Diffamazione a mezzo stampa e risarcimento del danno
- Chi risponde del danno commesso a mezzo stampa
- La rilevanza del diritto di cronaca e del diritto di critica
- Diffamazione a mezzo stampa: quando non c'è risarcimento
Chi risponde del danno commesso a mezzo stampa
Ci sono situazioni in cui anche chi è soggetto alla cosiddetta esposizione mediatica (per propria scelta di vita professionale o suo malgrado) può ritenere violato il proprio diritto all'onore e alla reputazione da un servizio giornalistico. Si rivolgerà pertanto al proprio legale il quale, qualora col proprio assistito scelga di procedere civilmente nei confronti dei responsabili, dovrà tenere conto della particolare situazione soggettiva del danneggiato.
Va innanzitutto tenuto presente che la Legge 8 febbraio 1948 n. 47 (e successive modifiche), stabilisce che in presenza dei reati commessi a mezzo stampa, ai fini del risarcimento del danno, rispondono, solidalmente con gli autori del reato (ovverosia i giornalisti che hanno scritto il pezzo), anche il proprietario e l'editore della pubblicazione.
Il risarcimento richiesto si riferisce ovviamente al danno non patrimoniale derivato dall'illegittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica, dal quale sia derivata la lesione della reputazione (e/o immagine).
La rilevanza del diritto di cronaca e del diritto di critica
Si è fatto cenno al diritto di cronaca e di critica in quanto, il loro legittimo esercizio agisce da scriminante rispetto a comportamenti effettivamente lesivi dell'onore del personaggio noto.
In effetti il diritto sancito dall'art. 21 della Costituzione nel caso preso in esame viene in contrapposizione col diritto costituzionale alla tutela della personalità umana, in tutte le sue componenti ed articolazioni, in particolare sotto il profilo della tutela dell'onore e della reputazione, sancito dall'art. 2 Cost.
L'interesse comune della collettività al controllo sociale effettuato dalla stampa, consente, nella contrapposizione dei diritti costituzionali sopra descritti, in particolari condizioni, a che il diritto di cronaca prevalga, o "indebolisca", il diritto alla tutela della propria onorabilità. Naturalmente ciò è consentito solo entro limiti ben precisi e solo in presenza di condizioni ormai ben delineate dalla giurisprudenza.
Diffamazione a mezzo stampa: quando non c'è risarcimento
Il compito del legale sarà, pertanto, quello di valutare se vi siano le condizioni perché si possa dire compiuto il bilanciamento tra tali diritti (tutti di rango costituzionale) considerando la presenza o meno di tali condizioni, orientandosi nell'analisi circa l'esistenza di ben determinate caratteristiche: 1. utilità sociale dell'informazione divulgata; 2. verità oggettiva o putativa; 3. forma civile dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione.
Il punto di riferimento unanimemente riconosciuto, che ha dettato un vero e proprio "decalogo del giornalista", è la Sentenza del 18 ottobre 1984 n. 5259 della Suprema Corte di Cassazione, la quale ha sancito: "Perché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell'onore possa considerarsi lecita espressione del diritto di cronaca e non comporti responsabilità civile per violazione del diritto all'onore, devono ricorrere tre condizioni 1) utilità sociale dell'informazione; 2) verità oggettiva, o anche soltanto putativa purché frutto di diligente lavoro di ricerca; 3) forma civile dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione, che non ecceda lo scopo informativo da conseguire e sia improntata a leale chiarezza, evitando forme di offesa indiretta".
Utilità sociale dell'informazione
L'utilità sociale è ovviamente presente nei casi di esercizio del controllo sociale effettuato dalla stampa nei confronti del "potere" nelle varie accezioni che questo termine può assumere. Tuttavia il diritto di cronaca connesso ai fatti che in senso lato potrebbero suscitare l'interesse dei lettori, andrebbe analizzato in maniera più compiuta non consentita dalla necessaria brevità di un articolo. Si procederà pertanto all'analisi degli altri due elementi rinviando la trattazione di questo punto ai prossimi aggiornamenti del blog.
La verità dei fatti
Il giornalista ha il preciso dovere di attenersi alla verità dei fatti, che non è rispettata quando, pur essendo vere le singole circostanze riferite, siano, dolosamente o colposamente, taciuti altri fatti strettamente ricollegabili alle prime, tanto da mutarne completamente il significato: "la verità non è più tale se è mezza verità (o comunque, verità incompleta)". I Supremi Giudici si spingono ad affermare che la "mezza verità" è più pericolosa della dell'esposizione di fatti falsi, questi ultimi infatti consentono una più facile possibilità di difesa di chi è oggetto di determinate accuse, il quale sente riferito a sé un preciso fatto falso, piuttosto che un fatto vero ma incompleto: "la verità incompleta deve essere … in tutto equiparata alla notizia falsa".
La civiltà dell'esposizione
Con riferimento, infine, alla civiltà dell'esposizione, va rilevato che la forma dell'esposizione non è civile se eccede rispetto allo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o se viene meno, nel complesso dell'esposizione, il rispetto di quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto. Si rileva l'inciviltà dell'esposizione anche se la stessa non è improntata alla leale chiarezza di ciò che viene riportato. L'uso della chiarezza consentirebbe infatti, nel danneggiato, la possibilità di difendersi mediante adeguate e concise (perciò efficaci) smentite. Il difetto intenzionale di leale chiarezza è più pericoloso di una notizia completamente falsa o di un commento triviale.
La giurisprudenza ha elencato anche una serie di espedienti (subdoli come gli stessi giudici le definiscono), che potrebbero essere utilizzati dai giornalisti per aggirare, tentando di rimanere senza sanzione, l'obbligo di chiarezza:
- il sottinteso sapiente: cioè l'uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori le intenderà o in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale, in senso più sfavorevole
- gli accostamenti suggestionanti: che si ottengono mettendo in sequenza la descrizione dei fatti riguardanti il danneggiato con la descrizione di fatti attribuiti a terzi ovvero con giudizi negativi anche se apparentemente espressi in forma generale ed astratta, di per sé ineccepibili, ma che i lettori sono inevitabilmente spinti a riferire alla persona che si vuol mettere in cattiva luce a causa del contesto in cui tali descrizioni o giudizi sono inseriti;
- il tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato specie nei titoli, consistente nella artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre o di per sé insignificanti. Le insinuazioni anche se più o meno velate, usando formule del tipo: "non si può escludere che …".
I tre parametri appena descritti, necessari affinché gli autori del servizio giornalistico possano essere sollevati da responsabilità di tipo civilistico, sono ripresi anche dalla giurisprudenza posteriore alla già citata Cassazione n. 5259/1984, per tutte basterà citare la Sentenza della Corte di Cassazione del 27 gennaio 2009 n. 1976.
Data: 01/05/2020 09:00:00Autore: Maurizio Castellani