suprema Corte chiariva un ulteriore e fondamentale aspetto che permette di comprendere la linea di collegamento tra la sentenza in esame e quella di cui al n. 220/18 della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, sopra meglio e più dettagliatamente compendiata.
Ed invero, nonostante una generale situazione di rischio non sia di per sé sufficiente a legittimare un diniego, la stessa è comunque sintomatica del fatto che anche il soggetto richiesto corre in concreto il pericolo di subire trattamenti lesivi dei diritti umani. Una sorta di campanello d'allarme, quindi, che "impone" ulteriori approfondimenti. Anche i giudici di legittimità hanno sottolineato, in tali circostanze, la sussistenza di un vero e proprio obbligo di procedere ad una verifica "individualizzante" e specifica circa le condizioni penitenziarie in cui si troverà il consegnando, al fine di escludere l'eventualità di trattamenti inumani e degradanti nei suoi confronti.
E' fondamentale sottolineare che -in un'ottica personalista- è stata implicitamente "rinforzata" la tutela offerta dal testo della disposizione di cui all'art. 16 co. I L. 69/2005, che recita: "Qualora la corte di appello non ritenga sufficienti ai fini della decisione la documentazione e le informazioni trasmesse dallo Stato membro di emissione, può richiedere allo stesso, direttamente o per il tramite del Ministro della giustizia, le informazioni integrative occorrenti[…]". In presenza di fumus di possibili trattamenti lesivi dei diritti della persona, quindi, quella che lessicalmente pare essere una mera facoltà diventa un vero e proprio obbligo a carico dei giudici di merito decidenti.
Conseguentemente, veniva annullata l'impugnata sentenza per violazione dell'art. 16 in relazione all'art. 18 lett. h L. 69/2005, con rinvio ad altra sezione della Corte d'Appello di Napoli al fine di verificare, in concreto, l'eventuale sussistenza del pericolo di trattamenti inumani e degradanti per il soggetto richiesto.
Alla luce di quanto sinora esposto non può che accogliersi con favore l'attività ermeneutica posta in essere dalle corti –di Giustizia e di Cassazione- in materia di mandato d'arresto europeo. In entrambi i casi, come già da tempo auspicato in dottrina[10], la direzione è stata quella di sancire l'insuperabilità della tutela dei diritti umani, che passa, in questo caso, attraverso l'obbligo di un controllo individualizzante e concreto delle condizioni penitenziarie in cui verserà nello stato richiedente il soggetto in consegna.
[1]In relazione al possibile vulnus dei diritti umani si veda E. KOSTORIS, Manuale di Procedura Penale Europea, Milano, 2014, 268 ss.
[2]già sanzionate in più occasioni: Corte E.d.u. sez. II, 10 marzo 2015, Varga e altri c. Ungheria, nn. 1409/12, 73712/12, 34001/13, 44055/13, 64586/13.
[3]Ciò è espressamente riferito dai Considerando 5 E 7 DQ 2002/584 GAI, istitutiva del m.a.e.
[4]Per come previsto dagli artt. 2 E 6 TUE.
[5]M. LUGATO, La tutela dei diritti fondamentali rispetto al mandato di arresto europeo, in Riv. Dir. Intern., 2003, 38.; ancora D. MANZIONE, Decisione- quadro e legge di attuazione: quali compatibilità? Quali divergenze?, in AA.VV., Il mandato d'arresto europeo, diretto da M. CHIAVARIO, G. De FRANCESCO, D. MANZIONE, E. MARZADURI. Torino, 2006, 22.
[6]Cort. Giust. Gran. Cam., 5 aprile 2016, Cause riunite C-404/15 e C 659/15 PPU.
[7]ex multis Cort. Giust. Gran. Cam., 25 luglio 2018 C-216/18 PPU Minister for Justice and Equality.
[8]C. E.d.u., Sez. II, sent. 25 novembre 2014, Vasilescu c. Belgio.
[9]Cass. Pen. Sez VI n.23277/16; Cass. Pen. Sez VI n. 22249/17.
[10]N. CANESTRINI, Dalla Corte Costituzionale Tedesca un limite alla penetrazione dell'Ordinamento Comunitario negli Stati nazionali? in Cass.Pen., 2016, 1748.
Data: 03/01/2019 16:00:00Autore: Giovanni Mastria