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Agire contro la giurisprudenza dominante? È abuso del processo

Secondo gli Ermellini integra colpa grave proporre un ricorso in sede di legittimità fondato su tesi distanti da principi giuridici pacifici, risalenti e ripetutamente affermati dalla Corte stessa


di Lucia Izzo - Scatta la responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c. qualora si agisca o si resista in giudizio con mala fede o colpa grave. E integra un'ipotesi, quantomeno, di colpa grave quella di aver proposto un ricorso per Cassazione fondato su argomentazioni vistosamente distanti da princìpi giuridici pacifici e risalenti, consolidati in quanto ripetutamente affermati stessa giurisprudenza di legittimità.

Il caso

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Tanto ha deciso la Corte di Cassazione, terza sezione civile, nella sentenza n. 26299/2019 (sotto allegata) con cui ha condannato d'ufficio la ricorrente ex art. 96, comma 3, del codice di procedura civile sulla falsariga di quanto prospettato nella sua recente ordinanza n. 24649/2019.

Per approfondimenti: Abuso del processo per chi agisce contro la giurisprudenza dominante

Responsabilità aggravata

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Al giudizio, conclusosi con la pronuncia di legittimità, risulta applicabile ratione temporis l'art. 96, comma 3, c.p.c., nel testo aggiunto dall'art. 45, comma 12, della L. 69/2009, il quale stabilisce che "in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata".


La Cassazione precisa ritiene che agire o resistere in giudizio con mala fede o colpa grave vuol dire
azionare la propria pretesa, o resistere a quella avversa, con la coscienza dell'infondatezza della domanda o dell'eccezione; ovvero senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione.

Colpa grave proporre ricorso in base a tesi distanti da principi consolidati

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Nel caso di specie, la ricorrente ha proposto un ricorso sostenendo molteplici tesi insostenibili: che una proposta contrattuale costituirebbe un atto revocabile; che la sentenza impugnata per cassazione aveva omesso di pronunciarsi su una parte della domanda, ad onta del suo chiaro tenore letterale in senso contrario; che il creditore di soggetto ammesso al concordato preventivo possa promuovere un'azione revocatoria al di fuori del concordato e nonostante la prestata acquiescenza all'omologa di esso.
Si tratta, precisa la Cassazione, di tesi così distanti da princìpi giuridici pacifici e risalenti, e ripetutamente affermati dalla stessa Corte, che, ad avviso del Collegio, costituiscono un'ipotesi (almeno) di colpa grave, consistente nel "non intelligere quod omnes intelligunt" (non comprendere ciò che tutti comprendono).
Parte ricorrente viene dunque condannata d'ufficio, ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., al pagamento in favore delle parti intimate, in aggiunta alle spese di lite, d'una somma equitativamente determinata a titolo di risarcimento del danno, pari a 5.000 euro, oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della presente ordinanza.
Data: 24/10/2019 16:00:00
Autore: Lucia Izzo