Niente farina al 41-bis
La farina può essere incendiata e formare esplosivo e non è fondamentale per una sana alimentazione. Lo ha chiarito la Cassazione
Nella vicenda, il tribunale di sorveglianza di Sassari aveva respinto il reclamo proposto dal detenuto sottoposto al regime di cui all'art. 41-bis ord.pen. affinché l'istituto penitenziario gli consentisse l'acquisto di lievito e farina. Il D.A.P. aveva giustificato li divieto, esteso a tutti i detenuti, con la potenziale pericolosità dela farina che, dispersa nell'aria, a seguito di innesco, può dare vita ad una nube incendiaria o esplosiva, ma il magistrato di sorveglianza aveva ritenuto tale affermazione non provata né giustificata in concreto, stante l'assenza
di tale divieto in altri istituti penitenziari, ed essendo consentito l'acquisto di alimenti con maggiore potere incendiario.
lI Tribunale ha, in primo luogo, giudicato corretta la qualificazione del reclamo come presentato ai sensi dell'art. 35-bis ord. pen. attenendo esso al diritto del detenuto ad un'alimentazione sana. Quindi, ha ritenuto infondato il reclamo del D.A.P., essendo il divieto irragionevole sia perché viene consentito l'acquisto di prodotti alimentari più idonei alla produzione di incendi, sia perché non è stato chiarito con quali agevoli modalità i detenuti potrebbero innescare un incendio, sia perché li Nucleo Artificieri del Comando provinciale dei Carabinieri di Nuoro ha escluso che sussista un reale rischio esplosivo della farina, in considerazione dei beni e delle attrezzature che sono necessarie per farla esplodere, sia infine perché tale acquisto è consentito in altri istituti penitenziari.
Avverso l'ordinanza hanno proposto ricorso la Casa circondariale di Sassari, li D.A.P. e il Ministero della Giustizia, per mezzo dell'Avvocatura distrettuale dello Stato di Cagliari, ritenendo che il Tribunale di sorveglianza abbia provveduto in una materia in cui non ha li potere, trattandosi di questione non giurisdizionale, ma amministrativa, atteso che mancano i presupposti per qualificare li ricorso come reclamo ai sensi dell'art. 35-bis ord. pen., non essendo in discussione il diritto alla salute o ad una alimentazione sana del condannato, ed avendo contestato questi solo un aspetto che pertiene alla potestà regolamentare dell'amministrazione carceraria.
Per la S.C., il ricorso è fondato.
"Il reclamo giurisdizionale al magistrato di sorveglianza, previsto dagli artt. 35- bis e 69, comma 6, lett. b), ord. pen., ammette la tutela delle posizioni giuridiche soggettive qualificabili in termini di 'diritto', incise da condotte dell'Amministrazione che violino disposizioni previste dalla legge penitenziaria, e dal relativo regolamento, dalle quali 'derivi al detenuto o all'internato un attuale e grave pregiudizio'" affermano preliminarmente gli Ermellini.
"Presupposti essenziali di tale strumento - proseguono - sono dunque costituiti dall'esistenza, in capo al detenuto, di una posizione giuridica attiva, non riducibile (o non riducibile ulteriormente) per effetto della carcerazione e direttamente meritevole
di protezione, e dall'esistenza di una condotta, imputabile all'Amministrazione penitenziaria, che si ponga con tale posizione soggettiva in illegittimo contrasto". Peraltro, precisano, "dalla condizione detentiva possono derivare limitazioni, anche significative, alla ordinaria sfera dei diritti soggettivi della persona, anche quale diretta conseguenza dell'adozione di misure e provvedimenti organizzativi dell'Amministrazione stessa volti a disciplinare la vita degli istituti, a garantire l'ordine e la sicurezza interna e l'irrinunciabile principio del trattamento rieducativo; misure e provvedimenti che, ove adottati nel rispetto dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità, incidono legittimamente sulla posizione soggettiva del ristretto, andando ad integrarne l'ambito di autorizzata e lecita compressione". Ad ogni modo, "il diritto soggettivo del detenuto, nel suo nucleo intangibile, cui è garantita protezione, non va confuso con le mere modalità di esercizio di esso, inevitabilmente assoggettate a regolamentazione; soltanto la negazione del diritto in quanto tale integra lesione suscettibile di reclamo giurisdizionale, mentre le modalità di esplicazione del diritto restano affidate alle scelte discrezionali dell'Amministrazione penitenziaria, in funzione delle esigenze di ordine e disciplina interne, che, ove non manifestamente irragionevoli, ovvero sostanzialmente inibenti la fruizione del diritto, non sono sindacabili in sede giudiziaria".
"Il diritto all'alimentazione sana del detenuto rientra in quella posizione giuridica attiva, non riducibile per effetto della carcerazione e direttamente meritevole di protezione, che è azionabile attraverso lo strumento dell'art. 35-bis ord. pen. - sentenziano quindi dal Palazzaccio - ma esso è garantito dalla varietà dei prodotti alimentari acquistabili e dalla loro idoneità a corrispondere ai bisogni nutritivi di un individuo sano, mentre la individuazione dei singoli alimenti attraverso cui deve essere perseguito li diritto all'alimentazione sana costituisce mera modalità dell'esercizio di tale diritto, atteso che, per rimanere al caso in esame, né la farina né il lievito sono assolutamente indispensabili per un'alimentazione sana, che può essere coltivata anche attraverso altri prodotti facenti parte del catalogo approvato dall'istituto penitenziario".
"Le questioni che attengono alla individuazione dei generi alimentari acquistabili, pertanto, attengono alle modalità di esercizio del diritto alla salute non giustiziabile in sede giurisdizionale, e non a quel nucleo intangibile del diritto in sé che permette l'utilizzazione dello strumento dell'art. 35-bis ord. pen." concludono i giudici annullando senza rinvio l'ordinanza impugnata.
Autore: Redazione