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Si può licenziare chi fuma?

Per la Cassazione, il mancato rispetto del divieto di fumo, se non pregiudica l'incolumità delle persone e degli impianti, rende illegittimo il licenziamento


Illegittimo licenziare il lavoratore che fuma senza creare pericolo

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Con la sentenza n. 12841/2020 (sotto allegata) la Cassazione conferma la decisione della Corte d'Appello di reintegrare il lavoratore, posto che il mancato rispetto da parte dello stesso del divieto di fumo presente nei locali della ditta committente, non ha concretizzato, per le modalità e il contesto di riferimento una condotta in grado di metter in pericolo l'incolumità delle persone e la sicurezza dei luoghi. Una decisione assunta al termine di una vicenda che è iniziata quando la Corte d'Appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha annullare il licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente di una s.r.l per aver violato il divieto di fumare durante l'orario di lavoro e presso un'intercapedine dei locali di una ditta committente.

La Corte circoscrive la punizione alla sola contravvenzione, perché il fatto addebitato al lavoratore, comunque provato, non rientra nella fattispecie dell'art. 48 del contratto collettivo nazionale, che prevede il licenziamento solo se il dipendente viene trovato "a fumare dove può provocare pregiudizio all'incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti". Il comportamento del dipendente è infatti riconducibile piuttosto al divieto di fumo sancito dall'art. 47 del ccnl, che prevede la sanzione conservativa dell'ammonimento o dalla sospensione dal lavoro e dalla retribuzione. Il licenziamento viene quindi dichiarato illegittimo e il lavoratore reintegrato nel posto di lavoro, come previsto dall'art. 18 co. 4 della legge n. 300/1970.

Il pregiudizio all'incolumità delle persone e alla sicurezza è punibile?

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La società datrice ricorre in sede di legittimità sollevando due motivi di ricorso.

Illegittimo licenziare chi fuma al lavoro senza pregiudicare salute e sicurezza

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La Corte di Cassazione con la sentenza n. 12841/2020 respinge il ricorso della datrice per le ragioni che si vanno a esporre.

Prima di tutto gli Ermellini rilevano l'inammissibilità del primo motivo di ricorso perché, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, la Corte d'Appello "ha effettuato un'operazione esegetica sia della lettera di contestazione disciplinare sia della lettera di licenziamento" rilevando come la datrice nella prima descrive diverse condotte inadempienti del lavoratore, per poi limitarsi nella seconda a sanzionare l'infrazione al divieto di fumo.

Infondato invece il secondo motivo. La Corte d'Appello ha condiviso le conclusioni sul divieto di fumo adottato dalla ditta committente in tutto lo stabilimento a cui è stato assegnato il lavoratore. Poi ha riempito la clausola dell'art. 2119 c.c. che prevede il recesso del datore "qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto" valutando la scala di valori del codice disciplinare contenuto all'interno del ccnl in cui ha rilevato la presenza di due fattispecie, quella dell'art. 47, che punisce il lavoratore con una sanzione conservative e quella dell'art. 48 che ne dispone il licenziamento. Ha quindi verificato la sussistenza dei requisiti elaborati dalle parti sociali per disporre il licenziamento ed è giunta alla conclusione che non è possibile la "sussunzione della condotta adottata dal lavoratore nell'art 48, lett f) per carenza della situazione di pericolo per le persone e per gli impianti."

Il lavoratore infatti è stato trovato a fumare in una zona di intercapedine presente tra vari uffici, privo di impianti, bombole infiammabili e persone, circostanze che quindi non integrano un pericolo alla salute "derivante dalla mera combustione di una sigaretta posto che l'infrazione in ambienti chiusi prevista dalla legge (art. 51 legge n. 3 del 2003)" deve misurarsi, per quanto riguarda gli effetti sul rapporto di lavoro, con due diverse fattispecie ossia quella dell'art. 47 e quella dell'art 48.

Dopo aver analizzato i fatti la Corte ha quindi tenuto conto del principio secondo cui, in tema di licenziamento per giusta causa, per valutare la proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni comportamento che, per la sua gravità, è in grado di ledere da fiducia del datore di lavoro in misura tale da ritenere che la continuazione del rapporto di lavoro possa pregiudicare gli scopi aziendali.

Determinante infatti la condotta del lavoratore, da valutare in base alle concrete modalità di svolgimento e dal contesto di riferimento, che per giustificare il licenziamento deve far dubitare al datore la futura correttezza dell'adempimento e una scarsa inclinazione al rispetto degli obblighi con diligenza, correttezza e buona fede.

Analisi che ha condotto la Corte d'Appello a ritenere correttamente integrata la fattispecie meno grave, con conseguente illegittimità del licenziamento e reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro.

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Data: 29/06/2020 15:00:00
Autore: Annamaria Villafrate