Diritto alla privacy: dalle origini ai giorni nostri
Derivato dal latino privatus, "messo da parte" o "appartenente a sé stessi", il termine privato si contrapponeva a publicus, "pubblico", e communis, "comune, condiviso", indicando originariamente ciò che era di proprietà esclusiva dell'individuo, distinto da ciò che apparteneva alla collettività o allo Stato. La parola comparve per la prima volta in lingua inglese nel XIV secolo, private, periodo in cui l'inglese medievale stava assimilando diverse influenze linguistiche, tra cui il francese normanno, che influenzò profondamente l'inglese antico, portando con sé molti termini di origine latina. Sebbene originariamente legato alla proprietà e all'individualità, il termine ha acquisito con il tempo un significato più ampio, comprendendo anche la nozione di riservatezza, che ha assunto un'importanza sempre maggiore nei periodi successivi.
Le radici antiche della privacy: dalle civiltà classiche al Medioevo
Nonostante non esista una definizione universalmente accettata di privacy, il concetto varia in base al contesto giuridico, culturale e tecnologico, in termini generali può essere definita come il diritto di ogni individuo di controllare le proprie informazioni personali, decidendo in che misura, con chi e quando condividerle. A livello internazionale, vi è un forte consenso sull'importanza della sua tutela, considerata parte integrante dei diritti umani e fondamentale per proteggere la dignità, la libertà e l'indipendenza delle persone. L'accelerazione della digitalizzazione e lo sviluppo delle tecnologie di raccolta e trattamento dei dati hanno introdotto nuove sfide, sollevando questioni su come bilanciare il progresso con il diritto all'autodeterminazione e alla riservatezza. Non si tratta solo di un tema giuridico, ma di una questione che coinvolge diritti fondamentali, legati alla salvaguardia dell'autonomia e dell'integrità individuale, affinché siano rispettati in un mondo sempre più interconnesso.
Formalmente riconosciuto solo nel XIX secolo, le sue radici affondano nelle società antiche. Nella Bibbia, vi sono esempi che possono essere interpretati come violazioni della privacy in forme primordiali, accompagnate da emozioni come vergogna, rabbia e senso di invasione. In ambito giuridico, il Codice di Hammurabi, una delle prime raccolte sistematiche di leggi risalenti al 1750 a.C. circa, includeva norme volte a proteggere la proprietà privata e regolamentare le intrusioni nelle abitazioni, sancendo il controllo individuale e la sicurezza domestica.
Nel diritto romano, la protezione della privacy si manifestava attraverso norme sull'inviolabilità del domicilio e delle comunicazioni private. Lo jus dominii, il diritto di proprietà, comprendeva anche il controllo su ciò che accadeva all'interno della propria abitazione, garantendo così una certa tutela della sfera personale. L'actio vi bonorum raptorum, azione relativa a beni sottratti con violenza, proteggeva la casa da intrusioni non autorizzate. Qualsiasi violazione costituiva un illecito punibile severamente, evidenziando l'importanza attribuita al controllo e alla protezione della sfera privata, sebbene la privacy non fosse ancora concettualizzata nei termini moderni.
Anche nella Grecia antica la protezione della privacy era un tema di interesse, sebbene fosse concepita in modo diverso rispetto alle civiltà mesopotamiche o romane. Nella polis greca, la vita pubblica e la visibilità della partecipazione civile erano principi fondamentali, ma, al contempo, la sfera privata, soprattutto quella familiare, godeva di una certa tutela attraverso norme non scritte e prassi sociali. In un contesto in cui la vita politica e sociale era fortemente enfatizzata, la sfera domestica veniva considerata un luogo separato, protetto da intrusioni non giustificate dello Stato o di soggetti esterni. I concetti di """"" (casa) e """""" (proprietà) rivestivano un ruolo centrale nella struttura sociale e legale: """"" non solo abitazione fisica, ma anche unità sociale ed economica che sosteneva la famiglia stessa; """""", patrimonio e proprietà che ne assicuravano il sostentamento e lo status sociale. La separazione tra sfera pubblica e privata, pur in un contesto di forte impegno civico, si traduceva in una protezione implicita delle dimensioni più intime della vita familiare.
Le prime forme di privacy riflettevano la necessità di tutelare l'integrità della sfera domestica e il diritto di controllo sulla propria vita privata. Una dicotomia tra "privato" e "pubblico", derivante dalla naturale tendenza dell'individuo a stabilire un confine tra sé e il mondo esterno, non statico, ma variabile in base all'epoca storica e alla cultura di riferimento.
Nel Medioevo, il concetto di privacy, intesa come sfera intima e separata dalla collettività, non esisteva nel senso moderno del termine. L'individuo era fortemente legato alla comunità, e le sue azioni, sia pubbliche che private, erano costantemente monitorate. La vita privata veniva vissuta sotto il controllo collettivo, e le frontiere tra "privato" e "pubblico" erano molto più sfumate. La comunità rappresentava il centro di ogni attività sociale, specialmente nelle aree rurali, dove la vita familiare e quotidiana si svolgeva quasi interamente in pubblico. Nelle città, la separazione tra spazi privati e pubblici era altrettanto limitata. La Chiesa, che aveva una grande influenza non solo come istituzione religiosa, ma anche come forza politica e sociale, regolava aspetti fondamentali della vita personale. Le autorità ecclesiastiche vigilavano sulla moralità degli individui e intervenivano direttamente nella gestione delle relazioni private, comprese la sessualità e il matrimonio. La privacy non era percepita come un diritto da tutelare, ma come una dimensione subordinata al rispetto delle norme sociali e familiari. Le trasgressioni non venivano viste solo come peccati individuali, ma come offese che danneggiavano la reputazione e l'onore dell'intera famiglia. Le norme consuetudinarie, che regolavano la condotta collettiva, costituivano il principale strumento di controllo sociale. La vita privata non era concepita come una sfera inviolabile, ma era sottoposta alle aspettative e ai principi condivisi della comunità. Ogni comportamento, anche quello più personale, veniva monitorato e giudicato dai membri del gruppo, tra cui capifamiglia, vicini e autorità religiose. Questo controllo non si limitava alle interazioni quotidiane informali, ma veniva sancito anche attraverso atti ufficiali. Esempio erano i Decreta Synodalia, disposizioni stabilite dai sinodi ecclesiastici che delineavano le linee guida per la condotta morale e comportamentale, estendendo l'influenza dell'autorità religiosa nella sfera privata. Sottolineavano il controllo collettivo e l'intreccio tra morale, religione e aspettative sociali, in un contesto in cui la privacy era subordinata al bene comune e al giudizio della comunità.[1]
Privacy: la nascita di un diritto moderno
Pubblicato nella Harvard Law Review nel 1890 da Louis Brandeis (1856-1941), giurista e giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, e Samuel Warren (1852-1910), avvocato e accademico, l'articolo The Right to Privacy [Allegato] è considerato il primo contributo formale a definirne la nozione moderna. In un periodo di rapidi sviluppi tecnologici e sociali, i due autori riconobbero con lucidità le nuove minacce alla privacy individuale, derivanti in particolare dall'espansione della stampa e dalla crescente diffusione della fotografia. L'articolo fu scritto con l'intento di contrastare il giornalismo sensazionalistico che, soprattutto nell'area di Boston, invase la sfera personale di individui pubblici e privati, esponendo dettagli della loro vita privata senza il loro consenso, causando così un danno psicologico e uno stress emotivo spesso più gravi delle semplici lesioni fisiche: "Mental pain and distress, far greater than could be inflicted by mere bodily injury".[2]
L'influenza di questo lavoro fu immediata e duratura: il termine privacy cominciò ad apparire con crescente frequenza nelle discussioni giuridiche e nella legislazione, segnando l'inizio di un nuovo paradigma legale che avrebbe riconosciuto la protezione della vita privata come un diritto fondamentale. Vi era quindi la necessità di una nuova tutela legale che andasse oltre la protezione della sfera materiale, estendendosi alla dimensione personale e intima degli individui. La privacy doveva essere riconosciuta come un valore autonomo e protetto dalla legge. La salvaguardia della riservatezza della corrispondenza e della proprietà non era più sufficiente: il diritto alla privacy doveva essere di carattere generale e universale. Warren e Brandeis, influenzati dal giurista e giudice statunitense T.M. Cooley, adottarono la sua definizione concisa ed efficace: "The right to be let alone", ovvero il diritto di essere lasciati in pace, tratta dal Treatise on the Law of Torts del 1888. Questa definizione divenne il riferimento più sintetico e diffuso per descrivere la privacy come un diritto fondamentale. La concezione di privacy proposta da Warren e Brandeis garantiva agli individui il diritto di decidere fino a che punto i propri pensieri, sentimenti ed emozioni potessero essere condivisi con altri, basandosi sul principio della personalità inviolabile, non solo concetto giuridico, ma riflesso di un dibattito più ampio sulla natura dell'individuo, con radici nella letteratura e nella poesia del XVIII secolo.
"The design of the law must be to protect those persons with whose affairs the community has no legitimate concern, from being dragged into an undesirable and undesired publicity and to protect all persons, whatsoever; their position or station, from having matters which they may properly prefer to keep private, made public against their will".[3]
Warren e Brandeis ritenevano la reputazione di una persona, intesa come il suo prestigio tra i pari, un bene fondamentale che poteva essere violato qualora informazioni personali fossero state rese pubbliche senza il suo consenso o la sua conoscenza. Per delineare i confini del diritto alla privacy, gli autori proposero principi chiave: 1. Il diritto alla privacy non impedisce la pubblicazione di argomenti di interesse pubblico o collettivo. 2. Il diritto alla privacy non vieta la comunicazione di argomenti regolati dalle leggi sulla diffamazione e calunnia. 3. Il diritto alla privacy probabilmente non prevede risarcimento per la sua violazione tramite pubblicazioni orali, in assenza di danni speciali (special damages). 4. Il diritto alla privacy cessa se l'individuo rende pubblici i fatti o se questi vengono pubblicati con il suo consenso. 5. La verità dei fatti non costituisce una difesa per la violazione della privacy. 6. L'assenza di malizia (malice) nella pubblicazione non costituisce una difesa.
Nonostante non potessero prevedere tutte le future applicazioni del diritto alla privacy, avevano comunque anticipato che determinarne l'applicazione nei casi concreti sarebbe stato un compito difficile. Il diritto alla privacy non doveva essere visto come un diritto assoluto che consentisse agli individui di separarsi unilateralmente dalle comunità in cui vivevano. Avevano infatti compreso che in alcune circostanze: "The dignity and convenience of the individual must yield to the demands of the public welfare or of private justice", sottolineando inoltre che qualsiasi norma di responsabilità per interferenza con il diritto alla privacy, dovesse possedere un'elasticità che tenesse conto delle circostanze variabili di ogni caso.
Proposero tuttavia alcune "regole generali" per stabilire la responsabilità legale, applicabili solo a una categoria ristretta di casi che soddisfacevano due criteri: situazioni in cui gli individui avessero legittimamente il diritto di mantenere private determinate informazioni, e che fossero state rese pubbliche contro la loro volontà; e casi in cui tali pubblicazioni non consensuali fossero "al di fuori dei limiti della correttezza". Pur delineando questi principi, riconoscevano che il diritto alla privacy non poteva essere considerato un diritto assoluto. Era necessario bilanciare la protezione della sfera privata con le esigenze del bene pubblico e della giustizia privata. La loro visione era che la dignità e il benessere dell'individuo dovessero, in alcune circostanze, cedere il passo a tali esigenze collettive.
L'articolo fu riconosciuto tra gli storici del diritto come uno dei "classici indiscussi" e uno dei contributi di revisione legale più significativi di tutti i tempi. Da allora, il diritto alla privacy ha ottenuto un'accettazione universale, ha iniziato a prendere forma e nelle nazioni occidentali e si è affermato come un diritto umano fondamentale.[4]
Conclusioni
Il principio secondo cui l'individuo deve godere di protezione nella persona e nella proprietà ha radici profonde nel diritto comune, ma con il passare del tempo si è reso necessario un ripensamento della natura e dell'estensione di tale protezione. Inizialmente, la legge si concentrava esclusivamente sulle interferenze fisiche, limitandosi a tutelare l'individuo da danni materiali e violenze dirette. Il "diritto alla vita'" era concepito come protezione della vita fisica, la libertà come assenza di costrizioni fisiche, e il diritto alla proprietà riguardava principalmente beni materiali. Con l'evoluzione della coscienza sociale e giuridica, si è giunti al riconoscimento della dimensione spirituale e psicologica dell'individuo, comprendendo i suoi sentimenti, la sua intelligenza e la sua privacy. Di conseguenza, l'ambito di questi diritti si è progressivamente ampliato, trasformando il diritto alla vita in un diritto a vivere in serenità e sicurezza, il diritto alla libertà in un ampio spettro di privilegi civili, e il concetto di proprietà in un diritto che abbraccia ogni forma di possesso, tangibile o intangibile, fisico o mentale. Oggi, il diritto alla privacy si inserisce in questo quadro più ampio, mirando a proteggere l'individuo da interferenze esterne che minacciano la sua integrità in ogni sua forma, siano esse fisiche, psicologiche o sociali.
dott.ssa Luisa Claudia Tessore
Note bibliografiche
[1] Komamura K. (2019) Privacy's Past: The Ancient Concept and Its Implications for the Current Law of Privacy. 96 Wash. U. L. Rev. 1337
[2] Warren S. & Brandeis L. D. op. cit., pag. 194-195
[3] Warren, S. & Brandeis, L. D. (1890) Harvard Law Review, Vol. 4, No. 5. pp. 193 -220
[4] Bratman, B.E. (2002) Brandeis and Warren's The Right To Privacy and the Birth of the Right to Privacy. Tennessee Law Review Vol. 69. p. 344
Data: 17/11/2024 07:00:00Autore: Luisa Claudia Tessore