"Non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero illecito civile, la condotta del datore di lavoro che ha omesso di versare al cessionario la quota di retribuzione dovuta al lavoratore e da questo ceduta al terzo". Questo il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 37954 del 20 ottobre 2011, hanno assolto un datore di lavoro, condannato, in qualità di legale rappresentante di una società, nei primi due gradi di giudizio per essersi appropriato, per cinque mesi consecutivi, del denaro che una dipendente aveva ceduto pro solvendo a seguito di un prestito erogatole da una banca, anche se tale somma era stata fatta figurare in busta paga. Le Sezioni Unite hanno precisato che, non ricorrendo alcuna ipotesi di conferimento di denaro ab externo, il mero inadempimento ad opera del datore di lavoro dell'obbligazione di retribuire, con il proprio patrimonio, il dipendente e di far fronte per esso o in sua vece agli obblighi fiscali, retributivi o previdenziali, non integra la nozione di appropriazione di denaro altrui richiesta per la configurazione del delitto di cui all'art. 646 cod.pen. Conseguentemente non può ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia ad obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo. Sottolineano i giudici di legittimità che nella fattispecie concreta fa difetto l'elemento dell'altruità del bene, cotitutivo della fattispecie di appropriazione indebita, poiché al datore di lavoro è stato contestato d'esseresi appropriato di denaro altrui ("di pertinenza della dipendente") ma sull'erroneo presupposto che le somme da lui trattenute, come datore di lavoro, dallo stipendio della lavoratrice dovessero per ciò solo considerarsi trasferite in proprietà di questa.
vedi anche:
Appropriazione indebita: guida legale
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