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Il potere di grazia del Presidente della Repubblica

Il potere di grazia prima dell'entrata in vigore della Costituzione repubblicana: dall'età classica al Medioevo sino allo Statuto albertino


La Grazia dall'età classica al Medioevo

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La grazia, ovvero la clemenza rivolta verso chi è condannato, è un potere conosciuto e attuato sin da tempi remoti. Inizialmente non era distinto nelle sue varie forme a noi oggi conosciute quale la grazia vera e propria, l'amnistia e l'indulto, ma variava a seconda dei casi e delle necessità.

Era quasi un attributo di carattere divino che riconosceva al Sovrano il potere dimitigare il rigore della legge. Sicuramente questo istituto era noto nell'antico oriente, nell'antico Egitto, nel mondoebraico, nel mondo greco (come testimoniano alcuni autori come Tucidide e Demostene), in Italia era noto al popolo estrusco e nell'era monarchica dell'antica Roma e comunque fece parte degli ordinamenti giuridici di tutti i popoli civili dell'antichità. E' proprio nell'ordinamento giuridico romano che venne meglio a delinearsi questo istituto.

Nell'epoca repubblicana vi erano due figure: la Provocatio ad popolum e la Integrum restitutio. La prima prevedeva che i condannati alla pena di morte o ad altre pene potessero fare appello contro la sentenza del magistrato direttamente al popolo romano. Erano ammessi solo i cittadini romani ed era escluso il ricorso per alcuni gravi delitti come il parricidio, il tradimento e le impurità delle vestali. La seconda, la più frequente, era una legge votata dai comizi che rimetteva le pene ed estingueva il reato facendo riottenere al condannato la cittadinanza romana perduta. Necessitava l'esistenza di una res giudicata e poteva essere a favore di uno o più soggetti. Nell'epoca imperiale tale prerogativa a partire da Augusto venne prima esercitata dall'imperatore assistito dal Senato e poi in modo autonomo non senza notevoli abusi. Essa era distinta in due tipi: la Indulgentia principis e l'Abolitio.

La prima aveva per oggetto la pena e poteva essere concessa a una o più persone. Agivaex nunc e quindi era molto simile all'attuale grazia, lasciando però pregiudicati i diritti dei terzi come accade con l'indulto attuale. E poteva condurre alla Integrum restitutio. La seconda aveva un'efficacia molto più ampia potendo intervenire sull'azione penale con esiti abolitivi simili all'amnistia. Dopo la caduta dell'impero romano tale potere era in mano ai sovrani barbarici (in particolare durante l'occupazione longobarda), ma il suo esercizio era limitato in quanto la pena era un diritto della vittima detto "guidrigildo". Proseguendo nel tempo, la concezione della vendetta privata venne superata da quella dell'intervento nei problemi giudiziari da parte dello Stato, al cui vertice era il Re che tornò ad esercitare realmente tale clemenza. Nell'epoca feudale tale prerogativa venne anche esercitata dai singoli feudatari, ma spesso applicandola in modo arbitrario con notevoli abusi e ingiustizie. Solo con l'epoca delle monarchie assolute l'istituto della grazia venne a delinearsi nelle forme conosciute. Il Re era al vertice dello Stato, accentrava su di sé tutte le funzioni pubbliche e poteva intervenire con atti generali e particolari sull'esercizio di esse. Nell'ambito giudiziario, oltre alla grazia, il Sovrano aveva il potere di sospendere l'efficacia normativa delle leggi e la dispensa della loro osservanza. Si era creato in capo alla sua persona un vero e proprio Jus Dispensandi, così come si era delineato nel diritto canonico medioevale . Nell'evoluzione che porta verso l'instaurazione dei regimi parlamentari moderni il potere di grazia si distacca dagli altri sopravvivendo come prerogativa regia, mentre il potere di sospensione e di dispensa, formalmente ancora del Sovrano, tendono nella sostanza ad essere assorbiti nella competenza degli organi che esercitano le funzioni sulle quali esso interferisce.

Ad esempio, in Inghilterra nel 1688, i Bill of Rights, emanati dall'Assemblea legislativa, negavano al Re il potere di sospendere le leggi e la loro esecuzione. In tale fase dunque la grazia restava tra gli atti di prerogativa regia a cui si riconosceva la titolarità piena ed esclusiva, diventandone il più prestigioso. Ma anche tale concetto di prerogativa cominciò a cambiare natura ed ampiezza. Se nel Medioevo tutto era riferito al Re come soggetto preminente dello Stato, in questa fase tale potere, discrezionale e personale, cominciò ad essere assorbito dal Governo che di fatto lo esercitava pur essendo formalmente del Sovrano. Nel Settecento, con l'arrivo dell'età dei lumi e del pensiero culturale che poi sfociò nella rivoluzione francese, l'istituto della grazia cominciò a scontrarsi con i principi del costituzionalismo moderno basato sulla legalità, sull'uguaglianza e sulla separazione dei poteri. Infatti la grazia venne vista in modo ostile soprattutto per la discrezionalità con cui veniva concessa e che dunque urtava con il principio di certezza, sfiduciava il concetto d'imparzialità della legge e negava il valore dell'uguaglianza. Inoltre grande era la fiducia riposta nella possibilità che la legge potesse essere applicata in modo automatico da parte delle Corti di Giustizia senza che vi potesse essere un errore giudiziario.

Tutti i grandi pensatori del tempo ritenevano la grazia un'ingiustizia e un istituto inutile quando le leggi erano moderate ed eque. Infatti i costituenti francesi furono pregiudizialmente ostili ad essa anche per l'abuso fattone durante l'antico regime: la grazia era un privilegio e la rivoluzione doveva eliminare tutti gli abusi senza distinzione tra i cittadini. Tale posizione si rifletté in tutte le Costituzioni successive alla rivoluzione nelle quali tale istituto venne eliminato. A partire dal 1800, dopo la caduta di Napoleone e l'inizio della fase della restaurazione, la grazia tornò a ricomparire inizialmente proprio dalla Francia e poi in tutti i sistemi giuridici, sia dal 1815 che dal 1848, come prerogativa del Re o del Presidente della Repubblica. Ciò avvenne per vari motivi tra cui il venir meno del mito del giudice infallibile, la necessità di mitigare il rigore della legge nel caso concreto (spesso per ragioni umanitarie), e anche per la maggior sensibilità nei confronti del detenuto visto come soggetto che poteva riscattarsi da quanto compiuto. Ma sicuramente quello preminente fu il motivo politico, dato che la grazia poteva divenire uno strumento politicamente straordinario specie in casi in cui veniva concessa a soggetti che erano sostenuti dall'opinione pubblica. Ciò era ben visibile nei casi dei delitti politici che, in un secolo di lotte di liberazione nazionale, erano amplificati dalla nascente carta stampata, la quale a sua volta influenzava e assecondava l'opinione pubblica. In queste situazioni la grazia faceva assumere un'aurea particolare, fatta di autorevolezza e carica umana, a chi la concedeva. Il Re o il Presidente della Repubblica si trovavano a gestire un potere di straordinario impatto emotivo sulla sensibilità pubblica, che, specie nell'Ottocento (epoca in cui vigeva in tutti i paesi la pena di morte), assumeva un potere di vita o di morte, un potere quasi divino. Comunque in linea con i nuovi sistemi democratici la grazia reintrodotta venne sottoposta però a limitazioni e restrizioni per impedire che tornasse ad essere uno strumento di privilegio.

Ad esempio, in Inghilterra, l'Act of settlement impediva che la grazia fosse invocata contro l'impeachment nei confronti di un componente di governo, in Francia nella Costituzione del 1848 era esercitata dall'Assemblea nazionale in caso di condanna dei Ministri o di altri soggetti da parte dell'Alta Corte di Giustizia e anche la Costituzione americana negava al Presidente la possibilità di graziare in caso d'impeachment. Sempre in America i governatori dei vari stati potevano graziare a volte con l'assistenza delle assemblee legislative. Anche in Italia, in seguito alla caduta di Napoleone e all'inizio della restaurazione, vennero concesse nei vari stati italiani esistenti prima dell'unificazione le prime Costituzioni scritte, che furono influenzate del pensiero culturale e giuridico sopra descritto e che risentirono anche dei fermenti successivi ai moti rivoluzionari del 1821, del 1831 e soprattutto quelli del 1848. La possibilità di graziare i condannati venne riconosciuta al Sovrano, ma quasi mai in modo autonomo e assoluto. Infatti nello Statuto dello Stato di Lucca del 1805, del Regno d'Italia del 1805 e del Regno di Sicilia del 1808 era stabilito che il Sovrano potesse concedere tale clemenza solo dopo essersi accordato con altri organi dello Stato, come un consiglio privato composto da varie personalità giurisdizionali o come il Ministro della Giustizia. Altre carte costituzionali quali quella del Regno di Napoli del 1815, quella di Sicilia del 1812 o del 1820 o del 1848 prevedevano la possibilità di concedere la grazia, limitata però da norme costituzionali o da leggi civili e comunque in casi determinati. L'atto costituzionale di Gaeta del 1849 e del Ducato di Parma del 1849 escludevano la possibilità di graziare i Ministri, mentre la Costituzione del Regno delle due Sicilie del1820 prevedeva, inoltre, che l'atto di grazia dovesse essere motivato e reso pubblico, unico caso di trasparenza nel panorama costituzionale del tempo. Solo in pochi casi dunque venne riconosciuta la piena titolarità di questo istituto di clemenza al Re tra cui la Costituzione del febbraio del 1848 del Regno delle due Sicilie, lo Statuto dello Stato Pontificio del 1848 e lo Statuto del Granducato di Toscana del 1848. Risulta evidente che, in linea generale, vi era nei vari stati italiani una limitazione al potere di grazia da parte del Sovrano. Anche in Piemonte, nel Regno di Sardegna, la carta costituzionale adottata prima dello Statuto Albertino, ovvero la Costituzione Spagnola del 1821, prevedeva per il Sovrano la concessione della grazia ma che doveva, seppur detto in modo generico, conformarsi alle leggi. Una previsione normativa che poi non venne seguita successivamente. Occorre anche considerare che in tutte le carte venne ribadita la non responsabilità del Sovrano dato che la sua persona era sacra e inviolabile. Di conseguenza venne adottata la responsabilità dei Ministri per gli atti del Re e, nella maggior parte dei casi, venne prevista la controfirma ministeriale per la validità e l'esecuzione degli stessi. Due soluzioni giuridiche che vennero riprese nello Statuto Albertino e che influenzarono successivamente tutti i problemi relativi alla titolarità della concessione della grazia.

La grazia nello Statuto Albertino

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Lo Statuto Albertino venne emanato da parte del Re Carlo Alberto il 4 marzo del 1848 come carta costituzionale del Regno di Sardegna sulla base dei 14 punti del proclama del febbraio dello stesso anno. Venne poi adottato nel 1861 come Costituzione del Regno d'Italia e rimase in vigore, anche durante il ventennio fascista, fino al 1948, venendo meno con la caduta del sistema monarchico e con la nascita della Repubblica.

Per lo studio dell'istituto della grazia è interessante soffermarsi su questa carta costituzionale in quanto fu la prima a regolare in modo uguale su tutto il territorio nazionale tale clemenza, sovrapponendosi e cancellando le varie disposizioni e modalità di applicazione della stessa previste nei precedenti stati preunitari. Riferimento base per la grazia era l'articolo 8, che attribuiva al Sovrano il potere di far grazia e di commutare le pene. Una norma semplice e laconica che pose il problema se tramite esso fosse possibile al Re concedere con la grazia anche l'amnistia. Una pronuncia su tale problema si ebbe nel 1856 da parte del Consiglio di Stato, che da un lato previde la possibilità della concessione dell'amnistia da parte del Governo senza l'intervento legislativo, ma che dall'altro definì la grazia quale diritto di competenza regia ristretto alla remissione della pena, pronunciata in seguito a regolare giudizio. In seguito, nel 1865, il nuovo Codice di Procedura Penale introdusse l'amnistia sancendo la separazione dei due istituti di clemenza, non senza qualche problema applicativo e qualche ambiguità specie da parte dei procuratori del Regno . Anche allora la grazia conosceva un unico limite ovvero non aggravare la condanna inflitta. Se avesse fatto questo, il Re avrebbe esercitato un potere che non era nelle sue competenze. Poteva commutare la pena ma sempre in senso positivo per il condannato.

Inoltre la grazia, per essere tale, doveva essere diretta ad un singolo individuo (altrimenti sarebbe stata indulto) e doveva presupporre una sentenza già passata in giudicato, e non poteva essere data a vantaggio di chi era stato condannato in contumacia. Essa poteva essere esercitata più volte, ad intervalli, in beneficio di uno stesso individuo.

Secondo la dottrina non era collegabile alla funzione giudiziaria ma a quella legislativa e spettava per formazione storica al Capo dello Stato, ovvero al Re, a cui un tempo spettava di dare le leggi, poi rimastagli come prerogativa eccezionale ma prestigiosa.

D'altronde l'art. 8 dello Statuto Albertino non era inserito nella parte dedicata al potere giudiziario, ma in quella dei poteri spettanti al Re.

La grazia poteva essere concessa solo per condanne penali e non per condanne civili: infatti, il reato offendeva il Re e la pace pubblica, di cui era espressione, mentre tale caratteristiche non erano proprie dell'illecito civile. La procedura per accedere alla grazia era stata delineata dall'art. 826 del Codice di Procedura Penale del 1865, secondo cui le richieste, allora definite suppliche, erano dirette al Re ma presentate al Ministro di Grazia e Giustizia da parte di una limitata categoria di soggetti. Era prevista la necessità della domanda di grazia da parte del condannato, una peculiarità di questo istituto rispetto ad altri strumenti di clemenza che, infatti, non la prevedono. Inoltre doveva servire a garantire il Re da eventuali rifiuti del beneficiario anche se per motivi di opportunità, d'equilibrio e autorevolezza istituzionale non esisteva in capo al cittadino un diritto all'esecuzione della pena, e pertanto non si poneva la questione di un eventuale rifiuto.

La concessione avveniva con decreto reale, controfirmato dal Ministro responsabile.

In genere si sentiva il parere del procuratore del Re e talvolta del Presidente del collegio che aveva emanato la condanna o dell'intendente di finanza se il reato era di natura finanziaria. Per i reati di offesa privata era uso chiedere l'assenso della parte lesa e l'avvenuto risarcimento dei danni.

Era discusso se il Re potesse esercitare il diritto di grazia a favore di un Ministro accusato dalla Camera, ma si propendeva per la soluzione positiva dato che l'articolo 8 non limitava questa possibilità come in altre Costituzioni straniere. Unico limite e divieto era concederlo prima del giudizio e non dopo.

Il dibattito sull'effettiva titolarità del potere di grazia

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Anche in epoca statutaria sorse ben presto il contenzioso se la grazia fosse di stretta competenza del Sovrano o dell'Esecutivo (più precisamente, del Ministro della Giustizia). Dato che di fatto la grazia interferiva sull'operato giudiziario, il legislatore del 1865 probabilmente a causa di ciò, vincolato dalla Costituzione a disporre l'intervento di un Ministro responsabile, designò il titolare del dicastero della Giustizia. A partire da quel momento il Ministero di Grazia si strutturò per prevedere un settore dedicato ad essa, ma ciò non significava che l'esercizio della grazia fosse di competenza esclusiva dell'Esecutivo. Il legislatore aveva dovuto così scegliere per via della irresponsabilità regia, come previsto dallo Statuto, con la conseguente controfirma. Ma l'intervento del Guardasigilli era posto a tutela dell'autorevolezza del Capo dello Stato. Il Re personificava lo Stato e la sua unità e nella sua continuità storica, e questa sua posizione giustificava la sua inviolabilità, e di conseguenza era irresponsabile per i propri atti. Almeno inizialmente così doveva essere, dato che in origine la forma di governo era intesa in senso costituzionale puro e dunque più incline al comando del Re, ma ben presto venne a delinearsi una forma di governo parlamentare tramite anche l'art. 67, che prevedeva l'irresponsabilità regia per gli atti di governo e delle leggi che veniva assunta dai Ministri. Questo portò ad una interpretazione che vide il prevalere del Governo e del Parlamento, che lo controllava, sul potere decisionale del Re.

Anche l'atto di grazia venne incluso in questa categoria che, pur restando formalmente del Re, era di effettiva competenza del Ministro controfirmante.

Tale situazione sembra essere confermata da una risposta del Guardasigilli Vacca nel 1865 ad una interpellanza relativa ad una grazia molto contestata, in cui si affermava che la responsabilità per tale atto era del Ministro e non del Re.

Ma non era una posizione del tutto pacifica dato che la grazia, per essere concessa, comportava il coinvolgimento di molti soggetti, di cui alcuni esterni all'ambito politico-istituzionale, tra cui i magistrati. Infatti lo stesso Ministro proponente, nel predisporre l'atto clemenziale, formava il proprio convincimento sul parere fondamentale dei giudici, che conoscevano meglio le vicende processuali e che conoscevano meglio l'opinione pubblica locale.

Inoltre la grazia metteva in gioco equilibri molto complessi tra i vari organi dello Stato, che spesso si risolvevano in compromessi, che dipendevano molto dalle personalità in contrasto tra di loro e che potevano variare da caso a caso e in base anche alle varie situazioni contingenti e storiche.

Nel 1870 vi fu un dibattito parlamentare molto acceso relativo a una grazia politica, a cui il Parlamento aveva reagito in modo deciso all'atto del Guardasigilli. Non si contestava il potere del Sovrano nel concedere tale clemenza, ma era sotto osservazione il comportamento del Ministro della Giustizia che di fatto si era arrogato tutto il potere relativo alla concessione della grazia.

Il Parlamento, che voleva controllarlo, in realtà cercava di riportare tale prerogativa al Sovrano, riconoscendogli uno spazio più ampio in tale decisione e censurando il comportamento del Ministro che bloccava e non comunicava le pratiche di grazia al Sovrano, e che quindi si appropriava un potere di censura non previsto dalla Statuto. Infatti pur nei limiti dei propri poteri, il Sovrano aveva la possibilità di non concedere la grazia e quindi il potere di rifiutarsi era una sua prerogativa che non poteva essergli sottratta, e che anzi giocava un ruolo non indifferente nei sottili equilibri fra i vari poteri dello Stato. Dunque il Ministro, non ponendo all'attenzione del Re le istanze di grazia, tendeva a compiere ciò che invece spettava al Re, ovvero il rifiuto della grazia.

Comunque tale iniziativa parlamentare non portò ad alcuna variazione di fatto e già pochi anni dopo, nel 1887, vi fu sempre una nuova discussione per un'altra grazia concessa, ma senza giungere a qualcosa di positivo o di risolutivo.

Tutto continuò nel solco di quanto era stato fatto con una posizione preminente del Ministro e dell'Esecutivo sul Sovrano, che di sua iniziativa non poteva concedere la grazia in modo autonomo e doveva trovare la collaborazione con il Guardasigilli.

La dottrina sia dell'epoca, che anche quella recente, era concorde nel ritenere questa clemenza come atto in cui a prevalere erano la volontà ministeriale, mentre al Sovrano restavano solo prerogative formali. Anzi l'intervento ministeriale ne evitava ogni abuso ed evitava quella arbitrarietà che si era avuta in passato nelle mani dei vari Re. Veniva però negata la partecipazione del Governo nel suo complesso perché era un atto estraneo all'indirizzo politico dello stesso, anche se una minoranza della dottrina ne chiedeva un intervento con voto nei casi di particolare gravità.

Sostanzialmente la concessione dell'atto di grazia, per definirla con una classificazione attuale, era un atto complesso di complessità uguale tra le due volontà e titolarità del Re e del Ministro. La stessa grazia non poteva essere concessa senza la proposta del Ministro. Vi fu un unico episodio in oltre cento anni di regime monarchico in cui il Re da solo concedette la grazia.

Nel 1864 il Sovrano concedette la clemenza a due fratelli briganti, ma il Ministro Vacca, di fronte alla reazione negativa del Parlamento, si assunse la responsabilità dell'atto non invocando l'irresponsabilità ministeriale, dato che la grazia era stata concessa motu proprio dal Re.

Restò un caso isolato dato che il Sovrano concedeva la grazia appunto solo se il Ministro formulava parere favorevole, anche se gli restava la possibilità di negarla per quelle proposte che non condivideva.

Infatti, a riprova di questo limite per il Sovrano, nel 1946 Umberto di Savoia, Luogotenente del Regno, voleva concedere delle grazie, ma il Guardasigilli Togliatti si rifiutò argomentando che la decisione sulle domande spettava al Ministro e non al Luogotenente, tesi che venne ribadita da Vittorio Emanuele Orlando che confermò al Reper la concessione della grazia dovevano concorrere due volontà, quella del Ministro responsabile e quella del Capo dello Stato.

In definitiva, per la grazia, era necessario il coinvolgimento e la collaborazione di più soggetti, non solo del Re e del Ministro, ma anche dei organi giurisdizionali previsti nella procedura di concessione. Inoltre nello Statuto a nessuno era riconosciuta una prevalenza e una titolarità esclusiva: il Re in base a varie norme (artt. 4, 5, 65 e 68) era al vertice dello Stato ma l'art. 67 non gli consentiva di attribuirsi tutto il potere.

Le grazie concesse durante la vigenza dello Statuto Albertino

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Dal punto di vista statistico era elevato il numero delle grazie concesse.

Dati precisi e ufficiali non ve ne erano, ma si stima che vi fossero 70.000 istanze di clemenza all'anno per ogni 350.000 condanne definitive. Si è calcolato che vi fosse una percentuale del 13 per cento di accoglimento dei ricorsi stimati e quindi ciò potrebbe spiegare l'alto numero di richieste. Di conseguenza, si lamentava l'abuso della concessione della grazia, spesso dovuto a motivi clientelari legati ai vari parlamentari che ne traevano vantaggi elettorali, specie nel meridione, e che li spingevano ad appoggiare richieste che avevano poi una corsia preferenziale rispetto a istanze prive di appoggi. Infatti la procedura di concessione era lunga e complessa dato che i PM, oberati dal lavoro, davano poche attenzioni alle domande di grazia proposte da un subalterno. Se provenivano da personaggi influenti la sorte era ben diversa.

Il notevole ricorso alla grazia era anche dovuto all'eccessivo rigore della legge e alla mancanza di pene alternative. Da più parti si chiedeva una modifica legislativa in tale direzione e si auspicava di regolare meglio i mezzi di revisione delle condanne ingiuste.

La seguente tabella mostra, per il periodo che va dal 1880 al 1904, il numero di grazie presentate e concesse, e rileva, pur con dati parziali, quanto fosse notevole il ricorso a questo istituto di clemenza e quanto fosse elevato il numero di richieste accolte.

Anni

Presentate

Accolte

Percentuale delle

domande accolte

1880-1886

45123

4122

9,13

1887-1889

35806

2797

7,81

1890-1892

45483

3801

8,36

1893-1895

40314

3732

9,26

1896-1898

32800

3761

11,87

1899-1901

29591

4940

16,69

1902

34040

5763

16,93

1903

36833

8928

24,24

1904

35510

9885

27,84

Dunque, questa era la situazione ai tempi dello Statuto Albertino. Va notato che tutti i problemi relativi alla titolarità del potere di grazia, allora discussi, si sono poi riproposti, in termini non troppo differenti, durante l'età repubblicana.

Data: 14/12/2020 10:30:00
Autore: MARIATERESA ARCADI