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Essere padre e papà

La paternità intesa come processo e percorso interiore e con i figli


Papa Francesco ha definito nella Lettera apostolica “Patris corde” (8 dicembre 2020) S. Giuseppe “Padre amato, Padre nella tenerezza, Padre nell’obbedienza, Padre nell’accoglienza, Padre dal coraggio creativo”.

Al di là del credo religioso, tali caratteristiche si possono attribuire a ogni figura paterna, anzi possono essere indicazioni sull’esercizio della paternità: amore nella duplice direzione dell’amare e dell’essere amato, tenerezza, obbedienza, accoglienza, coraggio creativo. S. Giuseppe, cosiddetto “padre putativo” di Gesù, è stato sempre una figura controversa ma, comunque, è un parametro per i padri adottivi, spirituali, elettivi, artistici.

“Di che cosa ha più bisogno un bambino? Di un padre o di un papà? Che differenza c’è? Tutti possono essere un padre, mentre non tutti possono essere papà perché ci vuole pazienza ed altro” (all’inizio del film “Daddy’s home”, sul contrasto tra padre e patrigno sterile).

Ogni bambino ha bisogno di un padre che faccia il papà e che rimanga padre e non di un genitore che risponda a tale nome o che corrisponda ad un modello (genitore 1, genitore 2, genitori efficaci…).

I padri del XXI secolo sono definiti “Millenials” e sono considerati migliori di quelli del passato perché partecipi alla cura dei figli.

I padri, acquistando in affettività, hanno perso in autorità e normatività.

Il padre deve essere “punto di riferimento e di ritorno dei figli”, come il significato sociale e simbolico del cognome e dei diritti ereditari per cui, in passato, si è lottato.

Il ruolo del padre dipende molto dalla madre che deve “consentire” (dal latino “cum” e “sentire”, quindi un sentire autenticamente comune) che il padre sia tale, delineazione molto importante, come si evince già dall’art. 5 della L. 194/1978 sull’interruzione della gravidanza dove a proposito del “padre del concepito” si dice “ove la donna lo consenta” (previsione tanto discussa).

Il padre è colui che deve dare il giusto riparo e il giusto distacco al figlio, deve rivolgergli quello sguardo espressivo e orientativo attraverso cui comunicare amore e sicurezza e da cui il figlio si possa sentire avvolto anche a distanza, nel tempo e nello spazio. Quello sguardo paterno essenziale soprattutto per lo sviluppo armonico della personalità e della sessualità delle figlie femmine. In questo il padre è tale e per questo si differenzia dalla madre affiancando la madre e amandola comunque come madre, indipendentemente dalla sorte della relazione di coppia. “[…] lui mi guardava con gli occhi lucidi, pieni d’amore. Quegli occhi affondarono nei miei e io ebbi l’impressione di entrare nel cuore di mio padre, in un mondo tutto nostro dov’ero veramente al riparo da ogni rischio” (la scrittrice Liliana De Curtis sul padre Totò).

“Ogni volta che / dici a tua figlia / che la sgridi / per amore / le insegni a confondere / la rabbia con la bontà / e la cosa sembra una buona idea / finché lei non cresce e / si affida a uomini che le fanno del male / perché somigliano / a te” (la poetessa canadese Rupi Kaur, in “ai padri di figlie” [iniziali scritte con le minuscole]).

Il padre ha un ruolo rilevante nell’educazione sentimentale e sessuale delle figlie, anche con il suo stile comunicativo. I padri e gli uomini in generale sono fondamentali per il rispetto dei diritti delle bambine (come delineati pure nella Nuova Carta dei Diritti della Bambina, 2016).

Paternità: massima espressione di umanità e umiltà, percorso di coscienza e conoscenza, riappropriarsi della dimensione di figlio e abitare la dimensione di padre, andare avanti superando ogni errore con amore riconoscendo la propria fragilità e l’infinità delle possibilità del figlio e della vita.

Come nelle parole nel cantautore Fabrizio Moro, a commento della canzone dedicata al figlio: “Ho immaginato le rughe come ferite perché sui nostri figli si riflettono gli errori che facciamo, anche senza rendercene conto. Ho pensato tante volte che potrei essere un buon padre cercando di trasmettere a mio figlio tutta l’esperienza che ho accumulato, cercando di essere il più trasparente possibile. Però ci sono delle lacune che non possiamo colmare, delle sofferenze che non possiamo evitare ai nostri figli, perché alla fine siamo esseri umani”. “Il mio papà è super coraggioso! Non ha paura di piangere, neanche davanti a me. Il mio papà è goloso. Gli piace tutto… anche i broccoli! Da grande forse piaceranno anche a me. Anche il mio papà, tanto tempo fa, è stato un bambino. Aveva piccole mani, piccoli piedi e grandi grandissimi pensieri, proprio come me” (dal racconto “Il mio papà” della scrittrice Cosetta Zanotti).

Essere padre non è copiare o colmare la maternità, ma farsi conoscere come persona per quello che si è stati e si è, rivelare i contrasti della vita (proprio come nei cromosomi X e Y), corroborare la personalità del figlio, infondere coraggio (visto che solitamente alla madre si attribuisce l’immagine del cuore), garantire il vero senso della compagnia lungo il corso della vita o, almeno, delle esperienze determinanti.

È anche questo il significato della distinzione tra padre e madre che si legge nel punto 8.11 della Carta europea dei diritti del fanciullo del 1992: “[…] il padre e la madre hanno una responsabilità congiunta quanto al suo sviluppo e alla sua istruzione”.

Il padre deve essere punto di riferimento da cui partire e pietra miliare lungo il percorso di vita del figlio, come è scritto proprio nello spermatozoo: dare la vita, il codice e il patrimonio di vita e farsi strada da solo.

Può essere assimilato all’imprenditore (art. 2082 cod. civ.) o a un amministratore delegato.

“Il mio papà, alla mattina, si alza molto presto perché deve andare a caccia e la mia mamma fa al mio babbo il caffè, perché altrimenti lui si arrabbia. Quando il mio papà alla mattina va a caccia, fischietta sempre e canta. Io a volte mi sveglio e penso: come sono stupidi i papà, si alzano alle sei del mattino e fischiano per andare ad uccidere gli uccellini, che sono le creature del cielo” (una bambina di nove anni, in un racconto di Bruno Ferrero).

Come sono “stupidi” quei papà che, presi dal lavoro, dai loro interessi o hobby o conflitti con le mogli o compagne di vita, escono di casa senza porgere l’orecchio e la guancia al sonno e ai sogni dei figli in quella fragile bolla spazio-temporale che è l’infanzia. “Paternità” comincia come “pathos”: un padre dovrebbe sentire e far sentire tutto il pathos della vita, come la corsa affannosa (o quasi una danza del ventre) di quello spermatozoo in mezzo agli altri per raggiungere l’ovulo.

Lo psicologo e psicoterapeuta Osvaldo Poli esplica: “La ferita inferta dal padre riguarda esattamente questo: costringe il figlio a smettere di pensare la vita in termini infantili, quasi fosse un paradiso terrestre dove tutto è facile, senza fatica, dove nulla è richiesto per poter vivere e per avere un buon rapporto con gli altri. Anche i figli infatti debbono amare i genitori, accettando le condizioni che rendono possibile un rapporto ispirato a tale sentimento. Il padre chiede al figlio di “sacrificare” il modo infantile di affrontare la vita, rinunciando alle condizioni favorevoli o poco impegnative garantite sin a quel momento dalla famiglia e dalla mamma in particolare. Egli intende dire al figlio: renditi conto che la vita non dà tutto senza chiedere niente, non tutto il mondo “gira intorno a te” al solo scopo di renderti felice, e non puoi pensare che gli aspetti difficili e impegnativi semplicemente “non esistano”, o che qualcun altro si debba sentire incaricato di rimuoverli” (in “Cuore di papà. Il modo maschile di educare”).

In passato la figura paterna incuteva timore e a ciò contribuiva anche la madre che intimoriva i figli, in caso di marachelle, minacciandoli di riferire tutto al padre. Il timore è uno stato d’animo diverso dalla paura e non è detto che sia negativo, perché porta ad essere guardinghi, ad aspettarsi che succeda qualcosa di spiacevole, induce pertanto a porsi dei limiti e a rispettare i limiti.

È necessario e doveroso che i bambini acquisiscano il senso del rispetto dei propri genitori per rispettare se stessi e l’altro da sé e perciò sarebbe opportuno per i genitori rispettare i propri ruoli anche per il processo identitario dei figli: “[…] inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori, della sua identità” (art. 29 lettera c Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

“Padre”, etimologicamente “colui che protegge, che nutre, che sostiene”: il padre dovrebbe dare un aiuto nei problemi della vita e non dare problemi nella vita di un figlio.

Il padre è uno dei punti cardinali dell’orientamento nella vita di cui all’art. 5 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. È questo il vero codice genetico da trasmettere.

Non è più l’era del padre-padrone ma non deve essere nemmeno l’era dei figli tiranni.

“Smettiamola di crescere Bambini-Re” (Ludovico Arte, dirigente scolastico). La centralità del bambino non significa e non deve significare accentramento da parte del bambino: in famiglia ognuno è soggetto di diritti e doveri. “Mentre guardavo mia figlia non provavo felicità, ma ero diventato felicità” (dal film “Collateral beauty”). La madre avverte la maternità già nel grembo in divenire, il padre deve esprimere la paternità e farla sentire.

I padri hanno qualcosa delle madri ma non devono fare i mammi né si deve dire che aiutano le mamme quando esprimono ed esercitano la loro paternità.

Maternità e paternità sono due percorsi in senso inverso: la madre, che ha portato il figlio nel grembo, deve imparare a distaccarsi dal figlio; il padre, che ha concepito quel grembo a distanza con qualcosa di quasi invisibile, deve imparare ad avvicinarsi al figlio e rendersi visibile, presente.

Padre: colui che dà protezione, paletti e patrimonio di vita; partenza della vita, pietra miliare lungo la via, pilastro per sempre.

Data: 16/05/2023 11:00:00
Autore: Margherita Marzario