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Violenza sessuale su una paziente: risponde anche la clinica

La Cassazione chiarisce il principio di correlazione tra accusa e sentenza nel delitto di violenza sessuale ex art. 609 bis c.p. e ricorda che il datore di lavoro risponde civilmente per le condotte illecite dei propri dipendenti


Violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza

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La Corte di Cassazione (con sentenza n. 47018 del 23 novembre 2023), nel ricordare che il datore di lavoro risponde civilmente per le condotte illecite dei propri dipendenti, tra i vari punti del ricorso, tratta e chiarisce nuovamente il principio di correlazione tra accusa e sentenza rispetto al "significato dei termini" di "costrizione" e "induzione" utilizzati dall'art. 609 bis del codice penale.

La III sez. pen. della S.C. si è trovata ad esaminare un caso di violenza sessuale aggravata ex art. 609 bis, comma 2, n.1; e art. 61, n.5 del codice penale.

La vicenda - davvero inquietante – portata davanti alla Suprema Corte, si era verificata in una clinica privata: il reo, paramedico dipendente della 'clinica incriminata', consumava atti penalmente rilevanti ai danni di una degente sottoposta, qualche ora prima del verificarsi delle condotte illecite, ad intervento chirurgico.

L'avvilente scenario si consumava durante la notte: l'infermiere - in forza lavoro nella clinica in questione, durante il turno notturno appunto - si era introdotto nella camera in cui la donna era ricoverata in 'stato post operatorio'; ed aveva di 'sua iniziativa' effettuato sulla paziente – più volte, durante l'arco della nottata – massaggi nella zona sovrapelvica e pelvica; manovre invasive che avevano coinvolto anche la parte interna dell'organo genitale della paziente; facendo subire alla donna appunto azioni non previste dal protocollo medico che la riguardava.

La paziente anche "nell'ignoranza della pratica medica" aveva avuto però da subito sentore, circa l'inutilità ai fini terapeutici di tali massaggi, avendo avvertito inoltre anche maggiore dolore nella zona del corpo sottoposta alle pratiche poste in essere dal paramedico - proprio perché invasive e soprattutto non necessarie, ma che 'aggravavano' invece di fatto il suo 'stato di recupero medico '.

Il sospetto su tali pratiche, poste in essere dal reo, avevano condotto infine la vittima a richiedere "l'applicazione del catetere", proprio per evitare che il paramedico perpetrasse nell' 'eventuale' abuso.

Al mattino seguente però, durante la visita medica di controllo, la paziente riferiva l'accaduto al medico, per avere chiarimenti circa la necessità "ai fini terapeutici" appunto delle azioni che aveva subito dall'infermiere durante la notte: il confronto con il medico dava conferma alla vittima dei suoi sospetti; solo in quel momento infatti "aveva acquisito piena consapevolezza" in merito alle condotte criminose del paramedico, finalizzate a scopi sessuali.

La parte lesa quindi dopo aver avuto la certezza delle pratiche illecite subite, denunciava l'accaduto, di cui rispondeva civilmente anche la stessa clinica.

Il paramedico pertanto rispondeva in giudizio di violenza sessuale ex art. 609 bis, co. 2; e considerata la "circostanza di tempo dell'orario notturno", gli veniva contestata anche l'aggravante generica ex art. 61, n.5, del codice penale.

Condannato nei giudizi di merito per violenza sessuale aggravata, il reo però coinvolgeva 'nella questione' i giudici di legittimità, impugnando la sentenza con doglianze (disposte in 8 punti): in generale a sua difesa, giustificava le condotte illecite adottate, sostenendo di aver effettuato tali azioni al fine di aiutare, di facilitare cioè la paziente nella 'funzione della minzione'. Ma proprio nelle dichiarazioni a sua difesa, non negando l'accaduto, "nel tentativo maldestro di dare una base scientifica ai toccamenti eseguiti" - come nota la Suprema Corte - dava invece prova delle sue azioni, e andava quindi a confermare le condotte illecite attribuite dalla donna, confermando pertanto la sua responsabilità.

"Induzione e costrizione" nella violenza sessuale ex art. 609 c.p.

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Tra le varie questioni, il ricorrente sottoponeva all'esame dei giudici di legittimità l'"utilizzo" dei termini di 'costrizione' e di 'induzione'; termini richiamati dall'enunciato dell'art. 609 bis; sollevando la violazione della "correlazione tra imputazione contestata e la sentenza".

Il reo faceva 'notare" che gli era stato contestato del medesimo articolo - il 609 bis in analisi - il comma 1, quindi la 'costrizione', ma aveva riportato una condanna per il comma 2, ossia per 'induzione'.

Il ricorrente quindi, molto attento alla linguistica, sollevava la violazione dell'art. 521 del codice di procedure penale. L'imputato esprimeva difatti la doglianza relativa all'"attinente questione del capo d'imputazione, ed estendeva tale doglianza, facendola sfociare anche sul campo della violazione del 'principio di difesa'; diritto di difesa compromesso dall'incertezza sull'oggetto di imputazione'".

Il ricorrente cercava di fare leva su una 'violazione' basata maggiormente su una 'confusione linguistica'.

Gli Ermellini in risposta ricordano, anche in questa occasione, che "per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti di difesa".

E approfondendo l'analisi in questione ribadiscono che "l'indagine, volta ad accertare la violazione di tale principio, quindi, non si esaurisce nel pedissequo e mero confronto letterale fra contestazione e sentenza. Trattandosi di garanzie e di difesa, è certo che non sussiste la violazione quando l'imputato, attraverso l'iter' del processo, si sia potuto difendere in ordine all'oggetto di imputazione (si veda su tutte, sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051 – 01). La prevedibilità della riqualificazione mette, infatti, al riparo dalla violazione dell'art. 111 Cost. e art. 6 CEDU (si veda su tutte, Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438-01)".

L'imputato nel corso del processo, come già riportato, non aveva negato di aver agito secondo la descrizione dell'accaduto che riferiva la paziente, ma aveva solo dato una 'giustificazione' allo stesso – giustificazione però non supportata, suo malgrado, dalla scienza medica. Non poteva pertanto sostenere la negazione dell'attuazione del diritto di difesa solo perché non c'era nessun riscontro scientifico alle sue dichiarazioni. Dichiarazioni che invece confermavano il fine illecito ai danni della degente proprio perché poste in essere arbitrariamente e per fini personali, sessuali.

La Corte con una lunga esplicazione conclude chiarendo anche il "significato e l'impiego" dei "termini incriminati".

Innanzitutto precisa che "l'induzione necessaria ai fini della configurabilità di cui all'art 609 bis c.p., comma 2, n.1, non si identifica solamente nell'attività di persuasione subdolamente esercitata sulla persona offesa per convincerla a prestare il proprio consenso all'atto sessuale"; ma evidenzia che può invece "estrinsecarsi in qualsiasi forma di sopraffazione posta in essere dall'agente, sia pur senza ricorrere ad atti costrittivi ed intimidatori nei confronti della vittima" che "non risultando in grado di opporsi, a causa delle condizioni di inferiorità, soggiace al volere dell'autore della condotta" (Sez. 3, n. 52835 del 19/06/2018 – dep. 23/11/2018, P., Rv. 27441702).

E richiamando in aggiunta anche la "lunga giurisprudenza", che in numerose occasioni appunto già si era espressa in merito, ricorda che "la declinazione di tali principi nella materia sessuale ha portato a ritenere violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza allorquando si sia passati dalla costrizione all'induzione senza che nella descrizione del fatto ricorressero ambo le ipotesi (es. condanna per induzione quando la contestazione era stata per costrizione consistente nella repentinità e insidiosità del gesto, Sez. 3, n.3951 del 28/09/2021, dep. 2022, F., Rv. 282830, dove si rinviene ampia disanima delle casistiche relative alle due ipotesi; nello stesso senso, Sez. 3, 30680 de 26/05/2022, L., Rv. 283643 – 01 e Sez. 4, n. 40340 del 21/10/2022, S., Rv. 283699-01). La violazione, invece, è stata esclusa quando la contestazione comprendeva sia gli elementi della costrizione che quelli dell'induzione (Sez.3, n. 24598 del 03/07/2020, H., Rv. 279710-01) perché è stato accertato in concreto che l'induzione costituiva la proiezione della costrizione per cui l'imputato si era potuto difendere su tutti i fatti ascrittigli".

La Suprema Corte fa notare inoltre – respingendo fermamente, anche questa censura - che "sebbene nella contestazione si usi la forma verbale 'costringeva', nella dettagliata descrizione del fatto si dà conto delle condizioni della donna, limitata nella sua libertà personale, dopo l'intervento chirurgico, nonché della circostanza di tempo notturna, e del delicato contesto, stante il rapporto non paritario tra il paramedico e la paziente. Pertanto, non si ravvisa alcuna modifica sostanziale e 'a sorpresa' nella riqualificazione della condotta da parte del giudice di merito nella forma dell'induzione".

Responsabilità della clinica per fatto del dipendente

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Quanto alla responsabilità civile della clinica, la quale tra le varie questioni poneva a fondamento del ricorso - a sua discolpa – la previsione di un 'piano organizzativo aziendale'. Il fatto di aver previsto nel reparto per tutta la giornata anche la presenza di una infermiera, la considerava una condizione sufficiente per escludere la responsabilità civile della clinica stessa, rispetto alla condotta illecita posta in essere dal dipendente.

La Corte però rammenta che tale responsabilità non può essere esclusa; e citando anche altre numerose pronunce, ricorda ribadendo anche in questo caso che: "la società risponde in qualità di committente del fatto del proprio dipendente già solo per l'esistenza di un rapporto di lavoro di occasionalità necessaria tra il fatto illecito compiuto dal dipendente e le mansioni a lui affidate, ciò che nella specie si è verificato perché il comportamento dell'imputato è stato occasionato dallo svolgimento delle mansioni lavorative". E continua, approfondendo ancora la sua spiegazione, ricordando che "E' pacifico in giurisprudenza che è sempre configurabile la responsabilità civile del datore di lavoro anche per le condotte delittuose del dipendente dirette a perseguire finalità esclusivamente personali (sez.3, n.33562 del 11/06/2023, Cordaro, Rv. 226132-01, in un caso di responsabilità della Pubblica Amministrazione per gli atti sessuali commessi da un'insegnante; sez. 3, n.40613 del 05/06/2013, P., Rv. 256978-01 in un caso di poliziotto che aveva commesso la violenza sessuale nelle camere di sicurezza ai danni di una detenuta; Sez.3, n. 8968 del 07/11/2019, dep. 2020, N., Rv. 278400-01 in un caso di responsabilità della società di gestione delle linee del bus rispetto agli atti sessuali commessi dall'autista), purché l'adempimento dei compiti e delle mansioni alle quali lo stesso è stato preposto costituiscano un'occasione necessaria che l'autore del reato sfrutta per il compimento degli atti penalmente illeciti (tra le più recenti, Sez. 1, n. 25158 del 03/02/2022, A. Rv. 283477-02)".

E rigettando anche il ricorso della struttura sanitaria, infine, conclude riaffermando ed evidenziando che "Tale responsabilità per fatto altrui prescinde dal modello organizzativo utilizzato come specificato nei casi di responsabilità per fatto dell'amministrazione (sez. 4, n.32899 del 08/01/2021, Castaldo, Rv. 281997-19)".

Data: 22/03/2024 09:00:00
Autore: Anna Zaccagno