Il risarcimento dei migranti a bordo della nave Diciotti

I fatti
Quaranta migranti eritrei hanno impugnano in Corte d'appello l'ordinanza del 9.07.2019 con cui il Tribunale di Roma aveva dichiarato la carenza di giurisdizione dei comportamenti censurati per essere di natura prettamente politica.
La sentenza n. 1803/2024 della Corte d'Appello di Roma, pur ritenendo sussistente la giurisdizione ordinaria, in quanto trattasi non di un atto politico, ma di un atto amministrativo, pienamente sindacabile, ha tuttavia respinto nel merito la domanda in difetto della colpa della pubblica amministrazione (non documentata dai ricorrenti e comunque in mancanza di allegazione e prova del danno).
Ricorre in Cassazione un solo migrante con un unico motivo denunciando la violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. e dei diritti costituzionali a presidio della libertà personale, al fine di ottenere il riconoscimento del risarcimento per i danni non patrimoniali patiti in occasione dell'illegittima restrizione della libertà avvenuta a bordo della nave della Guardia Costiera "U. Diciotti", dal 16/08/2018 al 25/08/2018: nei primi quattro giorni a causa del mancato consenso all'attracco della nave nei porti italiani; nei successivi sei giorni, una volta permesso l'attracco nel porto di Catania, per il mancato consenso allo sbarco sulla terra ferma.
Con decreto del 10 ottobre 2024, la decisione è stata rimessa alle Sezioni Unite per decidere sulla censura in punto di giurisdizione sollevata dall'Avvocatura dello Stato.
La giurisdizione
Nel rigettare la tesi del governo, il supremo consesso non ritiene che nei comportamenti indicati a fondamento della pretesa risarcitoria possano ravvisarsi i tratti tipici dell'atto politico, escludendo che sussistano sia il requisito soggettivo (l'atto deve provenire da un organo preposto all'indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello) che oggettivo (l'atto deve essere libero nel fine perché riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici).
Osserva inoltre, che l'azione del Governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati.
Per la Corte, in assenza di un parametro giuridico alla politica, il sindacato deve arrestarsi, in quanto per statuto costituzionale, il giudice non può essere chiamato a fare politica in luogo degli organi di rappresentanza, ammettendo inoltre che il giudice, quale che sia il plesso di appartenenza, è non solo rispettoso degli ambiti di attribuzione dei poteri, ma anche garante della legalità.
Alla luce di queste premesse viene escluso che il rifiuto dell'autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale. Ciò perché– prosegue la decisione - non rappresenta un atto libero nel fine, come tale riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici concernenti la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione, precisando che le motivazioni politiche alla base della condotta non ne snaturano la qualificazione e non rendono, perciò politico un atto che è, e resta, ontologicamente amministrativo.
L'obbligo di soccorso in mare
Diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d'appello, non vi è incertezza delle norme internazionali che regolano la materia dello sbarco a seguito di operazioni di soccorso marittimo. Nella vicenda in esame occorre considerare che: a) l'obbligo del soccorso in mare corrisponde ad una antica regola di carattere consuetudinario, rappresenta il fondamento delle principali convenzioni internazionali, oltre che del diritto marittimo italiano e costituisce un preciso dovere tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o persona in pericolo; b) come tale, deve considerarsi prevalente su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell'immigrazione irregolare; c) tale obbligo trova una più dettagliata enunciazione nella Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, nella Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare e in altre leggi nazionali; c) a tal fine, ciascuno Stato membro è tenuto a dotarsi di un Centro nazionale di coordinamento delle attività di soccorso, onde «garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare… senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata" e di «fornirle le prime cure mediche o di altro genere» e di «trasferirla in un luogo sicuro»; d) è previsto un dovere di attivazione sussidiario in capo agli Stati che ne sono parte, nel senso che la mancata attivazione dello Stato competente impone agli altri Stati di collaborare per supplire alle necessità dei naufraghi e per portarli in salvo, e ciò a prescindere dalla nazionalità della nave che opera il salvataggio e, dunque, dai doveri dello Stato di bandiera.
Alla luce di tale quadro normativo, si rivela destituita di fondamento la premessa da cui muove la Corte d'appello, in ordine all' «assenza di regole chiare circa l'individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo», dal momento che le operazioni di soccorso erano state di fatto assunte sotto la responsabilità di una autorità SAR italiana, la quale era tenuta in base alle norme convenzionali a portarle a termine, organizzando lo sbarco, «nel più breve tempo ragionevolmente possibile».
Non può dubitarsi perciò che la mancata tempestiva indicazione del POS (Place of Safety), unitamente alla decisione di non far scendere i 177 migranti per cinque giorni sebbene la nave fosse già ormeggiata nel porto di Catania, costituisca una chiara violazione della predetta disciplina.
Risarcimento
Venendo alla domanda concernente la responsabilità del governo, giova rammentare che la libertà personale trova ampia tutela non solo nell'art. 13 Cost. quale diritto inviolabile della persona, ma anche in altre fonti internazionali (fra cui, art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 1948; art. 5 CEDU).
Orbene, sulla scorta di tale assetto legislativo, la Suprema Corte ha ravvisato che, in mancanza di un provvedimento di privazione della libertà personale per la particolare ipotesi di arresto o detenzione o di un procedimento di espulsione o di estradizione, sussiste la violazione dei citati principi.
Pertanto - prosegue la Corte – escluso che il trattenimento a bordo della nave costiera di migranti non ancora compiutamente identificati (e potenzialmente titolari del diritto di asilo ex art. 10, terzo comma, Cost.) possa essere inquadrato nell'ambito di procedimenti di espulsione o di estradizione, non può nemmeno ipotizzarsi che detto trattenimento possa trovare copertura sovranazionale quale misura (assimilabile all'arresto o alla detenzione regolare) finalizzata a impedire l'ingresso illegale nel territorio.
Analogamente, l'insussistenza di un provvedimento giudiziario o di una successiva convalida delle scelte governative è di per sé sufficiente ad affermare l'arbitrarietà del trattenimento dei migranti.
Ne discendono non marginali ricadute applicative anche sul diritto, di cui all'art. 5 par. 4 della CEDU, a presentare ricorso ad un tribunale per contestare la legittimità della misura restrittiva e ottenerne, in caso di illegittimità, l'immediata cessazione. L'insussistenza di disposizioni mirate a tipizzare una peculiare ipotesi di trattenimento e la mancanza di un provvedimento individuale, motivato e notificato, escludono infatti la possibilità di assicurare, nell'immediato, un controllo giurisdizionale sui requisiti giustificativi della misura.
Risulta così integrata la lesione del diritto («inviolabile») alla libertà personale ex art. 13 Cost., cagionata a causa dell'illegittimo trattenimento a bordo della nave "U. Diciotti", con conseguentemente risarcimento dei danni non patrimoniali.
Nè, su tale conclusione incide il voto del Senato circa l'autorizzazione a procedere nei confronti dell'allora Ministro dell'Interno richiesta dal Tribunale dei Ministri di Catania per il reato di sequestro di persona pluriaggravato, posto che tale procedura regola l'aspetto esclusivamente penalistico. In altre parole, dalle motivazioni, se principio cardine di uno Stato costituzionale di diritto è la giustiziabilità di ogni atto lesivo dei diritti fondamentali della persona, ancorché posto in essere dal Governo e motivato da ragioni politiche, la sottrazione dell'agire politico a tale sindacato non può che costituirne l'eccezione, e attenere, dunque, solo alla responsabilità penale.
La sentenza ritiene, perciò, sussistente il diritto al risarcimento derivante da responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. anche in relazione alla rilevata insussistenza di prova di un danno-conseguenza, affermando che la prova delle conseguenze patite ben può essere offerta anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti e che, conseguentemente, in ipotesi di restrizione della libertà personale, quale quella in esame, è consentito il ricorso ad un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ferma restando la non applicabilità di un danno in re ipsa, e che in tali casi non è richiesto un onere probatorio ampio.
Conclusioni
Respinto, infine, il secondo motivo dell'Avvocatura dello Stato con cui denunciava il difetto di legittimazione attiva degli appellanti sulla scorta che «non [è] dato sapere se gli odierni ricorrenti siano o meno realmente i naufraghi coinvolti nella vicenda della "U. Diciotti"» non essendo stata «allegata e prodotta alcuna documentazione da cui poter evincere tale circostanza»), le Sezioni Unite decidono di accogliere il ricorso, rinviando la causa alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, per provvedere sulla liquidazione del danno e sulle spese del giudizio di legittimità.
Data: 12/03/2025 07:00:00Autore: Cristina Malavolta