Appropriazione indebita: pena minima art. 646, 1° comma, c.p. incostituzionale
La Corte Costituzionale censura la scelta del legislatore di fissare la pena minima in anni 2 di reclusione
La questione di legittimità
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Il Tribunale di Firenze, Sezione I Penale, con ordinanza del 6 marzo 2023, ha sollevato questione di illegittimità costituzionale dell'art. 646 c.p., in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui viene fissata la soglia minima di punibilità in anni 2 di reclusione, così come riformulata dalla L. n.3/2019 (Misure per il contrasto dei reati contro la Pubblica Amministrazione).
In particolare, il Giudice rimettente si è ritrovato di fronte ad un episodio di appropriazione indebita per la somma di € 200. Il contesto in cui era maturata la vicenda, specie per quel che riguardava la situazione socioeconomica della persona offesa, non convinceva circa l'applicazione dell'istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art.131 bis c.p.. Rimanendo solo l'ipotesi della pronuncia di colpevolezza, la pena detentiva, ancorché fissata nel minimo edittale, sarebbe risultata tuttavia irragionevole, se parametrata sia alla condotta che all'esiguità della somma di denaro.
Invero, l'intervento correttivo del legislatore del 2019, finalizzato a colpire più severemente le attività prodromiche ai fenomeni corruttivi, si è tradotto in un innalzamento della pena minima, prevista per il delitto in questione, di ben quarantotto volte, così determinando la violazione dei principi di uguaglianza e proporzionalità della sanzione.
In sede di riforma, non si è evidentemente tenuto conto che l'art.646 c.p., per la sua formulazione "lata e generica", abbraccia tutta una serie di episodi, da quelli particolarmente gravi e connessi a fenomeni corruttivi, a quelli più banali e di minor portata offensivi, come ad esempio l'indebito trattenimento di una somma modesta in un caso di locazione di un immobile.
La decisione della Consulta
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Il Giudice delle leggi ha ritenuto meritevole di accoglimento la questione sollevata dal Tribunale toscano.
Premette che, pur riconoscendola nella definizione della politica criminale e, quindi, nella determinazione delle pene, la discrezionalità del legislatore non può automaticamente tradursi in arbitrio, dovendosi sempre confrontare con i diritti fondamentali della persona, che impongono il rispetto del criterio della propozionalità della sanzione.
Dall'entrata in vigore del codice penale (1930) fino all'intervento del 2019, l'appropriazione indebita è sempre stata punita "con la reclusione fino a tre anni", fissando, di conseguenza, la pena base in quindici giorni, come stabilito dalla regola generale dell'art. 3 c.p. La L. 3/2019 ha sensibilmente aggravato il trattamento sanzionatorio, innalzando il minimo edittale in anni due.
Le ragioni di una tale modifica non sono state esposte nel corso del dibattimento parlamentare che ha portato all'approvazione della legge, richiedendo uno sforzo interpretativo dell'intento del legislatore. In tal senso "«[S]ebbene non si tratti di un delitto contro la pubblica amministrazione» – si legge nella relazione – «il reato di appropriazione indebita è strumento che consente comunemente (come il reato di falso in bilancio o i reati tributari) di formare provviste illecite utilizzabili per il pagamento del prezzo della corruzione.
Sembra pertanto opportuno, nella prospettiva di un contrasto efficace non solo dei fenomeni corruttivi, ma anche delle attività prodromiche alla corruzione, mantenere la procedibilità d'ufficio per le ipotesi di maggiore gravità di appropriazione indebita». Tuttavia, una motivazione simile non troverebbe giustificazione nella fissazione della soglia minima in anni due di reclusione, che mal si concilia con episodi di minima portata offensiva.
Sembra pertanto opportuno, nella prospettiva di un contrasto efficace non solo dei fenomeni corruttivi, ma anche delle attività prodromiche alla corruzione, mantenere la procedibilità d'ufficio per le ipotesi di maggiore gravità di appropriazione indebita». Tuttavia, una motivazione simile non troverebbe giustificazione nella fissazione della soglia minima in anni due di reclusione, che mal si concilia con episodi di minima portata offensiva.
"E ciò a fronte del dato di comune esperienza che il delitto di appropriazione indebita comprende condotte di disvalore assai differenziato: produttive ora di danni assai rilevanti alle persone offese, ora (come nel caso oggetto del giudizio) di pregiudizi patrimoniali in definitiva modesti, anche se non necessariamente di particolare tenuità ai sensi dell'art. 131- cod. pen.".
La Corte prosegue dando pregio alla comparazione, invocata dal Tribunale di Firenze, tra il trattamento sanzionatorio del reato di appropriazione indebita e quello dei reati di furto e truffa.
Per quanto le condotte siano tra loro differenti, non necessitando pertanto identica risposta punitiva, esse sono accumunate nell'attitudine all'offesa al patrimonio. Quindi non può non rilevarsi la macroscopica disparità di trattamento sanzionatorio, generata dall'attuale disciplina, tra l'appropriazione indebita di una somma di 200 euro, come quella oggetto del giudizio , e un furto o una truffa che producano esattamente il medesimo danno patrimoniale allaa quo persona offesa: sei mesi di reclusione in queste ultime ipotesi; due anni, e dunque quattro volte tanto, nel caso di appropriazione indebita.
L'Avvocatura dello Stato, in sede di istanza di respingimento della questione sollevata, ha fatto presente come si potesse ugualmente raggiungere ad un più mite trattamento, ben potendo l'imputato ricorrere agli istituti delle circostanze attenuanti generiche e dei riti alternativi (che comportano sconti di pena) ovvero, addirittura, invocare la causa di esclusione della punibilità ex art. 131 bis c.p. (particolare tenuità del fatto) o di estinzione del reato ex art. 162 ter c.p. (estinzione del reato per condotte riparatorie).
La Corte Costituzionale non è dello stesso avviso.
Per quel che concerne le circostanze attenuanti, esse «non svolgono nel sistema una funzione genericamente indulgenziale, quasi si trattasse di un beneficio sistematicamente concesso a qualsiasi condannato. […] [A]lle attenuanti generiche compete piuttosto l'essenziale funzione di attribuire rilevanza, ai fini della commisurazione della sanzione, a specifiche e puntuali caratteristiche del singolo fatto di reato o del suo autore […] che connotano il fatto di un minor disvalore, rispetto a quanto la conformità della condotta alla figura astratta del reato lasci a prima vista supporre» (Corte Cost., sent. n. 197 del 2023). Dunque, il giudice non deve essere costretto a ricorre alle circostanze attenuanti al solo fine di evitare l'irrogazione di una pena sproporzionata.
Analoghe motivazioni possono essere addotte per quanto riguarda gli istituti di cui agli artt.131 bis e 162 ter c.p., entrambi condizionati a determinati requisiti che non è detto sussistano nel caso concreto.
Infine, in riferimento alle scelte processuali, esse ineriscono ad un mero diritto, che comporta per contro la rinunzia a garanzie costituzionali, (tra cui spicca la formazione della prova in contraddittorio tra le parti avanti al giudice), e non possono, pertanto, tradursi in una scelta obbligata al solo fine di pervenire ad una pena proporzionata.
Il dispositivo
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La Corte Costituzionale, dunque, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 646, primo comma, del codice penale, come modificato dall'art. 1, comma 1, lettera), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), nella parte in cui prevede la pena della reclusione «da due a cinque anni» anziché «fino a cinque anni».
Data: 31/03/2024 07:00:00Autore: Andrea Cagliero