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Avvocati: illecito chiedere compensi al cliente ammesso al gratuito patrocinio

Il Consiglio Nazionale Forense rammenta il rilievo deontologico della richiesta di compensi al cliente ammesso al patrocinio a spese dello Stato


di Lucia Izzo - Come noto, il d.P.R. 115/2012 precisa che il difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato non può chiedere e percepire dal proprio assistito compensi o rimborsi a qualunque titolo, diversi da quelli previsti dal medesimo Testo Unico alla parte III.

La violazione del divieto costituisce grave illecito disciplinare professionale e sul punto non rilevano né il fatto che, quantomeno per colpa, il professionista non fosse a conoscenza dell'ammissione al benefici, né la successiva revoca del medesimo beneficio.
Lo ha rammentato il Consiglio Nazionale Forense nella sentenza 136/2019 (sotto allegata) pronunciandosi sul ricorso di un avvocato nei confronti del quale erano iniziati numerosi procedimenti disciplinari innanzi al COA, poi riuniti, per diverse violazioni deontologiche.

Illecito chiedere compensi al cliente ammesso al gratuito patrocinio

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Tra queste emerge la violazione dell'art. 11 del Codice deontologico (Dovere di difesa) per avere l'avvocato assunto la difesa di una donna, pur sapendo che la stessa era stata ammessa al patrocinio a spese dello stato. Dopo aver predisposto l'impugnazione della sentenza di primo grado, aveva inviato alla propria assistita, un SMS del seguente tenore "se tu cominciassi a pagarmi sarei più contento di buttare le ore per te".

Il CNF rammenta che Costituisce illecito disciplinare il comportamento dell'avvocato che, in violazione dell'art. 85 DPR n. 115/2002, richieda un compenso al cliente ammesso al patrocinio a spese dello Stato, a nulla rilevando in contrario la circostanza che, quantomeno per colpa, il professionista non fosse a conoscenza dell'ammissione al beneficio stesso così come l'eventuale successiva revoca del beneficio.

La difesa non giustifica le espressioni offensive

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Inoltre, innanzi al CNF, l'avvocato ha anche contestato la sussistenza dell'addebito derivato, a suo dire, da "un esposto insensato" e frutto di "livore personale del Giudice", definito "pessimo Magistrato", accolto dai "suoi yes men del locale Consiglio dell'Ordine (...) per ricavarne vantaggi professionali intuibili".

Le espressioni "gratuitamente offensive contenute negli atti dell'incolpato", non vengono però tollerate dai giudici del Consiglio e gli costeranno probabilmente un nuovo procedimento disciplinare. La difesa, infatti, non giustifica l'offesa: l'uso reiterato e spregiudicato nel ricorso di espressioni offensive verso l'intero Ordine Forense e la Magistratura, secondo i giudici denota spregio verso le Istituzioni e costituisce ulteriore grave comportamento la cui valutazione disciplinare andrà rimessa al COA di appartenenza.

Vita privata del professionista e potenziale rilevanza disciplinare

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All'avvocato, inoltre, era stato contestato di aver chiesto e ottenuto il rinvio della discussione del procedimento disciplinare per legittimo concomitante impegno professionale, che poi si era rivelato strumentale e nei fatti disatteso. In sostanza, dichiarava di avere udienza innanzi alla Corte di Cassazione, ma dal verbale era risultata in tale sede sia l'assenza del ricorrente che del suo assistito.

Tale comportamento era apparso dunque contrario ai canoni di lealtà, correttezza e dovere di verità. Inutile, per l'avvocato lamentare il difetto di giurisdizione del COA, non afferendo la condotta censurata all'attività professionale, ma a quella di "incolpato disciplinare".
Per il CNF, deve ritenersi disciplinarmente responsabile l'avvocato per le condotte che, pur non riguardando strictu sensu l'esercizio della professione, ledano comunque gli elementari doveri di probità, dignità e decoro e, riflettendosi negativamente sull'attività professionale, compromettono l'immagine dell'avvocatura quale entità astratta con contestuale perdita di credibilità della categoria. La violazione deontologica, peraltro, sussiste anche a prescindere dalla notorietà dei fatti, poiché in ogni caso l'immagine dell'avvocato risulta compromessa agli occhi dei creditori e degli operatori del diritto.
Nel caso di specie, il ricorrente ha di sicuro violato, con l'uso strumentale dell'istanza di rinvio, abusato anche nel corso dell'intero procedimento, i doveri di lealtà e correttezza verso le Istituzioni forensi, oggi contemplati dall'art. 19 Codice Deontologico.
Data: 28/03/2020 06:00:00
Autore: Lucia Izzo