Cassazione: la messa alla prova non è applicabile alle società
Risolvendo il contrasto in tema di legittimità ad impugnare da parte del P.G., le Sezioni Unite della Cassazione negano l'accesso alla MAP agli enti responsabili ex D.Lgs. 231/2001
L'istituto della messa alla prova
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Sinteticamente, come è noto, l'art. 168 bis c.p., introdotto con la Legge 67/2014 e recentemente riformato dal D.Lgs. 150/2022 (cd riforma Cartabia), disciplina un istituto mutuato dal procedimento minorile, prevedendo che per i reati puniti con la sola pena editalle pecuniaria o con la pena editalle detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell'art.550 del codice di procedura penale, l'imputato, anche su proposta del pubblico ministero, può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova.
L'esito positivo della prova - che può essere concessa una sola volta - comporta l'estinzione del reato.
L'imputato, quindi, rinuncia alla decisione nel merito della propria posizione, ma, sottoponendosi ad un programma trattamentale, stabilito di concerto con l'UEPE, può agevolmente evitare il rischio di una condanna.
L'accesso al procedimento speciale è subordinato ad una serie di condizioni, tra cui spiccano la cornice edittale dell'illecito contestato e l'essersi adoperato per l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivante dal reato ovvero, dove possibile, il risarcimento del danno.
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Il contrasto giurisprudenziale
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Alle Sezioni Unite era stato demandato il compito di dirimere il contrasto giurisprudenziale in tema di legittimità ad impugnare da parte del Procuratore Generale, in particolare è stato chiesto se: "se il procuratore generale sia legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, l'ordinanza che ammette l'imputato alla messa alla prova ai sensi dell'art. 464-bis cod. proc. pen. nonché, e, in caso affermativo, per quali motivi, la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell'art. 464-septies cod. proc. pen.».
Tuttavia, con memoria ex art. 611 c.1 c.p.p., la Procura Generale illustrava altresì le ragioni per le quali l'istituto della messa alla prova dovesse ritenersi inapplicabile agli enti.
La decisione delle Sezioni Unite
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Il Consesso (con la sentenza n. 14840/2023 sotto allegata) ha risposto affermativamente al quesito: "Il procuratore generale è legittimato, ai sensi dell'art. 464-quater, comma 7, c.p.p., ad impugnare l'ordinanza di ammissione alla prova (art. 464-bis, c.p.p.) ritualmente comunicatagli ai sensi dell'art. 128 c.p.p. In conformità a quanto previsto dall'art. 586 c.p.p., in caso di omessa comunicazione dell'ordinanza è legittimato ad impugnare quest'ultima insieme con la sentenza al fine di dedurre anche motivi attinenti ai presupposti di ammissione alla prova."
La Corte, tuttavia, non si è limitata a rispondere al quesito, ma ha affrontato anche la questione, sollevata dal P.G. con la sua memoria, inerente all'applicabilità della m.a.p. anche agli enti chiamati a rispondere ai sensi del D.Lgs 231/2001.
Qui di seguito si compendiano i passaggi più significativi.
Viene dato atto dell'applicazione per via analogica della messa alla prova da parte di alcune ordinanze di merito, così come della presenza di altre negative, che di fatto hanno determinato l'insorgenza di un contrasto in materia.
Sul tema, le SS. UU. hanno rilevato che le norme relative alla messa alla prova non contengono riferimenti agli "enti" quali possibili destinatari dell'istituto; invero, di esso non v'è traccia neanche all'interno del D.Lgs 231/2001, che disciplina direttamente la responsabilità delle persone giuridiche per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato e, per quanto non espressamente disciplinato, fa richiamo solo alla disposizioni del codice di procedura penale nonché a quelle relative all'imputato, purché compatibili.
Le ordinanze che si sono espressamente negativamente hanno offerto argomentazioni diversificate:
- in assenza di una normativa di raccordo che renda applicabile la disciplina di cui all'art.168 bis c.p. alla categoria degli enti, deriva che l'istituto in esame, in ossequio al principio della riserva di legge, non risulta applicabile ai casi non espressamente previsti e, quindi, alle società in relazione alla responsabilità amministrativa ex d.lgs. 231/2001 (Trib. Milano, 27-3-17);
- la lacuna normativa conseguente al mancato coordinamento della disciplina sostanziale della messa alla prova con il d.lgs. n. 231 del 2001 pare intenzionale [...] Inoltre vi è incompatibilità strutturale tra la disciplina della messa alla prova e quella della responsabilità amministrativa degli enti, connotate da ratio diverse, inconcibiliabili negli aspetti sostanziali e anche processuali. L'art. 168-bis c.p., modellato sulla figura dell'imputato persona fisica, in un'ottica, non soltanto social-preventiva, riparativa e conciliativa, ma soprattutto rieducativa, non è applicabile all'ente (Trib. Bologna, 10-12-20);
- pure ammettendo l'applicabilità bonam parte, tale estensione sarebbe comunque inibita dal fatto che il percorso esegetico astrattamente concepito lascerebbe in concreto ampi margini di incertezza operativa (Trib. Spoleto, 21-4-21).
Le ordinanze che, invece, ne hanno riconosciuto l'applicabilità e compatibilità con il D.Lgs 231/2001 sottolineano che:
- la società, che si dota di una modello di organizzazione e gestione idoneo, dimostrerebbe di essere stata diligente e di vedersi formulato un giudizio prognostico positivo (Trib. Modena 19-10-20);
- l'applicazione della disciplina della messa alla prova non determina una violazione dei principi di tassatività e di riserva della legge penale [...] il difetto di coordinamento non è espressione della scelta del legislatore di escludere gli enti [...] anche il sistema di responsabilità da reato risponderebbe ad una logica di prevenzione del crimine da perseguire attraverso la rieducazione (Trib. Bari 22-6-22).
Le Sezioni Unite pervengono ad un giudizio di inammissibilità della messa alla prova a favore degli enti perseguiti ai sensi del D.Lgs 231/2001.
Il Supremo Giudice prende le mosse da alcune pronunce di legittimità e costituzionali che si sono avvicendate nell'interpretazione degli istituti in parola.
In particolare, per quel che concerne la natura amministrativa della responsabilità da reato, viene rimarcato come: per superare il principio "societas delinquere et puniri non potest", è stato introdotto uno specifico ed innovativo sistema punitivo per gli enti, fuoriuscente dagli schemi tradizionali del diritto penale, dotato di apposite regole;la natura della responsabilità degli enti è pacificamente riconosciuta quale tertium genus (v. SS. UU., 38343/2014, Sentenza Espenhahn) impostazione che, tra l'altro, è stata privilegiata dal legislatore.
Come, da una parte, va doverosamente ribadita la natura di tertium genus della responsabilità dell'ente, parimenti, dall'altra, la messa alla prova deve inquadrarsi nell'ambito di un trattamento sanzionatorio penale, viste la sua natura, processuale e sostanziale, e le sue finalità rieducative, confermate più volte, anche dalla Corte Costituzionale.
Non può corre in soccorso l'estesione per interpretazione analogica. Essa non è prevista in campo penale: entra in contrasto con il principio di tassatività e rischia di trasformare, di volta in volta, l'inteprete della legge in un sorta di legislatore, con grave pregiudizio per la certezza del diritto.
Nemmeno si può cercare ausilio nell'interpretazione in bonam parte, trovandosi di fronte a due sistemi disomogenei, proprio per via delle reciproche nature.
Autore: Andrea Cagliero