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Il quarto potere ignoto a Montesquieu: l'Agenzia delle Entrate

Il valore delle circolari e degli atti dell'Agenzia delle Entrate secondo la giurisprudenza della Cassazione


Agenzia Entrate e Cassazione

Da sempre il funzionario dell'agenzia delle Entrate, quando si recava in commissione tributaria provinciale (oggi corte di giustizia tributaria), assomigliava ad un personaggio di pirandelliana memoria. Portava con sé gli attrezzi per riparare la giara. Fornito di un consunto borsone che conteneva circolari, risoluzioni e accessori indispensabili per chiudere con successo la lite che iniziava già male. Il funzionario dell'agenzia non aveva nessuna intenzione di produrre sentenze di primo grado, sentenze di secondo grado e soprattutto una consolidata giurisprudenza della Cassazione, inutili come i punti del mastro zì dima. Il funzionario aveva con sé tutto quello che a suo giudizio era utile, il faldone dell'agenzia, sarebbe stato un peso inutile portare con sé anche il faldone della giurisprudenza. «Verrà bene!» avrebbe detto il funzionario, ma la Cassazione non si è fidata.

Il valore delle circolari: la Cassazione si pronuncia sulla legge n. 2/2002

La questione è stata sollevata a seguito del ricorso presentato al Tar di Catania contro una circolare dell'Agenzia delle Entrate, direzione regionale della Sicilia[1], che interpretava la legge regionale 2/2002, relativa alle "Disposizioni programmatiche e regionali per l'anno 2002". Secondo i ricorrenti, contrariamente a quanto sostenuto dall'Amministrazione finanziaria nella circolare contestata, le agevolazioni fiscali previste dall'articolo 60 della legge regionale erano applicabili anche agli atti di compravendita diversi da quelli preordinati alla ricomposizione della piccola proprietà contadina. Il Tribunale amministrativo regionale ha deciso di annullare la circolare contestata, accogliendo l'argomentazione del contribuente. L'Agenzia delle Entrate ha presentato appello al Consiglio di giustizia amministrativa, sostenendo che il giudice amministrativo non aveva giurisdizione in materia di circolari. Lo stesso argomento è stato presentato a sostegno del ricorso in Cassazione, sempre presentato dall'Amministrazione finanziaria. Le ragioni dell'Amministrazione sono state riconosciute dai giudici di legittimità.[2]

La Cassazione ha affrontato la questione in termini di natura e "valore" giuridico delle circolari interpretative. In questo senso, la Corte ha precisato che la circolare amministrativa, data la sua natura e il suo contenuto (mera interpretazione di una norma di legge), non avendo alcuna efficacia normativa esterna, non può essere considerata tra gli atti generali di imposizione, impugnabili davanti al giudice amministrativo, in via di azione, o di disapplicazione dal giudice tributario o ordinario, in via incidentale. La circolare, infatti, esprime "una dottrina dell'Amministrazione, cioè l'opinione di una parte (anche se "forte") del rapporto tributario", con la conseguenza che ha efficacia solo interna all'ambito dell'Amministrazione, non potendo quindi "produrre alcun effetto giuridico nei confronti di soggetti estranei all'amministrazione". Dopo questa precisazione, la Cassazione ha enunciato i limiti all'efficacia delle circolari emesse in materia fiscale.

1. la circolare emessa dall'Agenzia delle Entrate non vincola il contribuente, "che rimane pienamente libero di non adottare un comportamento in linea con essa, in piena coerenza con la regola che, in un sistema fiscale basato essenzialmente sull'autotassazione, la soluzione delle questioni interpretative è affidata (almeno in una prima fase, quella, appunto, della determinazione dell'imposta da pagare) direttamente al contribuente";

2. la circolare non vincola nemmeno gli uffici gerarchicamente sottoposti, ai quali non è vietato ignorarla, senza che per questo il provvedimento concreto adottato dall'ufficio possa essere considerato illegittimo "per violazione della circolare";

3. la circolare non è vincolante nemmeno per la stessa autorità che l'ha emessa, che, può modificare o correggere del tutto l'interpretazione adottata". In caso contrario, infatti, si riconoscerebbe all'Amministrazione stessa un potere normativo, in conflitto con il principio costituzionale (articolo 23) della riserva di legge;

4. la circolare non vincola il giudice tributario, considerando che questi per potersi pronunciare non deve svolgere una approfondita disamina della circolare, ma deve limitarsi e valutare se l'interpretazione della nota amministrativa sia conforme o meno alla legge che disciplina la fattispecie oggetto del giudizio, per applicare la norma correttamente interpretata. La novità della sentenza consiste nel fatto che, per la prima volta, viene chiaramente affermato che la circolare interpretativa non vincola nemmeno gli uffici finanziari. Questa importante affermazione deve essere letta nel contesto dei principi enunciati dai giudici di legittimità, che hanno, appunto, evidenziato che il provvedimento, adottato dall'ufficio in contrasto con una circolare, non è illegittimo, dovendosi la legittimità verificare solo mediante il confronto con le norme di legge o di regolamento, che disciplinano i poteri di rettifica e di accertamento degli uffici impositori.

Conseguentemente, questa novità, definita significativamente come "dirompente" dalla stampa specialistica[3], deve essere recepita nel chiaro senso espresso dalla Cassazione, secondo la quale non può ritenersi illegittimo un atto "per violazione della circolare".

In effetti, per quanto riguarda l'efficacia "interna" della circolare, cioè quella che si dispiega nei confronti dei funzionari dell'Amministrazione, occorre fare qualche chiarimento. Indubbiamente, la tesi della non vincolatività propugnata dalla Cassazione appare formalmente corretta ed espressione di un principio di responsabilizzazione, oltre che di imparzialità, dei funzionari. Tuttavia, questa "non vincolatività" non è uniforme per tutti i soggetti. Infatti, se è vero che la circolare interpretativa non vincola neppure questi particolari soggetti (i funzionari), è altrettanto vero che il "grado di non vincolatività" dispiegato dai documenti nei loro confronti è ben diverso da quello prodotto nei confronti dei contribuenti. Precisamente, questo grado è minore, nel senso che il funzionario, se intende ignorare la circolare, deve fornire una motivazione molto solida e congrua, a sostegno della propria decisione di dissenso. Ciò, a ben vedere, per due precise ragioni. In primo luogo, non va dimenticato il fatto che la circolare, nei confronti dei funzionari, rappresenta pur sempre l'espressione di un potere di supremazia, che impone comportamenti attenti e, quindi, decisioni molto motivate, soprattutto in caso di "dissenso". In secondo luogo, l'ignoranza di una circolare, per dottrina e giurisprudenza pacifica, può dar luogo a una figura sintomatica di eccesso di potere. Di conseguenza, il funzionario, se intende evitare la possibile configurazione di tale vizio deve operare correttamente,

In quella che possiamo considerare la prima pronuncia assoluta della Suprema Corte emergono in estrema sintesi due considerazioni:

Gli atti generali dell'Agenzia delle Entrate

La sentenza n. 29023 del 19 ottobre 2023 della Corte di Cassazione e le relative statuizioni gemelle hanno stabilito che gli atti generali con i quali l'Agenzia delle Entrate ha dato attuazione al contributo posto a carico delle imprese del settore energetico e petrolifero dall'art. 37 del D.L. n. 21/2022 sono impugnabili dinanzi al giudice amministrativo. La Cassazione si è pronunciata sul tema con le recentissime sentenze[4], segnando un punto di svolta nell'impugnabilità dei provvedimenti amministrativi generali dell'Agenzia delle Entrate. Questa evoluzione giuridica recente non solo ha ridefinito l'ambito dell'azione amministrativa dell'ente, ma ha anche sollevato questioni cruciali riguardo all'importanza delle circolari e altri documenti di prassi.

Le decisioni in questione hanno un peso che trascende il caso specifico. È stato precisato dalle Sezioni Unite che le azioni amministrative generali intraprese dall'Agenzia delle Entrate per implementare una legge che istituisce una tassa, anche se si limitano a dare direttive operative per il pagamento del tributo stesso, possono essere prontamente contestate davanti a un giudice amministrativo. Di conseguenza, è stato riconosciuto che esiste un margine di intervento significativo del giudice amministrativo anche in materia fiscale; ed è stato precisato che è sempre possibile opporsi alle azioni generali dell'Agenzia delle Entrate davanti a un giudice amministrativo, senza dover attendere la successiva contestazione degli atti fiscali davanti a un giudice tributario.

Il caso che ha scatenato la controversia riguarda una società che ha fatto ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) per contestare i provvedimenti dell'Agenzia delle Entrate in attuazione del contributo straordinario previsto dall'art. 37 del decreto-legge 21/2022.

I provvedimenti contestati includono il Provvedimento del Direttore dell'Agenzia del 17 giugno 2022, la Circolare n. 22/E del 23 giugno 2022 e la Risoluzione n. 29/E del 20 giugno 2022. La società ha messo in discussione la legalità di questi provvedimenti, affermando che erano in conflitto con la legge vigente e che violavano i suoi diritti legittimi.

Un aspetto chiave della controversia era la giurisdizione competente per affrontare la questione. Secondo l'art. 7, comma 1, del codice di procedura amministrativa, la giurisdizione amministrativa è competente per le «controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi [...] concernenti l'esercizio [...] del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti [...] posti in essere da pubbliche amministrazioni». [5]

Il Consiglio di Stato, a fronte dei dubbi sorti sulla valenza di atto generale o meno delle circolari e delle risoluzioni ha sostanzialmente statuito che le Corti di Giustizia Tributaria possono disapplicare tutti gli atti amministrativi non solo quelli generali e di converso tutti gli atti amministrativi sono impugnabili innanzi alla giurisdizione amministrativa.

Le parti coinvolte nel caso, tra cui l'Agenzia delle Entrate, il Ministero dell'economia e delle finanze, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e l'Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA), hanno fatto ricorso alla Suprema Corte di Cassazione, sostenendo che i provvedimenti contestati non costituivano esercizio di potere amministrativo discrezionale e che non generavano interessi legittimi tutelabili davanti al giudice amministrativo o al giudice tributario.

Nel caso specifico, l'art. 37, comma 5, del decreto-legge 21/2022 aveva assegnato all'Agenzia delle Entrate solo una competenza attuativa per il contributo per il caro energia, con la fissazione del suo importo già stabilita dalla legge stessa. L'Agenzia sosteneva di avere solo un compito gestionale del tributo, senza alcun potere autoritativo di integrare le norme primarie.

La Corte di Cassazione ha stabilito che il provvedimento direttoriale dell'Agenzia delle Entrate, incidendo sulle norme primarie, è impugnabile davanti al Giudice amministrativo. Ha, inoltre, affermato che la natura discrezionale o vincolata dell'atto non è un presupposto necessario per stabilire la competenza giurisdizionale del giudice amministrativo. Basta che si tratti di un atto autoritativo emesso da una pubblica amministrazione.

Ancora, la Cassazione ha sottolineato che l'azione proposta dalla società costituiva una forma di tutela preventiva contro i provvedimenti amministrativi generali rispetto agli atti impositivi o di riscossione individuali.[6] Questa azione di annullamento preventivo è prevista dall'art. 7, commi 1-4, del codice di procedura amministrativa e dall'art. 7, comma 5, del Decreto Legislativo 546/1992.

La Corte ha quindi confermato la giurisdizione amministrativa nella controversia, sottolineando che l'esercizio del potere discrezionale dell'Agenzia delle Entrate costituisce il presupposto generale dell'azione fiscale concreta e che la situazione soggettiva derivante da questo esercizio deve essere qualificata come interesse legittimo.

Non c'è dubbio che l'aspetto più rilevante della controversia riguarda il ruolo delle circolari emesse dall'Agenzia delle Entrate.

Tuttavia, in alcune situazioni, sorgono questioni sulla corretta interpretazione delle circolari. La Cassazione ha sottolineato che le circolari sono pareri dell'Amministrazione non sono vincolanti anche se contengono direttive agli uffici subordinati.

Le conclusioni della Cassazione in questo caso hanno implicazioni significative per il sistema giuridico italiano. La decisione conferma la giurisdizione amministrativa nelle controversie relative ai provvedimenti amministrativi generali emessi da agenzie fiscali come l'Agenzia delle Entrate. Inoltre, stabilisce che l'azione preventiva contro tali provvedimenti è legittima e può essere intrapresa davanti al giudice amministrativo.

L'Agenzia delle Entrate dovrebbe redigerle con la massima, per vitare ambiguità che potrebbero creare contenzioso e danni civili ed erariali.

Le decisioni giudiziarie hanno un peso che trascende il caso specifico. È stato precisato dalle Sezioni Unite che le azioni amministrative generali intraprese dall'Agenzia delle Entrate per implementare una legge che istituisce una tassa, anche se si limitano a dare direttive operative per il pagamento della tassa, devono essere prontamente contestate davanti a un giudice amministrativo. Di conseguenza, è stato riconosciuto che esiste un margine di intervento significativo del giudice amministrativo anche in materia fiscale; ed è stato precisato che è sempre possibile opporsi alle azioni generali dell'Agenzia delle Entrate davanti a un giudice amministrativo, senza dover attendere la successiva contestazione degli atti fiscali davanti a un giudice tributario.

Circolari e risoluzioni amministrative

Le recenti sentenze delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione hanno esaminato la natura dei provvedimenti del Direttore dell'Agenzia delle Entrate, le circolari e le risoluzioni. Hanno affermato che tali provvedimenti regolano gli aspetti pratici dell'attuazione del meccanismo previsto per legge. Sono atti amministrativi generali, non contengono una pretesa fiscale sostanziale e quindi non sono impugnabili né davanti al Giudice amministrativo, né davanti al giudice tributario.

Secondo l'art. 7, comma 1, del codice di procedura amministrativa, le controversie che riguardano l'esercizio del potere amministrativo e che coinvolgono provvedimenti e atti posti in essere da pubbliche amministrazioni sono devolute al TAR.

L'Agenzia delle Entrate ha insistito per l'esclusione di qualsiasi giurisdizione in materia di circolari, individuando nell'azione impugnatoria una aggressione giudiziale ai compiti interpretativi delle circolari finalizzati alla attuazione delle norme primarie.

Il pericolo di un "vuoto di tutela" ha spinto la giurisprudenza l'anticipazione della tutela del cittadino, sin dal momento di individuazione dell'insorgenza dell'interesse legittimo ad essa prodromico. Tale esigenza di anticipazione appare facilmente ricollegabile al rischio che la questione di legittimità costituzionale già sollevata, ove pure trovasse accoglimento, possa rinvenire uno scomodo precedente nella sentenza n. 10/2015 della Corte Costituzionale.

La sentenza, con l'effetto di rendere il tributo già pagato non rimborsabile, è stata emessa in considerazione di esigenze generiche di mantenimento dell'equilibrio del bilancio, ritenute prevalenti. Spesso si vedono funzionari che, citando circolari ministeriali per difendere la propria attività amministrativa, ritengono che l'amministrazione abbia sempre ragione e il contribuente sia sempre nel torto.

Tuttavia, a differenza del passato, i giudici della Corte di Cassazione sono intervenuti sottolineando che i funzionari non hanno sempre ragione! La Cassazione ha ricordato che le circolari ministeriali non sono paragonabili alle leggi e, di conseguenza, non possono essere utilizzate come norme vincolanti o come prassi di rango normativo inferiore.

Le circolari non possono essere utilizzate nemmeno per l'interpretazione delle norme da applicare ai contribuenti, ma hanno validità solo interna, cioè come linee guida, per i funzionari dell'amministrazione finanziaria che devono seguire precise istruzioni interne per svolgere correttamente il proprio lavoro amministrativo. Da ciò deriva che le circolari rappresentano una protezione per il contribuente, in quanto impongono ai dipendenti pubblici determinate norme di comportamento nel rispetto delle leggi e dei cittadini. Il contrasto tra norme di legge e prassi amministrativa si risolve sempre a favore delle norme di legge, sia a favore che contro il contribuente.

In particolare, chiarisce che le sentenze devono essere emesse dai giudici in seguito all'osservanza e all'interpretazione delle norme di legge. Le circolari o le istruzioni rilasciate dai ministeri non hanno valore legale.

Pertanto, dato che le circolari hanno un valore vincolante solo internamente agli uffici, si pone il dubbio se la stessa amministrazione finanziaria possa poi contestare in giudizio il loro valore esterno nei confronti del contribuente.

La Cassazione, a conferma del suo orientamento, aveva constato che nel corso di un giudizio era stata emessa una sentenza a favore del contribuente basando la decisione sul contenuto di una circolare ministeriale. La Cassazione, invece, aveva ritenuto che i giudici non potessero basare il proprio giudizio sulla circolare interpretativa illegittima e che avrebbero dovuto decidere esclusivamente sulla base della norma di legge.

I giudici supremi, quindi, avevano rinviato la sentenza alla Commissione Tributaria Regionale in altra composizione, sottolineando che, nonostante la sentenza fosse sfavorevole alla difesa, il contribuente avrebbe potuto comunque difendersi con tutti i mezzi di prova a sua disposizione.

In questo modo, il giudice avrebbe giudicato esclusivamente nel rispetto delle norme di legge applicabili, ignorando le istruzioni amministrative. Del resto, sono numerosi i casi in cui l'Agenzia delle Entrate ha avuto la pretesa di avere ragione:

Questi sono solo alcuni esempi, ma ci sono molti altri casi in cui le circolari dell'agenzia delle entrate sono state ritenute non conformi alla legge. Le circolari non sono vincolanti né per i contribuenti né per i giudici, e non costituiscono fonte del diritto. Pertanto, se si è subito un pregiudizio a causa dell'applicazione di una circolare che si ritiene errata o illegittima, si può sempre impugnare l'atto amministrativo o tributario che ne deriva, e chiedere al giudice di annullarlo o di riconoscere il diritto.

Secondo l'art. 23 della Costituzione, nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base a una legge dello Stato. Da questo principio deriva che solo la legge, e mai un atto amministrativo (come le Circolari, Direttive o Risoluzioni del MEF) può imporre un tributo o comunque determinare aliquote o basi imponibili che aumentino l'onere fiscale per il contribuente. È opportuno ricordare che, già, il disposto dall'art.5 della Legge n.2248 del 20 marzo 1865, All. E (Abolizione del contenzioso amministrativo stabiliva che le autorità giudiziarie avrebbero applicato gli atti amministrativi e i regolamenti generali e locali in quanto conformi alle leggi. Questo principio è, oggi, pacificamente affermato in varie sentenze della Corte Costituzionale (sent. 204/04- 281/04 e 191/06) la quale, inoltre, proprio in occasione della dichiarazione di incostituzionalità dell'art.39/5 del D.L. 98/2011, di cui si è parlato in precedenza, ha ribadito che l'evidente fine di incrementare il gettito di imposta non può rendere costituzionalmente legittime le norme di legge che violino, come l'art.39, comma 5 citato, principi costituzionali. In effetti, l'attività della Pubblica Amministrazione deve essere svolta nel rispetto della legge e dei regolamenti e si manifesta attraverso l'emissione di atti e provvedimenti che sono espressione del potere amministrativo per la cura concreta di interessi pubblici con effetti diretti su singoli soggetti o anche su un insieme di destinatari determinati o almeno determinabili.

I provvedimenti amministrativi generali devono essere chiaramente distinti dai regolamenti, che pur essendo atti soggettivamente amministrativi, in quanto emanati da organi del potere esecutivo, "sono espressione di un potere normativo attribuito all'Amministrazione, secondario rispetto al potere legislativo, e regolano in astratto tipi di rapporti giuridici attraverso una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma comunque innovativa rispetto all'ordinamento giuridico esistente, con precetti aventi i caratteri della generalità e dell'astrattezza" (Cass. S.U. 10124/1994).

Completamente diversi, per natura ed effetti, dai regolamenti e dai provvedimenti della P.A. sono i cosiddetti documenti di prassi (Circolari, Direttive e Risoluzioni) che non hanno né carattere né efficacia normativa, in quanto privi del potere di innovare l'ordinamento giuridico e nemmeno valore provvedimentale, poiché non hanno come destinatari soggetti estranei all'amministrazione, ma costituiscono atti diretti agli organi ed uffici periferici sottordinati con cui l'Amministrazione fornisce indicazioni interpretative e istruzioni sulle modalità con cui i propri dipendenti ed uffici devono comportarsi.

Pertanto, i cosiddetti documenti di prassi non costituiscono atti amministrativi in senso proprio ma solo il mezzo per portare a conoscenza dei destinatari disposizioni interne di carattere organizzativo, interpretativo o informativo: si tratta di atti interni alla P.A. che hanno efficacia solo indiretta nei confronti dei rapporti con i soggetti esterni nella misura in cui possono influire sui provvedimenti della P.A. che ne fanno applicazione.

Nella sentenza del Consiglio di Stato n.7521/2010 si osserva che "…tali atti non rivestono una rilevanza determinante nella genesi dei provvedimenti che ne fanno applicazione.

Nella sentenza n. 5137/2014 della sezione tributaria della Cassazione si ricorda che, secondo il consolidato principio della giurisprudenza del Giudice di legittimità, «…l'Amministrazione finanziaria non ha poteri discrezionali nella determinazione delle imposte dovute e, di fronte alle norme tributarie, detta Amministrazione ed il contribuente si trovano su un piano di parità, per cui la cosiddetta interpretazione ministeriale, sia essa contenuta in circolari o in risoluzioni, non vincola né i contribuenti né i giudici, né costituisce fonte di diritto; gli atti ministeriali medesimi, quindi, possono dettare agli uffici subordinati criteri di comportamento nella concreta applicazione di norme di legge, ma non possono imporre ai contribuenti nessun adempimento non previsto dalla legge né, soprattutto, attribuire all'inadempimento del contribuente alle prescrizioni di detti atti un effetto non previsto da una norma di legge»[7]. Di conseguenza, il giudice che esamina il ricorso contro un provvedimento emesso in esecuzione di un documento di prassi illegittimo dovrà limitarsi a disapplicare, anche d'ufficio, il suddetto documento illegittimo (Consiglio di Stato, sentenza n. 1894/2003). L'unico effetto esterno di un documento di prassi illegittimo è quello previsto dall'articolo 10 della Legge n.212/2000 (Statuto del Contribuente). Questo articolo esclude l'applicabilità di sanzioni e interessi nei confronti del contribuente che "si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell'amministrazione finanziaria". In altre parole, se un contribuente ha seguito le indicazioni contenute in un documento di prassi, anche se questo si rivela essere illegittimo, non può essere soggetto a sanzioni o interessi. Questa disposizione serve a proteggere i contribuenti che agiscono in buona fede seguendo le indicazioni fornite dall'amministrazione finanziaria.

D'altronde, il valore giuridico delle circolari è sostanzialmente conforme nella gran parte dei Paesi Europei: In Germania, le circolari non hanno valore di fonti del diritto. A differenza delle leggi, le circolari sono atti interni e vincolano solo i dipendenti della P.A. Per cui, mentre le leggi sono obbligatorie per tutti i cittadini e le istituzioni, le circolari hanno validità limitata all'ordinamento interno dell'organizzazione che le emette e non si applicano agli estranei. In breve non hanno valore giuridico autonomo, ma forniscono interpretazioni e indicazioni operative.

In Francia, le circolari non hanno valore di fonti del diritto e non si applicano ai terzi che si raffrontano con essa.

In Grecia, le circolari amministrative non hanno valore di fonti del diritto. Pertanto, non sono indirizzate ai cittadini, ma solo agli operatori pubblici, e non li vincolano.

In Portogallo, le circolari amministrative non hanno valore di fonti del diritto. Pertanto non sono indirizzate ai cittadini, ma solo agli operatori pubblici, e non li vincolano.

In Inghilterra, le circolari amministrative (tradotte come "administrative Circular", specificano ulteriormente le regole e le procedure per l'assunzione e la promozione interna all'interno di un'organizzazione o di un ente pubblico. Tuttavia, non hanno valore normativo e provvedimentale e non vincolano i cittadini.

In conclusione, pur concordando sulla correttezza del principio giuridico enunciato dalla Cassazione, condannare un contribuente che ha agito in conformità con le circolari, in un sistema privo di certezza del diritto come quello italiano, appare come un'ingiustizia oggettiva. Non si vuole creare un alibi generalizzato a favore dei contribuenti colpevoli di evasione fiscale, ma è evidente che gli errori che hanno portato a comportamenti sanzionabili risiedono a monte: in un sistema globale che non garantisce certezze, e nell'operato dei tecnici che non sono in grado di scrivere le norme e di fornirne interpretazioni corrette. Piuttosto che di affrontare i veri colpevoli e correggere i loro errori, si aspetta che il contribuente paghi per gli errori commessi dall'intero apparato statale. Questo è inaccettabile.

Circolari e risoluzioni illegittime e risarcimento danni

Da tempo immemorabile (S.U. sent.722/1999) e anche di recente (S.U. 15593/2014 e 20426/2016), la giurisprudenza di legittimità ha ricordato che «L'attività della P.A., anche nel campo tributario, deve svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge, ma anche dalla norma primaria del neminem ledere, per cui è consentito al giudice ordinario - al quale è pur sempre vietato stabilire se il potere discrezionale sia stato, o meno, opportunamente esercitato - accertare se vi sia stato da parte della stessa amministrazione un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo; infatti, stanti i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione, dettati dall'art.97 Cost., la P.A. è tenuta a subire le conseguenze stabilite dall'art.2043 c.c., atteso che tali principi si pongono come limiti esterni alla sua attività discrezionale, ancorché il sindacato di questa rimanga precluso al giudice ordinario Cass. S.U. 5477/1955)».

Una volta affermato il principio che anche l'Amministrazione finanziaria deve rispettare la regola del neminem ledere, stabilita dall'art. 2043 c.c., e che l'emissione di provvedimenti tributari illegittimi comporta l'obbligo per la stessa di risarcire i danni causati, rimane da determinare quale sia il giudice competente per la domanda di risarcimento dei danni e come questi danni possano essere quantificati.

È importante ricordare che la giurisdizione si determina sulla base della domanda proposta e che, ai fini della ripartizione della giurisdizione tra il giudice ordinario e il giudice speciale, ciò che conta non è la prospettazione delle parti, ma il petitum sostanziale, che deve essere individuato in funzione della causa petendi, ovvero con riferimento alla natura della posizione dedotta in giudizio e alla protezione accordata ad essa in astratto dal diritto.

Ne consegue che se in giudizio è dedotta una lesione patrimoniale derivante da un comportamento illecito dell'amministrazione finanziaria per un rapporto tributario già esaurito, e non esiste alcuna connessione attuale tra questo e la lesione patrimoniale, la giurisdizione deve essere attribuita al giudice ordinario, poiché la domanda non riguarda il rapporto tributario, requisito necessario per ritenere sussistente la giurisdizione tributaria, pena la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali[8].

Nell'ipotesi diversa, invece, in cui la pretesa risarcitoria avanzata presenti un nesso causale immediato e diretto con il rapporto tributario impugnato, che non sia esaurito ma anzi costituisca l'oggetto del giudizio, la giurisdizione deve essere attribuita al giudice tributario poiché la predetta domanda risarcitoria deve essere ricondotta nell'ambito dell'art.96 c.p.c., in tema di responsabilità aggravata, norma che, come già autorevolmente ritenuto (S.U. 13899/2013) "a) è applicabile al processo tributario, in virtù del generale rinvio di cui all'art.1, comma 2, del d.lgs. n.546/92; b) regola tutti i casi di responsabilità risarcitoria per atti o comportamenti processuali, ponendosi con carattere di specialità rispetto all'art.2043 cod. civ.; c) non detta tanto una regola sulla competenza, ma disciplina piuttosto un fenomeno endoprocessuale, prevedendo che la domanda è proponibile solo nello stesso giudizio dal cui esito si deduce l'insorgenza della detta responsabilità, non solo perché nessun giudice può giudicare la temerarietà processuale meglio di quello stesso che decide sulla domanda che si assume, per l'appunto, temeraria, ma anche e soprattutto perché la valutazione del presupposto della responsabilità processuale è così strettamente collegata con la decisione di merito da comportare la possibilità, ove fosse separatamente condotta, di un contrasto pratico di giudicati[9]".

Di fatto, il principio della Suprema Corte è stato recepito dal legislatore che, con l'introduzione (effettuata con il Dlgs 156/2015 a decorrere dal 01/01/2016) del comma 2 bis nell'art.15 del Dlgs 546/92, ha espressamente disposto che nel processo tributario "Si applicano le disposizioni di cui all'art.96, commi primo e terzo, del codice di procedura civile". Queste disposizioni, che disciplinano entrambe la condanna per la cosiddetta lite temeraria, prevedono rispettivamente: 1) la condanna, su istanza della parte avversa, oltre che alle spese, anche al risarcimento dei danni per colui che "ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave", danni che il giudice liquida anche di ufficio; 2) la possibilità che la parte soccombente sia comunque condannata, anche di ufficio, al pagamento, in favore dell'altra parte, di una somma equitativamente determinata.

Mentre la seconda ipotesi di lite temeraria configura evidentemente una sanzione per la parte che abbia fatto evidente abuso del processo, non sembra possa dubitarsi che con la prima il legislatore, prendendo atto delle decisioni giurisprudenziali, abbia ufficialmente ampliato la giurisdizione tributaria in essa introducendo anche la domanda risarcitoria che sia direttamente connessa con la dichiarata illegittimità del provvedimento tributario.

Si è verificato, nell'ambito della giurisdizione tributaria, un fenomeno non dissimile da quanto già avvenuto nell'ambito della giurisdizione amministrativa. È utile ricordare, infatti, che originariamente non era consentito al giudice amministrativo decidere sulla domanda di risarcimento dei danni proposta dal ricorrente e che solo dopo coraggiosi interventi della Cassazione, che aveva ipotizzato la denegata giustizia nella giurisdizione amministrativa per l'impossibilità di decisione sulle istanze risarcitorie proposte dal ricorrente, intervenne il legislatore che, con l'art.7, comma 4, del D.lgs. 104/2010 (C.P.A.), dispose che il G.A. può conoscere della domanda di risarcimento del danno collegato all'esercizio di un potere autoritativo.

L'ampliamento della giurisdizione del Giudice Amministrativo anche alla materia risarcitoria è chiaramente giustificabile in considerazione dei principi del giusto processo e della ragionevole durata dello stesso, essendo più che evidente che il giudice che conosce l'atto illegittimo è quello più idoneo a conoscere anche dei danni da esso prodotti, evitandosi così all'utente della giustizia di adire diverse giurisdizioni con i conseguenti inevitabili sprechi di tempo e di risorse economiche, evitandosi altresì il concreto pericolo di contrasto di giudicati.

Il problema, in effetti, si poneva in termini non dissimili per il processo tributario per il quale però la giurisprudenza si dimostrava contraria per il timore che fosse violato l'art. 102, secondo comma, e la VI Disp. Transit. della Costituzione che vietano l'istituzione di giudici speciali. Tuttavia, si trattava di un timore infondato poiché quando il danno sia una diretta conseguenza del provvedimento impugnato e la domanda risarcitoria sia limitata all'ipotesi di annullamento dell'atto, non è ravvisabile alcuno snaturamento della giurisdizione tributaria che, in quanto avente ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, ex art. 2, comma 1, D.lgs. 546/92, deve ricomprendere anche i diritti patrimoniali che conseguono alla dichiarazione di annullamento dell'atto tributario.

È importante sottolineare che la giurisdizione del Giudice Ordinario rimane invariata nel caso in cui l'atto tributario sia già stato annullato indipendentemente dal G.T. o comunque vi sia solo un nesso di occasionalità tra l'atto tributario e il danno.

Già prima dell'entrata in vigore del D.lgs. 156/2015, che ha ufficialmente introdotto nel processo tributario la cosiddetta responsabilità aggravata per lite temeraria, era stato affermato che «Rientra nella giurisdizione tributaria la domanda diretta al risarcimento dei danni subiti a causa dei ritardati rimborsi di imposte indebitamente versate. Il contribuente danneggiato dal ritardo dell'Amministrazione finanziaria può chiedere il risarcimento e deve farlo con istanza alla Commissione tributaria provinciale competente a valutare e liquidare ogni tipo di richiesta accessoria presentata dal contribuente» (Cass S.U. 14499/2010) e che «Il giudice tributario può conoscere anche la domanda risarcitoria proposta dal contribuente ai sensi dell'art. 96 c.p.c. potendo, inoltre, liquidare in favore di quest'ultimo, se vittorioso, il danno derivante dall'esercizio, da parte dell'Amministrazione finanziaria, di una pretesa impositiva temeraria, in quanto caratterizzata da mala fede o colpa grave, con conseguente necessità di adire il giudice tributario, atteso che il concetto di responsabilità processuale deve essere inteso come comprensivo anche della fase amministrativa che, qualora ricorrano i predetti requisiti, ha dato luogo all'esigenza di instaurare un processo ingiusto» (Cass. S.U. 13899/2013).

Per l'affermazione della responsabilità aggravata, che è un'azione speciale di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., si richiede una precisa domanda della parte vittoriosa nonché l'esistenza, nella parte avversa, dell'elemento psicologico che consiste nell'avere azionato la propria pretesa o resistito a quella avversaria con mala fede o colpa grave, ovvero con la consapevolezza dell'infondatezza della domanda o dell'eccezione, oppure senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la consapevolezza dell'infondatezza della propria posizione, e comunque "senza compiere alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione, con criteri e metodi di scientificità, il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla singola fattispecie concreta" (Cass.3376/2016).

Per quanto riguarda poi l'entità dei danni subiti, si rileva che l'obbligazione tributaria è pur sempre una obbligazione pecuniaria (essendo irrilevante la natura pubblica di una delle parti) per la quale trova applicazione l'art. 1224 c.c. che testualmente dispone che "1) Nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di avere sofferto alcun danno. 2) I creditore che dimostrano di avere subito un danno maggiore spetta un ulteriore risarcimento oltre la mora a meno che non sia stata convenuta la misura degli interessi moratori.

Nell'ipotesi di lite temeraria si deve sempre considerare presente la mora del debitore. Come costantemente e autorevolmente ritenuto da tempo, «la mora del debitore presuppone solo l'attualità e l'esistenza dell'obbligazione, non rilevando invece che il credito - in termini di quantità e importo - sia o possa essere contestato dal debitore. È opportuno ricordare che […] la liquidità del debito non è una condizione necessaria per la costituzione in mora, non trovando il principio in illiquidis non fit mora applicazione nel nostro ordinamento giuridico, in tema di pagamento. Pertanto, esiste la mora del debitore, ovvero il ritardo colpevole di lui nell'adempimento, quando la mancata o ritardata liquidazione è conseguente alla condotta ingiustificatamente dilatoria del debitore e, in generale, al fatto doloso o colposo di lui, quale è il suo illegittimo comportamento processuale per avere egli, a torto, contestato in radice la propria obbligazione.

Partendo da questo presupposto, si osserva che al contribuente in grado di dimostrare che, a causa di un provvedimento tributario dichiarato illegittimo, abbia subito un pregiudizio maggiore di quello corrispondente agli interessi dovuti a lui, deve essere riconosciuto, in base al comma secondo dell'art. 1224 c.c., il maggior danno che sia derivato dall'impossibilità di disporre della somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui la detta disponibilità lo avrebbe messo in grado di evitare o almeno ridurre gli effetti negativi che l'inflazione produce a carico di chi possiede denaro.

Data la disposizione testuale della norma di cui all'art. 96, primo comma, c.p.c., (il giudice condanna […] al risarcimento dei danni che liquida, anche di ufficio) si ritiene che il giudice possa liquidare, in via equitativa, anche il danno materiale (art. 2043 c.c.), ulteriore rispetto a quello della rivalutazione, consistente, tra l'altro, nelle spese che normalmente si sostengono per consultare il commercialista, per le varie trasferte verso l'ufficio dell'A.F., nonché quelle accessorie e consequenziali sostenute per conferire con la stessa, nonché il cosiddetto danno esistenziale (art. 2059 c.c.) tenendo conto dello stress e patema d'animo subito dal danneggiato.

Infatti, secondo l'antico, ma sempre attuale, insegnamento giurisprudenziale «una volta accertata la ricorrenza della responsabilità aggravata non è necessario che l'interessato deduca e dimostri uno specifico danno, potendo desumersi detto danno da nozioni di comune esperienza» (Cass.1031/2001).

Atti politici e di Alta Amministrazione

La giurisprudenza ha voluto evitare un vuoto di tutela la cui conferma si rinviene nell'art. 7 del Processo Amministrativo che consente la legislazione di tutti gli atti a eccezione solo di quelli di Alta Amministrazione.

Secondo l'art. 7, comma 1, del codice di procedura amministrativa, gli atti o provvedimenti emessi dal Governo nell'esercizio del potere politico non sono impugnabili. Questa norma stabilisce quindi l'immunità dell'atto politico da qualsiasi contestazione. La regola da alcuni studiosi è stata ritenuta in contrasto con l'art. 113 della Costituzione, che prevede in ogni casso la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi.

Tuttavia, l'immunità dell'atto politico è pienamente giustificata, anche dal punto di vista costituzionale, dall'esigenza di garantire il principio di separazione dei poteri e quindi di proteggere il confine inviolabile che separa la funzione amministrativa dalla funzione politica del Governo. L'atto politico, infatti, è un atto libero nel suo scopo, il che implica l'assenza di un parametro giuridico su cui effettuare un controllo di legittimità.

È evidente che è necessario definire con molta cura la nozione di atto politico, perché classificare un atto in questa categoria implica la sua immunità e quindi il rifiuto di una tutela impugnatoria. Inoltre, gli atti politici contengono normalmente direttive di carattere generale che delineano gli obiettivi programmatici dell'attività pubblica. Di conseguenza, è improbabile che un atto politico possa essere immediatamente lesivo della posizione dei singoli, mentre sarà più facile riconoscere l'interesse ad agire in relazione agli atti attuativi a valle.

L'immunità dell'atto politico è pienamente giustificata, anche dal punto di vista costituzionale, perché l'atto politico è un atto libero nel suo scopo, il che implica l'assenza di un parametro giuridico su cui effettuare un controllo di legittimità.

È evidente che è necessario definire con molta cura la nozione di atto politico, perché classificare un atto in questa categoria implica la sua immunità e quindi il rifiuto di una tutela impugnatoria.

Gli atti di alta amministrazione si distinguono dagli altri atti amministrativi generali, per una discrezionalità amministrativa molto ampia, ma ciò non toglie, che essi siano pure sindacabili.

Gli atti di Alta Amministrazione sono, come già detto, impugnabili, ma le censure sono individuabili direttamente nell'art. 97 della Costituzione ed è sufficiente una motivazione particolarmente semplificata.

L'ordinanza n. 15886 del 6 giugno 2024 della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha, di recente, ribadito il principio che le circolari, le risoluzioni non hanno valore vincolante né per i giudici né per i contribuenti. Tale principio riguarda la valenza delle circolari emesse dall'amministrazione finanziaria, la quale non può determinare l'ammontare, il modo e il momento della prestazione tributaria gravante sul contribuente ma deve limitarsi ad attuare il dettato normativo, previa interpretazione delle disposizioni rilevanti. La Corte inoltre ha precisato che, in caso di contenzioso, spetta al giudice l'interpretazione del significato corretto da attribuire alle disposizioni senza che abbia rilievo decisivo l'orientamento dell'amministrazione, anche se espresso in atti formali come una circolare. Questo principio, ampiamente assodato, è stato talvolta causa di controversie tributarie che, nella maggior parte dei casi, si sono concluse in modo favorevole al contribuente.

Questi effetti pratici possono avere un impatto significativo sulle controversie tributarie e sulla relazione tra i contribuenti e l'Amministrazione finanziaria. La pronuncia della Corte di Cassazione, ordinanza n. 15886 del 6 giugno 2024, ha avuto e avrà un impatto significativo sulla comunità giuridica e sulle controversie fiscali ancora in corso.

In particolare:

1. Riduzione del potere dell'Agenzia delle Entrate: Le circolari non possono più essere utilizzate come base per interpretazioni in materia tributaria vincolanti per i terzi. Questo significa che i contribuenti e l'amministrazione fiscale devono fare riferimento alle disposizioni legislative per determinare gli obblighi e i diritti fiscali.

2. Fondamento esclusivo sulla legge: Le controversie fiscali devono ora essere definite in base alle norme di legge. Pertanto, nessun contenzioso potrà essere risolto sulla base di circolari interpretative.

3. Rischio di invalidità delle circolari: Le circolari emesse in contrasto con l'ordinanza potrebbero essere considerate invalide. Pertanto, i contribuenti possono contestare l'applicazione di circolari che non rispettano il principio stabilito dall'ordinanza.

In sintesi, l'ordinanza rafforza la centralità della legge e limita l'autonomia interpretativa delle circolari amministrative nelle controversie fiscali.


[1] protocollo 2005/30/25079 del 31/5/2005

[2] L'Agenzia delle Entrate non solo ha sempre respinto l'idea che i propri atti fossero giuridicamente sindacabili, ma ha, anche, sempre dato battaglia su questo versante, per indurre i contribuenti a piegarsi alle sue richieste, per evitare di impelagarsi in un lungo e costoso contenzioso.

[3] De Mita, Ma le istruzioni restano fondamentali nella pratica, in Il sole 24 ore del 6 novembre 2007

[4] n. 29023, 29026, 29035, 29042, 29059, 29072, 29083, 29093, 29103 e 29106 del 2023

[5] L'Agenzia delle Entrate non ha mai gradito la sindacabilità dei propri atti, ma la situazione è diventata più odiosa per L'Agenzia, quando si è passati dalla disapplicazione dell'atto, all'impugnativa devoluta piena innanzi alla giurisdizione amministrativa.

[6] Le misure cautelari costituiscono ormai da anni parte integrante del nostro sistema processuale: Processo Civile, Processo Amministrativo. È il rifiuto dell'Agenzia di misure cautelari preventive che fanno dubitare dell'imparzialità della parte pubblica.

[7] Cass. 11931/1995, 14619/2000, 21154/2008

[8] S.U. 20323/2012 e 3773/2014

[9] Cass.9297 e 12952 del 2007, 18344 e 26004 del 2010

Data: 04/07/2024 07:00:00
Autore: Francesco Filippo Tigano