Cassazione: strattona la collega in ufficio, eccessivo il licenziamento
Avv. Paolo Accoti – In tema di sanzioni disciplinari, tra cui rientra a pieno titolo anche la sanzione più afflittiva del licenziamento, al fine di valutare la correttezza e la proporzionalità del provvedimento assunto dal datore di lavoro in danno del proprio dipendente - a prescindere dall'esistenza di determinate clausole del contratto collettivo e dalla conseguente previsione di una determinata sanzione in relazione ad una condotta tipizzata del lavoratore -, il Giudice deve concretamente accertare la condotta tenuta dal dipendente e quella del datore di lavoro, oltre alla gravità delle violazioni imputate allo stesso nonché il rapporto di proporzionalità tra la sanzione inflitta e l'infrazione contestata.
In virtù di ciò, il licenziamento può dirsi legittimamente comminato qualora con la propria condotta il lavoratore abbia irreparabilmente compromesso il vincolo fiduciario, evenienza che non consentirebbe la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Posti tali principi di carattere generale, il comportamento violento tenuto dal dipendente nei confronti della collega di lavoro, consistito nello strattonamento della stessa, nell'alzare il tono di voce e nell'afferrarle il braccio tirandole il maglione, allo scopo di portarla fuori dall'ufficio, tenuto conto dell'occasionalità del comportamento, dell'assenza di precedenti disciplinari e della mancanza di conseguenze sul piano lavorativo, legittima l'applicazione della sola sanzione disciplinare conservativa, piuttosto che quella espulsiva del licenziamento.
Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione, Sezione lavoro, nella sentenza n. 33027, depositata in data 20 Dicembre 2018.
Il giudizio di merito
Con ricorso ex L. 92/2012 (cd. rito Fornero), un dipendente impugnava il licenziamento disciplinare comminatogli a seguito della condotta tenuta nei confronti della collega d'ufficio, conseguente al diniego da parte della stessa di consegnargli alcune pratiche, motivo per cui, nel tentativo di prendere con la forza tali documenti, alzava il tono di voce, spingeva la collega afferrandola per un braccio e tirandole il maglione allo scopo di portarla fuori dall'ufficio.
Il Tribunale di Milano dichiarava illegittimo il licenziamento e, pertanto, condannava il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore nel posto in precedenza occupato, con condanna al pagamento - in favore dello stesso - di una indennità risarcitoria pari alla retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione che, in ogni caso, non poteva risultare superiore alle 12 mensilità.
La Corte di Appello di Milano, successivamente adita in sede di reclamo, in riforma della sentenza del Tribunale meneghino riteneva comunque illegittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, tuttavia, ai sensi del 5° comma dell'art. 18 della legge n. 300/ 1970, nel testo applicabile ratione temporis, non concedeva la reintegrazione nel posto di lavoro e, nel dichiarare risolto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento, condannava il datore di lavoro al pagamento dell'indennità risarcitoria (<<determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo>>), con condanna del lavoratore al pagamento delle spese relative al doppio grado di giudizio.
La stessa, dopo aver accertato l'esistenza dei fatti contestati riteneva, tuttavia, sproporzionata la sanzione del licenziamento.
La sentenza della Corte di Cassazione
Propone ricorso per cassazione il lavoratore affidando lo stesso a tre motivi, tra cui, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 e 2106 Cc nonché dell'art. 18 L. 300/1970, vigente all'epoca dei fatti, nonché per l'illegittimità della condanna alle spese.
La Corte ricorda come <<deve rammentarsi che il giudice di merito investito della domanda con cui si chieda l'invalidazione d'un licenziamento disciplinare, accertata in primo luogo la sussistenza in punto di fatto dell'infrazione contestata, deve poi verificare che la stessa sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso; in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto la gravità dell'addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell'elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell'adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all'adempimento dei suoi obblighi (cfr., ex allis, Cass. nr.15058 del 2015; Cass. nr. 2013 del 2012; Cass. nr. 2906 del 2005; Cass. nr. 16260 del 2004).>>.
A tal proposito, <<il giudice deve tener conto di tutti i connotati oggetti e soggettivi del fatto, vale a dire del danno arrecato, dell'intensità del dolo o del grado della colpa, dei precedenti disciplinari nonché di ogni altra circostanza tale da incidere in concreto sulla valutazione del livello di lesione del rapporto fiduciario tra le parti.>>.
Nello specifico evidenzia la correttezza della decisione della Corte di merito, in considerazione del fatto che la stessa ha <<accertato la sussistenza del fatto contestato ovvero che il lavoratore, al diniego di una collega di consegnargli alcune pratiche, tentava di prendere con forza i documenti, alzava il tono di voce, afferrava per un braccio la collega «tirandole il maglione», allo scopo di portarla fuori dall'ufficio. I giudici di merito hanno correttamente ritenuto che detta condotta rappresentasse fatto di rilievo disciplinare, astrattamente inquadrabile nella nozione di giusta causa: il comportamento violento posto in essere nei confronti di un collega di lavoro, di rilevanza anche penale, costituisce indubbiamente una grave violazione degli obblighi discendenti dal contratto di lavoro.>>.
Tuttavia, con riferimento alla gravità della condotta ed alla proporzionalità della sanzione comminata, la stessa <<avuto riguardo all'occasionalità del comportamento (il lavoratore non aveva precedenti disciplinari), al contesto in cui andava ad inserirsi la condotta (la collega dapprima aveva chiesto il suo aiuto e poi lo aveva rifiutato solo perché non era stato da subito disponibile), all'assenza di conseguenze sul piano lavorativo, ha escluso la giusta casa del recesso.>>.
Sul punto, pertanto, il ricorso viene rigettato.
Fondato, invece, il terzo motivo, laddove il ricorrente si lagna del fatto che, pur con la declaratoria di illegittimità del licenziamento, lo stesso è stato comunque condannato al pagamento delle spese di entrambi i giudizi.
A tal proposito rileva che, per costante orientamento, <<la parte che, all'esito finale della lite, risulti vittoriosa per effetto dell'accoglimento anche non integrale della sua domanda, non può subire la condanna al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte soccombente, salva l'ipotesi della trasgressione al dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88 cod.proc.civ. (Cass. nr. 6860 del 2015).>>.
Ciò posto, accoglie l'anzidetto terzo motivo e cassa la sentenza con rinvio alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, la quale dovrà provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
Autore: Paolo Accoti