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Premi agli avvocati: possibile la violazione del codice deontologico

Per il Consiglio distrettuale di disciplina della Corte d'appello di Milano è potenzialmente scorretta dal punto di vista deontologico la pratica di alcuni avvocati di vantare premi sui social network


di Annamaria Villafrate - Il Consiglio Distrettuale di Disciplina della Corte d'Appello di Milano ha segnalato (con nota n. 40/2019 sotto allegata) il pericolo di violazione degli articoli 35 comma 8 e 37 del codice deontologico da parte di alcuni avvocati, che avrebbero pubblicato post sul social Linkedin in cui si evidenzia l'assegnazione di premi qualificanti capacità professionali in vari campi e comunicazioni contenenti i nominativi dei clienti. Il Consiglio invita i Presidenti del distretto a monitorare detti comportamenti al fine di intraprendere eventualmente gli opportuni provvedimenti disciplinari.

Analizziamo le norme deontologiche che si assumono violate e vediamo come si sono espressi il CNF e la Cassazione sui limiti della pubblicità imposti agli avvocati, per comprendere meglio i timori evidenziati nella nota del Consiglio:

La nota del Consiglio distrettuale di disciplina

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Il Consiglio Distrettuale di Disciplina della Corte di Appello di Milano con la nota n. 40 del 18 novembre 2019, rivolgendosi ai presidenti degli ordini del distretto milanese, rende noto che sui canali social, Linkedin in particolare, perché dedicato ai professionisti, da tempo vengono pubblicati articoli in cui si punta ad esaltare e mettere in evidenza l'assegnazione di premi ad avvocati che qualificano le loro capacità professionali in specifici ambiti e materie di competenza. Non solo: "accanto a tali post vi sono altre comunicazioni nella quali vengono evidenziati anche incarichi professionali con indicazione dei nominativi dei clienti e degli avvocati che si sono occupati della pratica."

Il Distretto è venuto a conoscenza del fatto che tutto questo è il frutto di accordi tra studi legali e la società che fornisce il servizio di pubblicazione dei post. Non solo, tali articoli o post, attraverso il meccanismo di condivisione che caratterizza i social network vengono divulgati dai professionisti stessi.

Tale condotta prospetta una possibile violazione degli artt. 35 co. 8 e 37 del Codice deontologico Forense, soprattutto perché "i titoli e i premi acquisiti non sono stati oggetto di una valutazione in termini di trasparenza e comunque provengono da soggetti istituzionalmente non abilitati ad una valutazione della nostra capacità professionale." Per questo il Consiglio sollecita l'avvio di verifiche in merito.

Cosa prevedono le norme presuntivamente violate

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Il Consiglio nella nota evidenzia che le norme presuntivamente violate dalle condotte illustrate degli avvocati sono l'art 35 co. 8 del Codice Deontologico Forense e l'art 37. Vediamo che cosa prevedono per comprendere le ragioni della preoccupazione sollevata dal Consiglio.

L'art 35 del Codice deontologico Forense, intitolato "Dovere di corretta informazione" al comma 8 dispone che: "Nelle informazioni al pubblico l'avvocato non deve indicare il nominativo dei propri clienti o parti assistite, ancorché questi vi consentano."

L'art 37 invece, che pone il Divieto di accaparramento della clientela dispone che:

La giurisprudenza sulla pubblicità degli avvocati

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Questa nota spinge subito a cercare una risposta alle condotte contestate agli avvocati tra le decisioni del Consiglio Nazionale Forense. La sentenza n. 391/16 sembra interessante soprattutto per le osservazioni e i principi generali che sancisce in materia di pubblicità degli avvocati. Essa premette infatti che "nel periodo successivo all'entrata in vigore del Decreto 248/06 si è determinata una plausibile mancanza di chiarezza sui confini applicativi del citato decreto e sono inoltre intervenute modifiche al codice deontologico che, rimuovendo i previgenti limiti alla pubblicità degli avvocati, hanno aperto una fase nella quale, in concreto, poteva apparire non sempre agevole determinare i confini entro i quali la pubblicità potesse ritenersi legittima."

Il CNF evidenzia inoltre che: "Con sentenza 183/2009 questo Consiglio riconosceva la legittimità dell'esercizio della professione in luoghi diversi rispetto allo studio tradizionale, stigmatizzando piuttosto i contenuti proposti invece dei mezzi utilizzati, perché considerati equivoci e suggestivi anziché informativi. Anche la Suprema Corte è intervenuta sul tema con la sentenza a Sez. Unite N. 23827/2010 ed ha condiviso il ragionamento del CNF, considerando legittimo censurare non lo strumento pubblicitario in sé, bensì i contenuti non conformi a correttezza e decoro professionale."

Le SU n. 9861/2017 inoltre, conformemente a quanto sancito dalla giurisprudenza del CNF, hanno precisato che: "La forte valenza pubblicistica dell'attività forense spiega perché il rapporto tra il professionista ed il cliente (attuale o potenziale) rimanga in buona parte scarsamente influenzabile dalla volontà e dalle considerazioni personali (o dalle valutazioni economiche) degli stessi protagonisti e come possa pertanto non risultare dirimente - nel senso di escludere il relativo divieto - il consenso prestato dai clienti del medesimo avvocato alla diffusione dei propri nominativi a fini pubblicitari." Divieto confermato anche dalla sentenza n. 55/2016 del Consiglio nazionale Forense.

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Data: 23/12/2019 08:00:00
Autore: Annamaria Villafrate