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Cassazione: troppi accessi alla pagina Facebook, licenziamento legittimo

La circostanza che l'accesso a Facebook e, pertanto, a siti estranei all'attività lavorativa, necessita di password, non fa sorgere dubbi sul fatto che sia la titolare dell'account ad averlo eseguito


Avv. Paolo Accoti – In tema di sanzioni disciplinari, tra cui rientra anche la sanzione più afflittiva del provvedimento espulsivo (licenziamento), al fine di valutare la legittimità e la proporzionalità del provvedimento assunto dal datore di lavoro in danno del proprio dipendente, a prescindere dall'esistenza di determinate clausole del contratto collettivo e dalla conseguente previsione di una determinata sanzione in relazione ad una condotta tipizzata del lavoratore, il Giudice deve concretamente accertare la condotta tenuta dal dipendente e quella del datore di lavoro, oltre alla valutazione in merito alla gravità delle violazioni imputate al medesimo dipendente, nonché il rapporto di proporzionalità tra la sanzione inflitta e l'infrazione contestata.

In linea generale, pertanto, il licenziamento può dirsi legittimamente comminato qualora con la propria condotta il lavoratore abbia irreparabilmente compromesso il vincolo fiduciario, evenienza che non consentirebbe la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Bisogna ora chiedersi se l'accesso a siti internet, estranei all'attività lavorativa concretamente svolta dal dipendente, effettuati durante l'orario lavorativo, può comportare quella irrimediabile lesione del vincolo fiduciario che precluderebbe il prosieguo del rapporto di lavoro.

Il giudizio di merito

A dare risposta affermativa al quesito sopra posto è il Tribunale di Brescia prima, e la Corte d'Appello del medesimo capoluogo poi, i quali hanno avuto modo di affermare come l'accesso a siti internet durante l'orario di lavoro, peraltro, neppure negato dalla dipendente, accertato mediante la visione della "cronologia" del computer alla stessa concesso in dotazione, confermato - con riferimento agli accessi al social network denominato "facebook" - dalla circostanza che tale accesso necessità di una password, non può far revocare in dubbio come la dipendente fosse proprio la titolare di quello specifico account utilizzato per gli anzidetti accessi.

Ciò posto, l'estensione temporale e quantitativa del fenomeno, con <<circa 6 mila accessi nel corso di 18 mesi, di cui 4.500 circa su facebook, per durate talora significative>>, rappresenta una condotta di una tale gravità che sicuramente si pone in contrasto con l'etica comune ed è idonea ad incrinare la fiducia datoriale.

Il giudizio di legittimità

La dipendente propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, tra cui, la violazione degli artt. 414 e 416 Cpc e l'illegittima utilizzazione di prove raccolte in un altro giudizio.

La Corte di Cassazione, Sezione lavoro, con la sentenza n. 3133, depositata in data 1° Febbraio 2019, rigetta il ricorso e condanna la dipendente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

La stessa, dopo aver ritenuto i motivi addotti dalla dipendente privi dei requisiti di specificità, sottolinea che <<quanto all'idoneità probatoria della cronologia, ogni questione attiene alla formazione del convincimento del giudice del merito, il quale ha sul punto ampiamente motivato, valorizzando non solo la mancata contestazione da parte della ….., ma anche il fatto che gli accessi alla pagina personale facebook richiedono una password, sicché non dovevano nutrirsi dubbi sulla riferibilità di essi alla ricorrente. Valutazioni tutte rispetto alle quali la censura in esame si traduce in una richiesta di diversa valutazione della prova, e quindi del merito, che non può avere ingresso, a fronte di una motivazione non implausibile da parte della Corte d'Appello, in sede di legittimità.>>.

Analoghe ragioni, infine, portano anche a rigettare la censura relativa alla mancata ammissione di una Consulenza Tecnica d'Ufficio (C.T.U.) - ritenuta, peraltro, meramente "esplorativa" - con lo scopo di stabilire gli accessi ad internet contestati alla dipendente, avendo sul punto i Giudici di merito correttamente motivato con un ragionamento logico-giuridico incensurabile dinnanzi alla Suprema Corte.

Il licenziamento, pertanto, viene confermato con il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di legittimità.

Data: 04/02/2019 15:00:00
Autore: Paolo Accoti