Bocciato dalla Consulta il cd. pacchetto sicurezza 2008, nella parte in cui, aumenta i poteri di sindaci di adottare, anche fuori dai casi di "contingibilità e urgenza" provvedimenti a contenuto normativo e con efficacia a tempo indeterminato. Con la sentenza n.115 del 2011, la Corte, investita della questione su ordinanza proposta dal Tar Veneto, ha accolto la questione di legittimità costituzionale, dichiarando l'illegittimità dell'art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125), per violazione degli articoli. 3, 23 e 97 Cost. Perché è stata dichiarata incostituzionale. "Questa Corte - spiegano i quindici giudici costituzionali - ha affermato in più occasioni, l'imprescindibile necessità che in ogni conferimento di poteri amministrativi venga osservato il principio di legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto. Tale principio non consente «l'assoluta indeterminatezza» del potere conferito dalla legge ad una autorità amministrativa, che produce l'effetto di attribuire, in pratica, una «totale libertà» al soggetto od organo investito della funzione (sentenza n. 307 del 2003; in senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 32 del 2009 e n. 150 del 1982)" La Corte ha richiamato l'art. 23 Cost. precisando che "la Costituzione italiana, ispirata ai principi fondamentali della legalità e della democraticità, richiede che nessuna prestazione, personale o patrimoniale, possa essere imposta, se non in base alla legge (art. 23)". Si deve ritenere che la norma censurata - hanno continuato i giudici delle leggi - "nel prevedere un potere di ordinanza dei sindaci, quali ufficiali del Governo, non limitato ai casi contingibili e urgenti (…) viola la riserva di legge relativa, di cui all'art. 23 Cost., in quanto non prevede una qualunque delimitazione della discrezionalità amministrativa in un ambito, quello della imposizione di comportamenti, che rientra nella generale sfera di libertà dei consociati. Questi ultimi sono tenuti, secondo un principio supremo dello Stato di diritto, a sottostare soltanto agli obblighi di fare, di non fare o di dare previsti in via generale dalla legge". La Corte ha, da ultimo, richiamato gli artt. 97 ("l'imparzialità dell'amministrazione non è garantita ab initio da una legge posta a fondamento, formale e contenutistico, del potere sindacale di ordinanza") e 3 della Costituzione. "L'assenza di una valida base legislativa, - ha affermato - riscontrabile nel potere conferito ai sindaci dalla norma censurata, così come incide negativamente sulla garanzia di imparzialità della pubblica amministrazione, a fortiori lede il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, giacché gli stessi comportamenti potrebbero essere ritenuti variamente leciti o illeciti, a seconda delle numerose frazioni del territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di competenza dei sindaci. Non si tratta, in tali casi, di adattamenti o modulazioni di precetti legislativi generali in vista di concrete situazioni locali, ma di vere e proprie disparità di trattamento tra cittadini, incidenti sulla loro sfera generale di libertà, che possono consistere in fattispecie nuove ed inedite, liberamente configurabili dai sindaci, senza base legislativa, come la prassi sinora realizzatasi ha ampiamente dimostrato". Tale disparità di trattamento, "se manca un punto di riferimento normativo che per valutarne la ragionevolezza, integra violazione dell'art. 3, primo comma, Cost. in quanto consente all'autorità amministrativa - nella specie dei sindaci - restrizioni diverse e variegate, frutto di valutazioni molteplici, non riconducibili ad una matrice legislativa unitaria". "Un giudizio sul rispetto del principio generale di eguaglianza - hanno poi concluso i giudici di Palazzo della Consulta - non è possibile se le eventuali differenti discipline di comportamenti, uguali o assimilabili, dei cittadini, contenute nelle più disparate ordinanze sindacali, non siano valutabili alla luce di un comune parametro legislativo, che ponga le regole ed alla cui stregua si possa verificare se le diversità di trattamento giuridico siano giustificate dalla eterogeneità delle situazioni locali".
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