Reato spiare la chat del partner per provare il tradimento
Irrilevante per la Cassazione che la chat fosse casualmente aperta. Il marito si è comunque mantenuto nel sistema contro la volontà della moglie scaricando e stampando le chat col presunto amante
di Lucia Izzo - Rischia una condanna per accesso abusivo a un sistema informatico o telematico (art. 615-ter c.p.) e violazione di corrispondenza (art. 616 c.p.) il marito geloso che entra nel profilo Skype della moglie per raccogliere prove del suo adulterio da utilizzare in Tribunale per addebitare a lei la separazione.
Irrilevante la circostanza che il profilo fosse già "aperto" sul computer presente in un luogo comune della casa: la norma, infatti, non punisce solo la condotta di chi si introduce nel sistema informatico o telematico, ma anche quella di chi vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo. Inoltre, anche se la password era già salvata al momento dell'accesso abusivo, il sistema era comunque munito di misure di sicurezza a protezione dello ius excludendi.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 34141/2019 (qui sotto allegata) pronunciandosi in relazione alla vicenda di un uomo accusato di accesso abusivo al profilo Skype della moglie e violazione di corrispondenza (ex art. 616, primo e terzo comma, c.p.).
- Il caso
- L'illecito mantenimento nel sistema informatico
- Giusta causa: va valutato anche il mezzo, non solo lo scopo
Il caso
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Dopo essere entrato sul profilo Skype, il geloso marito aveva stampato le chat intercorse tra la moglie e il suo presunto amante, con annesse fotografie, e le aveva poi utilizzate nel procedimento di separazione dalla donna.
L'imputato, tuttavia, evidenzia come il computer fosse già aperto su Skype e sulle chat incriminate che erano comparse sul monitor dopo che lui aveva urtato per sbaglio nella sala da pranzo il tavolo sul quale si trovava il computer portatile della persona offesa.
L'uomo viene assolto in entrambi i gradi di merito, mentre assai diverso è l'esito in Cassazione a seguito del ricorso della donna, in qualità di parte civile, secondo cui i giudici avrebbero applicato in maniera erronea l'art. 615-ter c.p., trattandosi di norma che punisce non solo l'accesso abusivo a un sistema informatico, ma anche il mantenimento nello stesso contro la volontà del titolare.
Da qui l'inconferenza di tutte le circostanze dedotte dall'imputato (computer collocato in luogo comune, già aperto su Skype, ecc.), rilevando unicamente il fatto che l'uomo si era pacificamente trattenuto all'interno di un sistema telematico protetto da misure di sicurezza, navigando nel profilo Skype della ricorrente, leggendo e stampando pagine e pagine di conversazioni, pur sapendo di non essere autorizzato a farlo e anzi nella piena consapevolezza della contraria volontà della moglie.
L'illecito mantenimento nel sistema informatico
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Una ricostruzione accolta dagli Ermellini che criticano l'operato della Corte territoriale. Indipendentemente dalla possibilità che l'imputato potesse aver trovato casualmente la chat già "aperta" in luogo comune, come da questi dichiarato, i giudici di merito hanno mancato di soffermarsi sulla condotta di illecito mantenimento, la quale ben può perfezionarsi anche in presenza di una casuale iniziale introduzione nel sistema informatico (cfr. sent. n. 4694/2011 e SS.UU. n. 17325/2015).
La motivazione della decisione impugnata, secondo la Suprema Corte, risulta del tutto carente nella parte in cui non ravvisa, nella condotta dell'imputato, un illecito mantenimento nel sistema informatico.
Anche il fatto che la persona offesa avesse "registrato" la password per non doverla riscrivere in occasione di ogni accesso non esclude che il sistema informatico in questione fosse munito di misura di sicurezza a protezione dello lus excludendi.
Secondo la stessa giurisprudenza di legittimità, infatti, neppure rileva la circostanza che le chiavi di accesso al sistema informatico protetto siano state comunicate all'autore del reato, in epoca antecedente rispetto all'accesso abusivo, dallo stesso titolare delle credenziali, qualora la condotta incriminata abbia portato ad un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante l'eventuale ambito autorizzatorio (cfr. Cass. n. 2905/2018).
Giusta causa: va valutato anche il mezzo, non solo lo scopo
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La Cassazione è scettica anche sulla presenza di una "giusta causa", ritenuta sussistente dai giudici di merito in quanto l'imputato non aveva deciso di divulgare "indiscriminatamente le conversazioni e le foto intime e compromettenti della moglie", ma si era limitato a diffonderle in sede di separazione allo scopo di ottenere l'addebito della controparte.
Tuttavia, secondo gli Ermellini, tale nozione di "giusta causa" ex art. 616, secondo comma, c.p. viene delineata dal giudice di appello in termini del tutto astrattizzanti in quanto correlati esclusivamente allo scopo perseguito (l'utilizzazione nel giudizio civile di separazione tra coniugi).
Manca, invece, qualsiasi valutazione in ordine al "mezzo" attraverso il quale la corrispondenza telematica era stata conosciuta: sotto questo profilo, il vizio rilevato in relazione al capo concernente l'accesso abusivo al sistema informatico si riflette anche sulla valutazione in merito alla "giusta causa". La sentenza va dunque annullata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello.
Autore: Lucia Izzo