In tema di licenziamenti collettivi, la disciplina prevista dalla legge 23 luglio 1991, n. 223, ha portata generale ed è obbligatoria anche nell'ipotesi in cui, nell'ambito di una procedura concorsuale, risulti impossibile la continuazione dell'attività aziendale e, nelle condizioni normativamente previste, si intenda procedere ai licenziamenti. E' quanto affermato nella sentenza n. 23665 dell'11 novembre 2011 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione che ha stabilito l'illegittimità del licenziamento intimato ad una lavoratrice dalla curatela del fallimento che non ha attuato la procedura prevista dall'articolo 24 della legge 223 del 1991 attuativa della comunitaria 75/129 CEE. La Suprema Corte, richiamando una sentenza della Corte Costituzionale che rileva come alla materia dei licenziamenti collettivi è dedicata la direttiva comunitaria 75/129/CEE alla quale è stata data attuazione nell'ordinamento interno con la legge 23 luglio 1991, n. 223, il cui art. 24 regola il licenziamento collettivo conseguente a riduzione o trasformazione di attività o di lavoro o cessazione dell'attività, afferma che la L. 223/91 risulta applicabile anche nell'ambito delle procedure concorsuali. I Giudici di legittimità precisano poi che "dopo il fallimento l'azienda, nella sua unitarietà sopravvive e, nel suo ambito, anche il rapporto di lavoro; sopravvivenza che, non condizionata al materiale esercizio dell'attività imprenditoriale, sussiste anche nell'ipotesi in cui, a seguito della cessazione dell'attività aziendale, sia impossibile la materiale reintegrazione nel posto di lavoro. Questa perdurante vigenza del rapporto, pur in uno stato di quiescenza, rende ipotizzabile la futura ripresa dell'attività lavorativa, per iniziativa del curatore o con successivo provvedimento del tribunale fallimentare o con la cessione dell'azienda o con la ripresa dell'attività lavorativa da parte dello stesso datore a seguito di concordato".
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