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Differenze tra libertà di espressione del proprio pensiero e diffamazione

Presupposti normativi del reato di diffamazione, la diffamazione sui social network e le recenti pronunce della Cassazione in materia


Avv. Walter Domenico Casciello - Attualmente, l'utilizzo dei social network ha ingenerato la convinzione che ogni cittadino sia libero di esprimere, anche in maniera diffamatoria o ingiuriosa, il proprio pensiero.
Pensiamo, ad esempio, ad un post su Facebook, un commento su Instagram, una recensione su TripAdvisor, un messaggio inviato in "gruppo" su WhatsApp….
In quest'ottica, l'avvento delle nuove tecnologie, ha assicurato il diritto di espressione a chiunque, ponendo però a rischio i valori fra i più importanti della persona: la dignità, l'onore e la reputazione.
Accade, altresì, in misura sempre più diffusa, di leggere commenti di cittadini, i quali offendono, con accuse deplorevoli, il sindaco della città; post oltraggiosi tra parenti; o ancora, recensioni ingiuriose tra ex coniugi…
Orbene, in tutti questi casi, parliamo di una plausibile diffamazione aggravata a mezzo internet.

Il reato di diffamazione: presupposti normativi

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Il reato di diffamazione è previsto ex art. 595 cod. pen. , il quale sancisce che " Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente , comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro…. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico , la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro".
I presupposti del reato sono quindi i seguenti: l'assenza dell'offeso, consistente nell'impossibilità che la persona offesa percepisca direttamente l'addebito diffamatorio; l'offesa alla reputazione e la presenza di almeno due persone in grado di percepire le parole diffamatorie (esclusi il soggetto agente e la persona offesa).
Il reato di diffamazione previsto dall'art. 595 cod. pen., il quale stabilisce che il bene giuridico tutelato è la reputazione, intesa come l'opinione sociale dell'onore di una persona, la stima diffusa nell'ambiente sociale, insomma, ciò che gli altri pensano di una persona. L'offensore si rivolge ad altri parlando male di qualcuno con più di due persone oppure lo fa in forma scritta, per esempio, con un articolo di giornale.
Invece, l' assenza della persona offesa deve interpretarsi nella non presenza del soggetto passivo nel momento in cui il reato si consuma. La ragione consiste nell'impossibilità per il medesimo di difendersi, non potendo percepire direttamente l'offesa a lui arrecata, pronunciata al di fuori di una discussione alla quale possa partecipare la persona offesa.

Diffamazione su Facebook

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In merito alla diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca "Facebook", quest'ultima, integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone (Cassazione penale. sez 1 sent. 28/04/15 n. 24431.).

Ancora, con sentenza n. 48058/2019, la V sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui il reato di diffamazione di cui all'articolo 595 cod. pen. è configurabile in presenza di un'offesa alla reputazione di una persona determinata e non può, quindi, ritenersi sussistente nel caso in cui vengano pronunciate o scritte espressioni offensive riferite a soggetti non individuati, né individuabili, o a categorie, anche limitate, di persone (negli stessi termini, fra molte, Cass. Pen., Sez. V, 26/1/2018, n. 3809).
Di guisa, la giurisprudenza ritiene configurato il delitto in calce anche qualora l'offesa sia comunicata ad una persona sola, affinché questa, però, la comunichi ad altre.
Pertanto, continueranno ad essere diffamatorie frasi pronunciate sul proprio profilo privato o all'interno di commenti che nulla hanno a che vedere con una risposta/riscontro o interazione della persona offesa.
In estrema sintesi, non risulterà integrato il reato di diffamazione quando la persona offesa sia presente e possa percepire "direttamente" l'offesa, integrando in questo caso l'illecito, ormai depenalizzato, di ingiuria aggravata ex art 594 c.p.

La Cassazione sulle offese via chat di gruppo

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Merita una disamina, la sentenza n. 10905 depositata il 31 marzo 2020, con la quale la Corte di Cassazione ha stabilito che chi offende qualcuno in un gruppo chat non commette il reato di diffamazione, bensì di ingiuria aggravata, se l'offeso è presente all'episodio. Il reato di ingiuria, disciplinato dall'art.594 c.p., oggi depenalizzato, puniva l'offesa rivolta direttamente ad un altro soggetto, ad esempio durante una conversazione.
L'ingiuria si considerava aggravata se a tali offese assistevano altre persone.

In definitiva, gli Ermellini, sono giunti quindi alla conclusione che le espressioni offensive erano state pronunciate dall'imputato mediante comunicazione telematica diretta alla persona offesa, anche alla presenza di altre persone 'invitate' nella chat vocale.
Pertanto l'offeso non era rimasto estraneo alla comunicazione offensiva ed il reato contestato doveva quindi essere qualificato come ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, ai sensi dell'art. 594 del codice penale; illecito, quest'ultimo, depenalizzato ai sensi del D.Lgs. n. 7/2016.
Avv. Walter Domenico Casciello
e-mail: casciello.walter@virgilio.it
cellulare: 339.3886688
Data: 20/04/2020 16:00:00
Autore: Walter Casciello