L'avvocato non ha l'obbligo di avere uno studio
- Anche gli studi legali devono eliminare le barriere architettoniche?
- Per il Tar lo studio professionale è un luogo aperto al pubblico
- L'avvocato non deve avere uno studio, gli serve solo il domicilio
- Lo studio professionale non è un luogo aperto al pubblico
Anche gli studi legali devono eliminare le barriere architettoniche?
Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 653/2021 (sotto allegata) accoglie il ricorso intrapreso dal Consiglio dell'ordine degli Avvocati di Parma, stabilendo che la disciplina che impone l'obbligo di eliminare le barriere architettoniche non può essere estesa anche agli studi legali in quanto prima di tutto la legge non impone agli avvocati di avere uno studio, bastando un domicilio, in secondo luogo perché lo studio legale non può considerarsi luogo pubblico o aperto al pubblico.
Una sentenza del Consiglio di Stato, che si conclude con la vittoria del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Parma nell'azione intrapresa per ottenere la riforma della sentenza del Tar Emilia Romagna, che ha respinto il precedente ricorso azionato per ottenere l'annullamento della delibera del Comune che ha approvato la variante all'art. 66 bis del Regolamento edilizio contenente la disciplina per il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche, nella parte in cui, tra gli edifici aperti al pubblico, comprende anche gli studi professionali dei difensori d'ufficio e di quelli abilitati al patrocinio gratuito.
Per il Tar lo studio professionale è un luogo aperto al pubblico
Il Consiglio di Stato adito, prima di pronunciarsi, ricorda che il nuovo testo dell'art. 66 bis del Regolamento edilizio del Comune di Parma dispone che: "2.1 devono essere realizzati gli interventi volti a garantire l' accesso e la visitabilità agli edifici privati, pubblici ed aperti al pubblico. 2.2 Oltre agli edifici pubblici, sono da considerarsi aperti al pubblico…f) studi professionali, quando il professionista sia legato da convenzione pubblica e/o ad una funzione istituzionale in forza della quale riceva un pubblico indistinto (come a titolo esemplificativo notai, commercialisti abilitati a trasmettere denunce dei redditi, centri assistenza fiscale, avvocati iscritti nell'elenco difensori d'ufficio e al gratuito patrocinio, medici e pediatri convenzionati)."
Finalità della disposizione: obbligare i titolari degli studi professionali interessati, a eliminare le barriere architettoniche per consentire il libero accesso agli stessi anche ai disabili.
Da qui il ricorso del Consiglio dell'Ordine al Tar, che però lo respinge. Per il Tribunale Amministrativo il concetto di luogo aperto al pubblico, per quanto riguarda la disciplina delle barriere architettoniche, va interpretato in modo elastico, così da comprendere anche luoghi privati accessibili a categorie di aventi diritto, anche se in determinati orari e con certe modalità. Nozione che consente d'includere al suo interno quindi anche gli studi professionali. Il Tar osserva inoltre che la disposizione si riferisce solo ai difensori d'ufficio e agli avvocati abilitati al patrocinio gratuito, che fanno in realtà parte della più ampia categoria degli avvocati legati a una funzione o a una convenzione e in base alla quale ricevono un pubblico indistinto.
L'avvocato non deve avere uno studio, gli serve solo il domicilio
Nel ricorrere al Consiglio di Stato il Consiglio dell'Ordine degli avvocati solleva diverse doglianze, anche se la più interessante è senza dubbio la prima, in cui critica la sentenza impugnata perché qualifica come luogo aperto al pubblico lo studio dell'avvocato. Ora, vero che l'avvocato svolge una funzione di tipo pubblicistico "ma rimangono privatistiche le norme secondo le quali essa viene svolta, dato che l'avvocato non è obbligato ad avere uno studio, ma soltanto un domicilio professionale, che può coincidere con l'abitazione e non è aperto indiscriminatamente a terze persone."
Lo studio professionale non è un luogo aperto al pubblico
Il Consiglio di Stato, che si pronuncia sul ricorso con la sentenza n. 653/2021, accoglie l'appello ritenendo fondati i primi tre motivi del ricorso tra i quali figura quello in cui il Consiglio dell'Ordine esclude la qualificazione dello studio legale come un luogo pubblico o aperto al pubblico.
Affermazione che il Consiglio di Stato ritiene corretta perché in effetti "né la legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247, in particolare l' art. 7 di essa, relativo al "domicilio", né il codice deontologico forense obbligano l' avvocato, per esercitare la sua professione, ad avere la disponibilità di un ufficio a ciò dedicato. In particolare, l' art. 7 della l. n. 247/2017 prevede solo che egli abbia un "domicilio", ovvero in termini semplici un recapito ove essere reperibile e ricevere gli atti, ma non vieta che esso, al limite, coincida con la propria abitazione. Pertanto, l'apertura di uno studio come comunemente inteso rientra nella libera scelta del professionista. Inoltre, lo studio legale, anche quando esiste, non è di per sé luogo pubblico o aperto al pubblico, come si desume, per implicito, dalla costante giurisprudenza penale, secondo la quale commette il reato di violazione di domicilio previsto dall'art. 614 c.p. chi acceda allo studio di un avvocato, o vi si trattenga, contro la volontà del titolare (...) Non va quindi condivisa l' affermazione del Giudice di primo grado, per cui nella specifica disciplina delle barriere architettoniche il concetto di luogo aperto al pubblico andrebbe inteso in modo particolare, comprensivo, come si è detto, dei luoghi privati chiusi alla generalità delle persone, ma accessibili a una data categoria di aventi diritto."
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Data: 17/02/2021 22:00:00Autore: Annamaria Villafrate