Cassazione: anche lo straining va provato
di Annamaria Villafrate - Con l'ordinanza n. 24883/2019 (sotto allegata) la Cassazione, Sez. Lavoro, precisa che non si può riconoscere il danno da mobbing alla lavoratrice che non fornisce un adeguato corredo probatorio idoneo a provare, per la condotta di mobbing, o per quella meno offensiva dello straining, il comportamento della società datrice, l'evento lesivo conseguente, il nesso si causalità e l'intento persecutorio o stressogeno. Il giudice d'Appello, anche se munito di poteri istruttori, non può colmare la colpevole inerzia probatoria di parte attrice, colmando la carenza di prove sui fatti costitutivi della domanda.
La vicenda processuale
La Corte d'appello respinge il gravame proposto da una lavoratrice avverso la decisione di primo grado che ha rigettato il suo ricorso finalizzato all'accertamento delle condotte di mobbing e/o straining, di demansionamento asseritamente poste in essere dalla società datrice nei suoi confronti, al risarcimento dei danni sofferti, patrimoniali e non, al dedotto svolgimento di mansioni di qualifica dirigenziale, con connesse differenze retributive, rispetto ai livelli d'inquadramento formalmente riconosciuti alla stessa.
Il giudice d'appello, per quanto riguarda la domanda di inquadramento nella qualifica superiore, rileva come l'appellante non abbia prodotto il contratto collettivo applicabile e non abbia posto a raffronto le mansioni che dichiarava di avere svolto, rendendo impossibile l'accertamento dell'inquadramento di livello superiore affermato, osservando come queste carenze probatorie non potevano essere colmate dal giudice, in quanto l'onere di allegazione incombe alla parte.
In relazione al mancato risarcimento del danno conseguente alla presunta condotta di mobbing, la Corte rileva che l'omesso riconoscimento del superiore livello d'inquadramento rivendicato non può considerarsi alla stregua di un comportamento vessatorio e/o persecutorio e che, comunque, anche su questo punto, le deduzioni sono generiche e fanno riferimento solo a un periodo successivo alle assunzioni da parte della società datrice di due dipendenti.
Non sono risultate dirimenti neppure le conclusioni dei medici a cui si è rivolta la ricorrente, mancando, nelle loro relazioni, le percentuali di danno biologico permanente, temporaneo e morale, stante l'esiguità dell'asserito periodo di mobbing. Negato infine il risarcimento del danno da dequalificazione professionale per l'assenza di allegazioni idonee a supportarne la domanda di riconoscimento.
Il ricorso della dipendente
Ricorre in Cassazione la lavoratrice lamentando:
- l'insussistenza d'incertezza sulla contrattazione collettiva di riferimento, essendo incontestata tra le parti l'applicabilità del CCNL Commercio. Il C.C.N.L. non rientra inoltre tra i mezzi di prova e i documenti che il ricorrente deve indicare e depositare a pena di decadenza con il ricorso, spettando al giudice, in base agli elementi in atti, accertare la debenza delle somme richieste relativamente all'asserita qualifica superiore asserita dalla lavoratrice;
- come la corte abbia ignorato che, ai sensi dell'art 2087 c.c. "la dequalificazione può essere configurata come elemento di mobbing se viene fornita la prova dell'esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro" oltre ad aver inquadrato ingiustificatamente la condotta in un arco temporale ristretto, valutazione erronea che ha condotto al mancato accoglimento della domanda. Resistono, con separati controricorsi, la società datrice e l'Inail.
Anche lo straining va provato
La Cassazione, con ordinanza n. 24883/2019, rigetta il ricorso della ricorrente precisando, in relazione al primo motivo, l'esattezza del percorso argomentativo della corte d'appello sull'incertezza del contratto collettivo applicabile. Sul secondo motivo gli Ermellini spendono più parole identificando, prima di tutto, gli elementi necessari a configurare una condotta di mobbing e poi precisando come "ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene" (cd. "straining"), e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno (cfr. Cass. 19.2.2016)."
Nel caso di specie non sono state fornite prove rilevanti a configurare neppure la condotta di straining del datore di lavoro, considerato che ai sensi dell'art. 2087 c.c. incombe sul dipendente che lamenta di avere subito un danno alla salute conseguente all'attività lavorativa svolta, l'onere di provarne l'esistenza, la nocività dell'ambiente di lavoro e il nesso tra quest'ultima e il danno lamentato "e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno."
Non si può pretendere che il giudice d'appello colmi, con i propri poteri istruttori, la colpevole inerzia probatoria o la totale carenza probatoria sui fatti costitutivi della domanda.
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Data: 14/10/2019 14:00:00Autore: Annamaria Villafrate