Il TFR in caso di divorzio

Non è sufficiente essersi separati per avere diritto ad una quota del tfr del coniuge avente diritto. Si può tuttavia avere diritto alla quota di tfr dal momento della domanda di divorzio anche se non è ancora intervenuta la sentenza che dichiara la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Attenzione però: la domanda per l'ottenimento della quota di tfr può essere fatta in sede di domanda di divorzio ma l'indennità diventa esigibile solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza. occorre avere riguardo a quanto percepito dopo l'instaurazione del giudizio divorzile, escludendosi quindi eventuali anticipazioni eventualmente riscosse durante la convivenza matrimoniale o la separazione personale, essendo le stesse definitivamente entrate nell'esclusiva disponibilità dell'avente diritto" e che "la quota del trattamento di fine rapporto dell'altro coniuge, riconosciuta dall'art. 12 bis della l. n. 898/1970, a quello titolare dell'assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze, deve liquidarsi sulla base di quanto dal primo riscosso, per tale causale, al netto delle imposte, altrimenti trovandosi lo stesso a doverla corrispondere in relazione ad un importo da lui non percepito siccome gravato dal carico fiscale.
Come e quando richiedere la quota di TFR
Nell'interpretare la norma contenuta nell'art. 12 bis l.div., con giurisprudenza consolidata, ha affermato il principio secondo il quale essa, attribuendo al coniuge cui sia stato riconosciuto l'assegno ex art. 5 della medesima legge (e non sia passato a nuove nozze) il diritto ad una quota dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge "anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza", deve essere interpretata nel senso che il diritto alla quota sorge quando l'indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio e, quindi, anche prima della sentenza di divorzio, implicando ogni diversa interpretazione profili di incostituzionalità della norma stessa (Cass. 10 novembre 2006, n. 24057; 29 settembre 2005, n. 19046; 18 dicembre 2003, n. 19427; 17 dicembre 2003, n. 19309; 7 giugno 1999, n. 5553).
In particolare, è stato sottolineato (Cass. 24057/06 cit.) che la ratio dell'art. 12 bis, è quella di correlare il diritto alla quota di indennità non ancora percepita dal coniuge che ne abbia diritto al diritto all'assegno divorzile, il quale in astratto sorge, ove spettante, contestualmente alla domanda di divorzio, ancorché - di regola - esso venga costituito in concreto e divenga esigibile solo dal momento del passaggio in giudicato della sentenza che lo liquidi, con la conseguenza che ove l'indennità di fine rapporto sia percepita dall'avente diritto dopo la domanda singola o congiunta di divorzio, al definitivo riconoscimento giudiziario della concreta spettanza dell'assegno deve ritenersi riconnessa dall'art. 12 bis, l'attribuzione del diritto alla quota dell'indennità suddetta, la quale potrà essere liquidata con la stessa sentenza di divorzio (in tal senso anche, da ultimo, Cass. n. 21002/2008), ovvero in un distinto, successivo procedimento (così in Cass. 27233/2008).
In tema di divorzio, il sorgere del diritto del coniuge divorziato alla quota dell'indennità di fine rapporto non presuppone la mera debenza in astratto di un assegno di divorzio, e neppure la percezione, in concreto, di un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse fra le parti, ma presuppone che l'indennità di fine rapporto sia percepita dopo una sentenza che abbia liquidato un assegno in base all'articolo 5 della legge n. 898 del 1970, ovvero dopo la proposizione del giudizio di divorzio nel quale sia stato successivamente giudizialmente". liquidato l'assegno stesso.
In tema di divorzio, la formula usata dal legislatore nell'art. 12 bis, aggiunto alla legge n. 898/1970 dall'art. 16 della legge n. 74/1987, per attribuire al coniuge il diritto ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto, è analoga a quella usata dal precedente articolo 9, il quale subordina il diritto alla pensione di reversibilità, ovvero ad una quota di essa, alla circostanza che il coniuge superstite divorziato sia titolare di assegno ai sensi dell'art. 5 della medesima legge, cioè "all'avvenuto riconoscimento dell'assegno medesimo da parte del tribunale" (art. 5 l. 263/2005); ne discende, da ragioni d'ordine logico-sistematico, non potendosi dare, nell'ambito del medesimo testo legislativo e senza alcuna ragione, una diversa interpretazione a norme di uguale tenore, che il sorgere del diritto alla quota dell'indennità di fine rapporto non presuppone la mera debenza in astratto di un assegno di divorzio e neppure la percezione, in concreto, di un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse tra le parti, ma presuppone che l'assegno sia stato liquidato dal giudice nel giudizio di divorzio ai sensi dell'art. 5 citato ovvero successivamente quando si verifichino le condizioni per la sua attribuzione ai sensi dell'art. 9 citato.
La domanda per l'ottenimento della quota di tfr può essere effettuata:
• contestualmente alla domanda di divorzio e di assegno divorzile;
• in un momento successivo in sede di modifica delle condizioni di divorzio, momento in cui il giudice dovrà verificare se vi sono i requisiti per avere il diritto alla quota.
Calcolo della quota di TFR nel divorzio
La modalità di calcolo del trattamento di fine rapporto introdotta dal testo novellato dell'art. 2120 c.c. (ex art. 1 l. n. 297/1982), la quale è basata non più sull'ultima retribuzione del prestatore, ma sui compensi a questo tempo per tempo erogati e periodicamente rivalutati, consente di affermare che il trattamento in questione costituisce un compenso oramai ancorato allo sviluppo economico che ha avuto la carriera del lavoratore. Al trattamento di fine rapporto è così comunemente riconosciuta la natura di retribuzione differita; qualificazioni in passato associate alla vecchia indennità di anzianità - come quella di prestazione previdenziale, o di premio di fedeltà - hanno perduto ogni attualità: la stessa giurisprudenza di legittimità è ferma, oggi, nell'annettere al trattamento di fine rapporto carattere retributivo e sinallagmatico e nel definire, appunto, lo stesso come istituto di retribuzione differita (per tutte: Cass. 164/2016; Cass. n. 11479/2013).
Il secondo comma dell'articolo 12-bis della legge sul divorzio stabilisce come si calcola la quota di tfr cui ha diritto il coniuge divorziato. Bisogna applicare una percentuale pari al quaranta per cento all'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio. Il diritto alla quota di tfr spetta al coniuge anche se il tfr matura dopo la sentenza di divorzio.
In dottrina si è sottolineato come proprio questa connotazione esclusivamente retributiva del trattamento di fine rapporto possa aver indotto il legislatore all'introduzione della disciplina dell'art. 12-bis. In effetti, una volta che si individui nel trattamento di fine rapporto una retribuzione del prestatore d'opera che matura nel corso dell'esecuzione del contratto lavoro - ma che diviene esigibile solo alla cessazione di questo -, riesce difficile giustificare la mancata attribuzione di una quota di tale retribuzione al coniuge che abbia diritto all'assegno di divorzio.
Il fondamento del diritto in questione è, del resto, lo stesso che su cui poggia il riconoscimento dell'assegno divorzile: l'attribuzione patrimoniale risponde, cioè, alle medesime finalità, assistenziale e perequativo-compensativa, cui obbedisce, secondo il noto arresto di queste Sezioni Unite (Cass. Sez. U. 11 luglio 2018, n. 18287), l'assegno in questione. Secondo la detta pronuncia "la funzione assistenziale dell'assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativo-compensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l'autosufficienza, secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell'età del richiedente": in presenza di una condizione di squilibrio economico patrimoniale da ricondurre al sacrificio di aspettative professionali e reddituali basate sull'assunzione di un ruolo all'interno della famiglia e dal conseguente contribuito fattivo alla formazione del patrimonio comune e a quello dell'altro coniuge, "occorre tenere conto di questa caratteristica della vita familiare nella valutazione dell'inadeguatezza dei mezzi e dell'incapacità del coniuge richiedente di procurarseli per ragioni oggettive" (sent. cit., in motivazione, par. 10).
Già i lavori parlamentari della l. 74/1987 attestano il concorrere, nella misura contemplata dall'art. 12-bis l. 898/1970, di una dimensione solidaristica, del tutto coerente con le richiamate finalità, assistenziale e perequativo-compensativa dell'erogazione. Si legge, infatti, nella relazione della Commissione giustizia, che assicurare al coniuge, titolare dell'assegno di mantenimento, una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge dopo la sentenza di divorzio pare "adeguato al rispetto della solidarietà economica che si instaura tra i coniugi durante la convivenza e rispondente alla stessa natura giuridica dell'indennità di liquidazione percepita a seguito della cessazione di un rapporto di lavoro".
Per parte sua, la dottrina ha avuto modo di sottolineare come all'istituto di cui all'art. 12-bis sia riconducibile un elemento assistenziale, specificamente operante nei confronti del consorte economicamente più debole, e un elemento compensativo, ravvisabile nel collegamento tra la partecipazione all'indennità di fine rapporto e il contributo personale ed economico offerto da ognuno dei coniugi alla formazione del patrimonio di ciascuno e alla formazione del patrimonio di entrambi. Tale contributo spiegherebbe, in particolare, l'aspettativa maturata nei confronti degli accantonamenti e delle trattenute obbligatorie operate sulla retribuzione durante il matrimonio e successivamente percepite, sotto forma di indennità di fine rapporto, dal coniuge il cui rapporto di lavoro sia venuto a cessare (tale essendo il momento in cui il relativo diritto giunge a maturazione).
E' da aggiungere che la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla conformità della norma di cui all'art. 12-bis l. 898/1970 alla Carta fondamentale - nella parte in cui la prima, nel fissare l'attribuzione dell'indennità in una misura percentuale fissa e rapportata anche al periodo successivo alla cessazione della convivenza, parrebbe generare un'ingiustificata parificazione di situazioni tra loro molto diverse quanto a durata della convivenza e del periodo di separazione -, ha avuto modo di rilevare che la componente compensativa dell'assegno poggi sulla "considerazione della particolare condizione della donna, che deve assumere su di sé oneri rilevanti in ordine all'assolvimento di compiti di natura domestica e familiare in sostituzione o in aggiunta al lavoro extradomestico, e del pregiudizio che ne consegue rispetto a prospettive di autonomia economica e di affermazione professionale", cogliendosi, in ciò, "il riflesso delle crescenti difficoltà di organizzazione della vita quotidiana e familiare, dei problemi connessi agli oneri del doppio lavoro e della discriminazione di fatto della donna sul terreno professionale: onde una più appropriata considerazione dei vantaggi e delle utilità economiche che l'altro coniuge trae dall'impegno e dalle energie profuse dalla donna nella famiglia" (Corte Cost. 24 gennaio 1991, n. 24, in motivazione, par. 4 del considerato in diritto).
Sulla medesima linea si è attestata la giurisprudenza di questa Corte, la quale, facendo propri i contributi della dottrina e gli approdi della Corte costituzionale, ha avuto modo di osservare come, in definitiva, la ratio dell'art. 12-bis l. 898/1970 debba individuarsi nel "fine di attuare una partecipazione, seppure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi finché il matrimonio è durato, ovvero di realizzare la ripartizione tra i coniugi di un'entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio, così soddisfacendo esigenze (non solo di natura assistenziale, evidenziate dal richiamo alla spettanza dell'assegno di divorzio, ma) anche di natura compensativa, rapportate cioè al contributo personale ed economico dato dall'ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune" (così Cass. n. 28874/2005, in motivazione, ove il richiamo a Cass. 19309/2003).
La giurisprudenza ha chiarito che il periodo di matrimonio da prendere in considerazione per il calcolo della quota di tfr non comprende solo il periodo in cui gli obblighi matrimoniali venivano rispettati. Comprende bensì anche il periodo in cui tali obblighi si sospendono per l'intervento della separazione. La Corte di Cassazione tuttavia nel 2007 con la sentenza n. 15299 ha illustrato la modalità di calcolo della quota: "l'indennità dovuta deve computarsi calcolando il 40% dell'indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro, con riferimento agli anni in cui il rapporto di lavoro coincise con il rapporto matrimoniale: risultato che si ottiene dividendo l'indennità percepita per il numero di anni in cui è durato il rapporto di lavoro, moltiplicando il risultato per il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro sia coinciso con il rapporto di matrimonio e calcolando il 40% su tale importo."
Questa funzione compensativa, destinata a combinarsi, nell'istituto modellato dall'art. 12-bis, con quella assistenziale, si identifica con la funzione perequativo-compensativa, di cui fa appunto parola, in tema di assegno divorzile, Cass. Sez. U. 11 luglio 2018, n. 18287: espressione - quest'ultima - rispondente all'esigenza di meglio descrivere l'elemento di riequilibrio verso cui è proiettata l'attribuzione patrimoniale di portata compensativa, la quale, nella logica della richiamata pronuncia, è appunto deputata a porre rimedio a quella disparità delle condizioni economico-patrimoniali che discende dalle comuni determinazioni assunte dai coniugi nella conduzione della vita familiare.
Sarebbe ben difficile dissociare le nominate funzioni - assistenziale e perequativa-compensativa - dell'assegno di divorzio dalle funzioni cui deve assolvere la quota dell'indennità di cui all'art. 12-bis.
E' sufficiente guardare al disegno legislativo: questo, assegnando sic et simpliciter la quota di indennità al coniuge, non passato a nuove nozze, che sia già titolare dell'assegno di divorzio, si basa su di un chiaro presupposto: quello per cui le due attribuzioni patrimoniali sono dirette al conseguimento dei medesimi risultati. Diversamente, l'automatismo contemplato dall'art. 12-bis non avrebbe ragion d'essere e la norma avrebbe previsto un nuovo apprezzamento di merito da parte del giudice chiamato a pronunciarsi sulla spettanza dell'indennità.
Da un diverso angolo prospettico è possibile cogliere un dato ulteriore, che conferma quanto si è appena osservato. In una situazione segnata dallo squilibrio determinato dal sacrificio delle ragionevoli aspettative economiche che è alla base del riconoscimento del diritto all'assegno divorzile appare pienamente giustificato tener conto anche di quella porzione reddituale maturata nel corso del rapporto e accantonata periodicamente per divenire esigibile al momento della cessazione dello stesso, giacché essa pure integra un incremento conseguito attraverso il contributo prestato dal coniuge che ha sopportato il detto sacrificio. Ove quella retribuzione differita restasse a totale beneficio del soggetto cui è erogata, il rischio di uno sbilanciamento ingiustificato tra le posizioni patrimoniali dei coniugi si riproporrebbe proprio con riguardo all'incremento reddituale in questione, il quale è maturato in costanza del matrimonio ed è divenuto esigibile solo dopo lo scioglimento di esso. Ebbene, il legislatore pone rimedio a tale inconveniente, riconoscendo al consorte che ha diritto all'assegno di divorzio la spettanza di una quota fissa dell'indennità consistente nella nominata retribuzione differita; ed è significativo, in proposito, che tale quota incida sull'indennità totale limitatamente "agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio": al periodo, cioè, in cui la retribuzione del soggetto tenuto al pagamento dell'assegno ha "concorso" a determinare lo squilibrio post-matrimoniale.
Sull'argomento coglie dunque nel segno il rilievo del Pubblico Ministero, secondo cui il trattamento di fine rapporto è un indice del livello reddituale raggiunto dall'ex coniuge sicché, ove tale livello reddituale dipenda anche dal sacrificio individuale dell'altro coniuge, non vi sarebbe ragione di non considerarlo quale fonte di una provvidenza a favore di quest'ultimo.
La formulazione della norma riflette la scelta del legislatore di non riservare la disciplina dell'art. 12-bis alla sola ipotesi della percezione del trattamento di cui al cit. art. 2120. Al contempo, il fatto che l'indennità in questione sia definita attraverso lo stesso elemento predicativo che connota, sul piano lessicale, il trattamento di fine rapporto lascia intendere che la norma non si riferisca a tutte le prestazioni cui il lavoratore ha diritto in dipendenza della cessazione del contratto, ma solo a quelle che obbediscono alla logica cui risponde il trattamento di fine rapporto. Cospira al medesimo risultato la composita funzione dell'attribuzione patrimoniale, insieme assistenziale e perequativo-compensativa, dell'indennità stessa: rispetto alla finalità di porre rimedio a quello sbilanciamento delle situazioni economiche dei coniugi che è stato determinato dalla ripartizione dei ruoli all'interno della vita familiare è del tutto coerente uno strumento che operi la ridistribuzione di una parte dei redditi maturati nel corso del rapporto matrimoniale (come le quote di corrispettivo oggetto di accantonamento, divenute esigibili nel momento in cui il contratto di lavoro viene ad estinguersi): non anche ogni diversa misura priva di correlazione con la pregressa vita coniugale, e destinata a beneficiare il lavoratore nel periodo che segue lo scioglimento del vincolo.
L'istituto di cui all'art. 12-bis l. 898/1970 si applica a tutte quelle indennità, comunque denominate, che maturano alla data di cessazione del rapporto lavorativo e che sono determinate in misura proporzionale alla durata del rapporto di lavoro e all'entità della retribuzione corrisposta, qualificandosi come quota differita della retribuzione condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro (Cass. 19309/2003; cfr. pure Cass. 5720/2003, secondo cui la quota dell'indennità di fine rapporto ha per l'appunto riguardo a quella parte della retribuzione, destinata al sostegno del nucleo durante la convivenza dei coniugi, percepita in forma differita). Come chiarito dalla stessa giurisprudenza di legittimità, al fine di stabilire se una determinata attribuzione in favore del lavoratore rientri o meno fra le indennità di fine rapporto contemplate dall'art. 12-bis, cit. non è nemmeno determinante il carattere strettamente o prevalentemente retributivo della stessa, essendo decisivo, piuttosto, il correlarsi dell'attribuzione - fermi, ovviamente, gli altri presupposti stabiliti dalla legge - all'incremento patrimoniale prodotto, nel corso del rapporto, dal lavoro del coniuge che si è giovato del contributo indiretto dell'altro (Cass. 28874/2005, cit., con cui si è ritenuto che la norma più volte citata ricomprenda le indennità di risoluzione del rapporto di agenzia, senza che rilevi la circostanza che le stesse siano parametrate all'incremento del monte-premi, agli incassi e alle provvigioni e che non abbiano carattere prevalentemente retributivo).
Il criterio sopra indicato opera come spartiacque tra ciò che il coniuge beneficiario dell'assegno di divorzio può pretendere e ciò che lo stesso non può, invece, esigere, a mente dell'art. 12-bis cit.
E così, sono da ritenere incluse nella richiamata disciplina le indennità di fine rapporto spettanti ai dipendenti pubblici che pure consistono in quote differite della retribuzione, suscettibili di esazione dopo l'estinzione del rapporto di lavoro (cfr. infatti la cit. Cass. 19309/2003, con riguardo all'"indennità premio di servizio" erogata, in passato, dall'(...)) e le indennità, egualmente concepite, riferite ai rapporti di lavoro parasubordinato (cfr. la cit. Cass. 28874/2005).
Vi esulano, invece, le prestazioni private di natura previdenziale e assicurativa, come l'indennità di cessazione dal servizio corrisposta ai notai (Cass. 5720/2003, cit.), l'indennità da mancato preavviso per licenziamento in tronco e l'indennità percepita a titolo di risarcimento del danno per illegittimo licenziamento, le quali hanno ad oggetto il ristoro di un danno le cui conseguenze si sviluppano de futuro, mentre l'indennità di fine rapporto opera de praeterito, rappresentando parte della retribuzione dovuta al lavoratore (così, ancora, Cass. 19309/2003, cit., in motivazione: la sentenza pare evocare sul punto un arresto della giurisprudenza di merito riferita al risarcimento del danno percepito dal lavoratore per l'illegittimo licenziamento).
E' evidentemente estranea all'indicata nozione di indennità di fine rapporto anche l'indennità di incentivo all'esodo. Come è stato condivisibilmente osservato (Cass. 3294/1997, cit., in motivazione), tale indennità non opera quale retribuzione differita, sicché è da escludere la conseguente necessità di farne partecipe il coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sotto forma di assegno divorzile. In effetti, tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, onde non trova fondamento giustificativo l'apprensione di una quota di essa da parte del coniuge che ha diritto alla percezione dell'assegno di divorzio: l'esigenza di assicurare, in chiave assistenziale e perequativo-compensativa, una ripartizione dei redditi maturati nel corso del matrimonio qui non ricorre, proprio in quanto non si è in presenza di proventi accantonati nel corso della vita coniugale e divenuti esigibili al cessare del rapporto lavorativo; si è piuttosto al cospetto di un'attribuzione patrimoniale discendente da un sopravvenuto accordo con cui si remunera il coniuge lavoratore per il prestato consenso all'anticipato scioglimento del rapporto di lavoro.
Data: 28/02/2025 07:00:00Autore: Matteo Santini