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La gelosia può essere un'aggravante?

Secondo la V Sezione della Cassazione Penale, la gelosia può essere idonea ad aggravare il reato collocandosi tra "i motivi abietti o futili" di cui all'art. 61 n. 1 c.p.


Motivi abietti o futili

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Per la Cassazione, la gelosia può essere idonea ad aggravare il reato collocandosi tra "i motivi abietti o futili" di cui all'art. 61 n. 1 c.p.
Nella vicenda portata all'attenzione della S.C., l'imputato, dopo la fine della relazione sentimentale, aggrediva la sua ex dandole una testata, sbattendola contro un muro e facendola cadere per terra, con tale condotta causava alla vittima delle lesioni allo scopo di punirla per la fine della loro relazione. La Corte d'Appello di Roma confermava la decisione di primo grado, ritenendo sussistente la penale responsabilità dell'uomo in relazione ai reati di cui agli artt. 582, 583, 577 e 61 n. 1 c.p.

In particolare, la sussistenza dei motivi abietti o futili di cui all'art. 61 n. 1 c.p., secondo i giudici della Corte d'Appello, andava ricercata nello spirito punitivo che aveva mosso l'imputato ad agire con violenza nei confronti della sua ex, considerata dall'uomo come una cosa di sua proprietà. Infatti, secondo la Corte territoriale, nella condotta dell'imputato mancava ciò «che la coscienza collettiva esige per operare un collegamento logico accettabile con l'azione commessa, talché essa appariva assolutamente sproporzionata all'entità del fatto».

La gelosia può configurare un motivo abietto o futile?

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La difesa dell'imputato proponeva ricorso per Cassazione, lamentando che secondo la giurisprudenza di legittimità la gelosia non poteva configurare un motivo abietto o futile e che, comunque, le lesioni provocate alla donna erano guaribili in tre giorni.

Quando la gelosia può essere un'aggravante

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Con sentenza n. 23075/2020 della Quinta Sezione Penale, la Corte di Cassazione ha dichiarato infondate le doglianze sollevate dall'imputato, in quanto già con recenti sentenze la Suprema Corte aveva precisato che la gelosia poteva integrare l'aggravante dei motivi abietti o futili, quando la condotta era caratterizzata da «abnormità dello stimolo possessivo» nei confronti della vittima o di un terzo legato alla stessa, ma anche quando la gelosia era espressione di uno «spirito punitivo» dettato da «reazioni emotive aberranti» conseguenti a comportamenti della vittima che l'ex geloso aveva percepito come «atti di insubordinazione» (cfr. Cass. Pen., Sez. V, n. 44319/2019; Cass. Pen., Sez. I, n. 49673/2019).

Ai fini del riconoscimento della circostanza aggravante, secondo gli Ermellini, occorre operare una valutazione su due livelli: dal lato oggettivo occorre verificare se vi sia sproporzione tra la fattispecie di reato posta in essere e il movente; dal lato soggettivo, invece, occorre verificare se la eventuale sproporzione sia espressione di «un moto interiore assolutamente ingiustificato» che permetta di etichettare tale stimolo come «un mero impulso criminale» (cfr. Cass. Pen., Sez. V, n. 45138/2019).

Nell'orientamento della Suprema Corte espresso nella sentenza in commento viene ritenuto centrale il principio di autodeterminazione, legato indissolubilmente alla dignità umana, principi da cui si fa discendere il maggiore disvalore sociale attribuito alle condotte che trovino fondamento sul senso di proprietà che nutre l'agente verso la propria vittima (cfr. Cass. Pen., Sez. V, n. 23075/2020).

Sulla base di tali argomentazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso dell'imputato, condannandolo al pagamento delle spese processuali.

Data: 15/08/2020 14:00:00
Autore: Mariana Manzi