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Diritto di famiglia in Italia: il tribunale di Roma

Le profonde spaccature evidenziate dalle attuali iniziative di legge suggeriscono una più attenta osservazione delle prassi applicative, a partire dalla capitale


di Marino Maglietta – E' già stato visto come da alcuni tribunali del sud – Brindisi, Salerno, Catanzaro – siano partiti esempi, a volte consacrati da ufficiali linee guida, a volte più estemporanei – di una applicazione delle norme sull'affidamento dei figli di genitori separati che si sono poste decisamente fuori dal coro delle prevalenti applicazioni. Alla vigilia di un nuovo intervento legislativo, che trova le sue radici e le sue motivazioni proprio nella lamentata distanza tra legge e prassi, appare opportuno guardare con maggiore attenzione come viene gestito in pratica il diritto di famiglia. In questo senso il più interessante esempio non poteva che essere fornito dal tribunale di Roma, sia per la sua intrinseca rappresentatività, sia per l'elevatissimo numero annuo di interventi, sia perché assai spesso i suoi funzionari vengono scelti per svolgere compiti di grande prestigio e di rilevanti ricadute pratiche, dalla redazione di decreti legislativi alla tutela a livello nazionale dei diritti dell'infanzia.

Naturalmente avrebbe scarsa scientificità e valore probatorio tentare di trarre conclusioni da una analisi, necessariamente a campione, della giurisprudenza locale.

Verrà, quindi, fatto riferimento a quanto di più generale e ufficiale viene dal tribunale stesso fornito (ovvero dalla sezione I), come il Prestampato con le istruzioni per le separazioni consensuali, il Protocollo per le spese straordinarie e il Quesito standard per le Consulenze tecniche di Ufficio (CTU).

Fac-simile del ricorso per separazione consensuale

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Apparentemente simile a decine di altri distribuiti nelle cancellerie dei tribunali civili, il modulo che il TO di Roma mette a disposizione degli interessati – gli avvocati e le parti – presenta tuttavia alcune sue specificità. Ad es., la proposizione iniziale "L'esercizio della potestà genitoriale è esercitata congiuntamente da entrambi i coniugi" lascia decisamente sconcertati. Già "esercitare un esercizio" è espressione di dubbia coerenza con le consuetudini della lingua italiana, pur essendo certamente il linguaggio cosa viva e mutevole. Così come stupisce il difetto di concordanza tra il sostantivo (maschile) e il relativo aggettivo (al femminile). D'altra parte ancor più lascia perplessi l'utilizzazione nel 2019 del termine "potestà" sostituito dal diverso concetto di "responsabilità" dal D.lgs 154/2013.

Né la situazione migliora proseguendo la lettura. Difatti prima ci si imbatte in una indicazione inequivocabilmente monogenitoriale: "I figli avranno la loro residenza stabile presso ….. in via ….. ", dove l'aggettivo "stabile" spazza via ogni eventuale residuo dubbio sulla introduzione di un genitore prevalente pur essendo posta la prescrizione dopo entrambe le ipotesi, di affidamento esclusivo come di affidamento ad entrambi i genitori. La situazione sembra modificarsi subito dopo, quando si legge "In ogni caso sarà assicurata la presenza di entrambi i genitori presso i figli e gli stessi paritariamente provvederanno alla cura ed alla educazione della prole". Dove, tuttavia il generico e ambiguo riferimento alla "presenza" mal si concilia con i "paritari" compiti di cura.

Il ragionevole dubbio che può sorgere viene, in effetti, spazzato via dalle modalità ordinarie di contributo al mantenimento, successivamente precisate: "il/la … , quale contributo perequativo per il mantenimento dei figli, corrisponderà a … la somma mensile di euro … ", che cancella il carattere eventuale dell'assegno, pur utilizzando il termine "perequativo", ovvero conferma la predilezione per il genitore prevalente, che gestisce i figli con il denaro ricevuto dall'altro. Non manca, in realtà, la possibilità di una forma diretta ma, bizzarramente, questa viene riservata a un inattuale "affidamento congiunto" (che per altro non lo escludeva affatto), considerando in alternativa che per strani e non descritti motivi "non sia previsto un assegno", preoccupandosi allora di elencare le voci che tipicamente vengono considerate fuori di esso, ovvero "straordinarie", nella tradizionale e diffusa lista che neppure a Roma manca (v. sotto): "entrambi i genitori si obbligano a sostenere ogni spesa per il mantenimento, vitto, alloggio, istruzione, cura, educazione, ricreazione, attività sportive per i figli, in proporzione alle proprie sostanze, quanto meno nella misura del … per il … e del … per l'altro genitore".

Come si vede, anzitutto si dovrà sorvolare sorridendo sull'uso dell'articolo maschile per il genitore obbligato… Resta il fatto, ancor più pesante, che il mantenimento diretto per capitoli di spesa non è neppure nominato, mentre ai fini della ripartizione degli oneri ogni voce è considerata a sé stante; il che significa che resta in piedi il laborioso e conflittuale meccanismo che prevede che ogni scelta debba essere preventivamente concordata e documentata per poi procedere periodicamente a conguagli o rimborsi: il sistema migliore per dilatare il contenzioso, come è esperienza di ogni tribunale.

E in aggiunta si segnala l'inciso "quanto meno nella misura del". Una specificazione che sembra tradire un modello culturale ben preciso. Ovvero: ci dovrebbe essere un "genitore prevalente", che coincide con quello più debole economicamente. Questi dovrebbe ricevere dall'altro del denaro. Nella ("denegata") ipotesi che così non sia e che i genitori debbano contribuire pro quota a ciascuna delle stesse spese esterne (ossia non legate alla convivenza) il più abbiente dovrà farsi carico "quanto meno" di una quantità corrispondente alla proporzione: meglio se eccedente. Perché? Evidentemente perché il regime ideologicamente previsto e/auspicato dai redattori è così strettamente monogenitoriale da sorvolare sulle conseguenze del mancato rispetto del principio di proporzionalità. Questo, invece, va osservato sempre, altrimenti si ledono diritti indisponibili dei figli minori, nel senso che se uno dei genitori dà più del giusto, quando sono presso di lui i figli avranno a disposizione meno del giusto…. Ma tale circostanza evidentemente è vista come così residuale da non meritare considerazione.

Il protocollo per le spese straordinarie

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La soluzione escogitata dal Tribunale di Roma – in collaborazione con un consistente gruppo di avvocati romani – alla fine del 2014 denuncia già nella premessa il suo fondamentale limite concettuale, restare strettamente agganciato al pregresso modello monogenitoriale, a dispetto di una riforma ormai ultradecennale e dell'attuale forte movimento di protesta (a prescindere dalle modalità utilizzate) contro la prassi dominante. Dichiara, infatti, di voler ridurre in via preventiva il contenzioso "prevedendo un assegno di mantenimento, voce certa nel quando e nel quantum e comunque immediatamente azionabile in via esecutiva, il più possibile comprensivo di voci di spesa caratterizzate dall'ordinarietà o comunque dalla frequenza anche al fine di consentire al genitore beneficiario una corretta ed oculata amministrazione del budget di cui sa di poter disporre, riducendo le occasioni di richiesta al coobbligato e di possibile conflitto."

Si parte, quindi, pur in regime di affidamento condiviso, da una drastica discriminazione tra i genitori, uno dei quali provvederà a tutti i bisogni considerati "ordinari" dei figli utilizzando denaro fornito dall'altro mediante un assegno descritto come immancabile, dimenticandone il ruolo solo residuale assegnatogli dalla legge. Non manca, oltre tutto, implicitamente la classica attribuzione all'assegno della capacità di tutelare i figli grazie alla semplicità di verifica dell'esecuzione. Un abbinamento del tutto improprio, che tuttavia è abbaglio diffusissimo, tanto che lo prende anche l'attuale Garante nazionale dell'infanzia, forse non a caso già magistrato della I sez. civile del tribunale di Roma: "La previsione di un assegno di mantenimento per i figli garantisce il soddisfacimento delle esigenze dei figli stessi e una maggiore effettività in caso di inadempimento al pagamento dell'assegno" (Audizione in Comm. Giustizia del Senato, 2019).

Comunque, operativamente non può non lasciare perplessi l'elenco delle voci comprese nell'assegno, talmente esteso da far pensare a un preciso intento di tagliare fuori il "genitore non collocatario" da qualsiasi compito di cura dei figli: "vitto, abbigliamento, contributo per spese dell'abitazione, spese per tasse scolastiche (eccetto quelle universitarie) e materiale scolastico di cancelleria, mensa, medicinali da banco (comprensivi anche di antibiotici antipiretici e comunque di medicinali necessari alla cura di patologie ordinarie e/o stagionali), spese di trasporto urbano (tessera autobus e metro), carburante, ricarica cellulare, uscite didattiche organizzate dalla scuola in ambito giornaliero; prescuola, doposcuola e baby sitter se già presente nell'organizzazione familiare prima della separazione; trattamenti estetici (parrucchiere, estetista, ecc.).". Una lista evidentemente infarcita di bisogni dei figli che il genitore non collocatario sarebbe perfettamente in grado di soddisfare perfino se vivesse in altra città: da quelle per l'istruzione, all'abbigliamento, ai mezzi di trasporto e via dicendo. In concreto, dilatare questo elenco significa far crescere la cifra dell'assegno, allontanare maggiormente il genitore esterno dalla quotidianità e tagliarlo fuori da ogni sia pur piccola scelta (come quella di un abito). Una filosofia che sembra fatta apposta per creare motivi di irritazione e accrescere la probabilità di liti.

Allora, perché non seguire il modello adottato nelle Linee-guida del Tribunale di Brindisi (quo vide) - che opera una divisione delle spese in prevedibili e imprevedibili - e assegnare per intero tutte quelle prevedibili o all'uno o all'altro in sede di decisione iniziale – rispettando la proporzione con le risorse – lasciando il complesso meccanismo dell'accordo e della documentazione solo alla imprevedibili? Domanda fatta molte volte e rimasta senza risposta.

Il quesito standard per le Consulenze tecniche d'ufficio

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Indubbiamente si potrebbe pensare, per queste varie eredità del passato, che si tratti di antiche redazioni che non si è ancora fatto in tempo ad aggiornare. Ma questa benevola spiegazione si scontra con altra emanazione della medesima prima sezione civile (dicembre 2018), che dimostra come in effetti il trascorrere lungo o breve del tempo sia ininfluente.

Si tratta del Quesito standard per le CTU, una attenta analisi del quale fornisce una perfetta conferma di quanto qui già osservato. A dispetto della sua prestigiosa origine (è stato sottoscritto all'esito di un lungo lavoro condiviso dalla Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma, il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Roma e l'Ordine degli Psicologi del Lazio), i risultati non appaiono convincenti. Il consulente dovrebbe adoperarsi al fine di "consentire una soluzione concordata del presente procedimento nel quadro di applicazione della disciplina dell'affidamento condiviso". Il problema è, tuttavia, che i suggerimenti implicitamente forniti dal Protocollo su ciò che debba intendersi per "affidamento condiviso" per quanto sopra detto non appaiono in linea con le previsioni del legislatore; o quanto meno presentano criticità e aspetti discutibili. In aggiunta, attingendo al quesito stesso, si può segnalare che l'invito al "mantenimento di un continuativo rapporto con ciascuno dei genitori" amputa al testo di legge il termine più significativo: "equilibrato". Non certo casualmente. E' quindi da chiedersi: se prestigiosi giuristi – i magistrati della principale sezione nazionale di diritto di famiglia – forniscono un certo tipo di indicazioni come potrà un consulente di formazione e cultura psicologica permettersi di aggiustare il tiro e andare in diversa direzione? Naturalmente questo sposta ancora più a monte la criticità che qui si affronta. E' corretto che il TO investa un CTU di stabilire "la formula di affidamento più idonea" o sarebbe compito del giudice, sulla base della mera descrizione delle qualità dei genitori e del loro interfacciarsi? Viceversa, il TO va ben oltre, incaricando il delegato perfino di stabilire tempistiche e sperimentare "regimi di frequentazione".

Per completare il valutazione di questo sforzo, di per sé lodevole, di uniformare i quesiti proposti ai consulenti, non appare convincente neppure che sia dato incarico ad essi di procedere all' "ascolto dei minori". La CTU è luogo di indagine, di interrogatori, non di una audizione rispettosa e silenziosa di ciò che i figli abbiano desiderio di dire. E anche quello all'ascolto è (sarebbe) un diritto dei figli non disponibile.

Data: 26/06/2019 14:00:00
Autore: Marino Maglietta