"L'art. 7 legge 20 maggio 1970 n. 300, il quale subordina la legittimità del procedimento di irrogazione della sanzione disciplinare alla previa contestazione degli addebiti, al fine di consentire al lavoratore di esporre le proprie difese in relazione al comportamento ascrittogli, pur non comportando per il datore di lavoro un dovere autonomo di convocazione del dipendente per l'audizione orale, ma solo un obbligo correlato alla manifestazione tempestiva (entro il quinto giorno) del lavoratore di voler essere sentito di persona (sicchè nel giudizio il lavoratore ha l'onere di provare la sua tempestiva richiesta, costituente elemento costitutivo a lui favorevole della fattispecie procedimentale), presuppone tuttavia che il datore di lavoro gestisca il potere disciplinare secondo i principi di correttezza e buona fede e, quindi, con modalità tali da non generare equivoci nel dipendente cui si riferisce la contestazione". Tale principio di diritto è stato ribadito dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 21485 del 18 ottobre 2011, ha confermato la sentenza della Corte d'Appello che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento attuato da un'azienda nei confronti di una dipendete dopo una sua violazione di carattere disciplinare. La Corte d'Appello aveva ritenuto illegittimo il comportamento della società poiché quest'ultima aveva proceduto al licenziamento senza dare seguito alla richiesta della lavoratrice di un rinvio della convocazione chiesta dalla lavoratrice e considerando anche i tempi ristretti previsti dalla convocazione stessa pervenuta sabato 3 dicembre per la mattina del 5 dicembre o per il giorno successivo 6 dicembre, mentre la lavoratrice aveva chiesto un rinvio a data successiva al 13 dicembre. La Suprema Corte, sottolineando che la normativa vigente subordina la legittimità del procedimento di irrogazione di una sanzione disciplinare ad una contestazione degli addebiti da parte del lavoratore in modo da consentirgli di esporre le sue difese in relazione al comportamento contestato, ha ritenuto non corretto e in buona fede il comportamento del datore di lavoro come affermato dal giudice d'appello con giudizio logico e congruo non censurabile in sede di legittimità.
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