È reato interrompere una processione?
Turbamento della funzione religiosa e vilipendio
L'imputato era stato ritenuto responsabile, all'esito di entrambi i gradi di giudizio, delle condotte offensive e oltraggiose poste in essere in occasione di una funzione religiosa.
In particolare, i fatti allo stesso contestati erano consistiti nell'inveire, durante lo svolgimento di una processione dinanzi al palazzo comunale, contro il vescovo, gesticolando in modo esagitato ed aggressivo e partecipando ad un coro che recitava "via, vai via". Tale comportamento aveva, secondo gli accertamenti giudiziari svolti, impedito la prosecuzione della processione.
In ragione di tali circostanze, la Corte d'appello di Salerno aveva concluso il proprio esame ritenendo che l'imputato aveva turbato la celebrazione religiosa, con piena coscienza e volontà.
La decisione adottata dal Giudice di secondo grado ha aderito al costante orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto secondo cui "il reato di cui all'art. 405 cod. pen. può essere perfezionato da due condotte antigiuridiche: l'impedimento della funzione, consistente nell'ostacolare l'inizio o l'esercizio della stessa fino a determinarne la cessazione, oppure la turbativa della funzione, che si verifica quanto il suo svolgimento non avviene in modo regolare". In tal senso "la fattispecie (…) è sostenuta dal dolo generico, tanto che la medesima condotta di "turbamento" della funzione religiosa può essere integrata anche dalla sua strumentalizzazione per scopi contrari al sentimento religioso di chi vi prende parte e che la funzione stessa intende evocare e onorare".
Avverso la sentenza emessa dalla Corte d'appello, con cui erano stati ritenuti integrati i reati di vilipendio alla religione e turbamento della funzione religiosa, l'imputato ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.
Vilipendio alla religione: non richiesto il dolo specifico
La Suprema Corte, con sentenza n. 1253/2024 (sotto allegata) ha rigettato il ricorso dell'imputato con riferimento all'integrazione alle fattispecie di cui agli artt. 403 e 405 c.p., soffermandosi in particolare sull'esame del reato di vilipendio alla religione.
Nella specie, il ricorrente ha contestato che, rispetto alla condotta allo stesso addebitata, era difettato l'elemento soggettivo richiesto per il vilipendio alla religione, dallo stesso individuato nel dolo specifico.
Rispetto a tale motivo di ricorso, la Corte ha ricordato che, il reato di cui all'art. 403 c.p., nel sanzionare le condotte di coloro che offendano una confessione religiosa mediante vilipendio del ministro di culto, fa riferimento ad un comportamento che consiste "nel manifestare un'offesa volgare e grossolana, che si concretizzano in atti che assumono caratteri evidenti di dileggio, derisione, disprezzo; atti sorretti da dolo generico, ossia dalla volontà di commettere il fatto con la consapevolezza della loro idoneità a vilipendare, tale da rendere irrilevante il movente dell'azione (politico o sociale), che non vale perciò ad escluderlo".
Posto dunque che la norma non richiede che sussista in capo all'agente un dolo di tipo specifico ai fini della configurazione del reato, la Corte ha poi provveduto a delineare gli ulteriori elementi necessari ai fini dell'integrazione del delitto di vilipendio alla religione. A tal proposito, il Giudice ha ripercorso l'orientamento giurisprudenziale formatosi in seno alla stessa, evidenziando che "in materia religiosa la critica è lecita quando (…) si traduca nella espressione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da una indagine condotta, con serenità di metodo, da persona fornita dalle necessarie attitudini e di adeguata preparazione: mentre trasmoda in vilipendio quando (…) manifesti un atteggiamento di disprezzo verso la religione, disconoscendo alla istituzione e alle sue essenziali componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio ad essa riconosciute dalla comunità".
Sulla base delle suddette argomentazioni, il Giudice di legittimità ha concluso il proprio esame affermando che "la Corte di appello ha sottolineato, con solido e non illogico argomento, che la condotta offensiva tenuta (dall'imputato) all'indirizzo del vescovo non costituiva una critica, tantomeno ragionata e civile, al profilo meramente organizzativo di un evento pubblico, ma un'evidente offesa al sentimento religioso della comunità dei fedeli lì presenti, manifestata contestando la particolare autorevolezza che la stessa comunità attribuisce alla figura del vescovo nell'esercizio delle sue funzioni".
Per le ragioni sopra espressa, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dall'imputato.
Data: 17/03/2024 07:00:00Autore: Silvia Pascucci