La legislatura si esprime in modo piuttosto blando e spesso per nulla chiaro in tema mobbing. Questo per quanto riguarda un'analisi generale e globale: in Italia è possibile godere di un sistema giudiziario che punta il dito con atteggiamento molto severo verso i casi di violenza psico-fisica in ambito lavorativo ed affini. Il problema deriva invece dalla mancanza di una pena che sia equa e calibrata a secondo della gravità delle dinamiche che si analizzano, in quanto il reato stesso di mobbing è riconosciuto più come un'aggravante del caso di molestia sul lavoro rispetto a godere di una propria certificazione. A questo proposito sono molteplici le sentenze emanate durante la risoluzione di alcuni casi molto complessi, cui si fa riferimento tuttora per la lotta al mobbing. Apparentemente la maggior parte delle sentenze che regolano la risoluzione dei casi di mobbing proviene dalla Corte di Cassazione, non perché effettivamente maggiori numericamente, ma per il semplice motivo che hanno risalto mediatico superiore, trattandosi spesso di sentenze che riguardano personaggi famosi o eventi di particolare interesse per le testate di gossip. Mobbing lavorativo - Mobbing e dimissioni, 29 giugno 1998 Si tratta della presentazione di una domanda di dimissioni da parte di un dipendente delle Poste Italiane. Dopo aver sopportato svariati periodi di abuso psicologico da parte del proprio ente di lavoro, la vittima cade in uno stato di profonda depressione accompagnato da senso d'inadeguatezza che la porta ad allontanarsi dall'azienda. Dato l'enorme quantitativo di stress mentale cui era sottoposta quotidianamente, la parte mobbizzata è quindi ritenuta incapace di intendere e di volere in seguito a gravi danni riportati dalla sua psiche durante il periodo di mobbing lavorativo. Ne consegue che la sua lettera di dimissioni è da considerarsi non valida con obbligo immediato di riassunzione, oltre al versamento di un compenso da stabilire che sia equo a quanto perso dalla vittima stessa. Tale situazione è da considerarsi ulteriormente aggravata dalla mentalità del datore di lavoro, consapevole degli atti di sopruso perpetrati ai danni del dipendente dei quali ha ampiamente approfittato per acconsentire alle sue dimissioni. Inoltre, era a conoscenza dello status del lavoratore e che non si sarebbe potuto qualificare a un successivo pensionamento, e delle sorti lavorative del coniuge che da mesi versava in stato di disoccupazione. Mobbing e lavoro - Sentenza n.7382 del 2010 Riepilogo di quanto espresso finora dalla Corte di Cassazione in tematiche di mobbing lavorativo. Il tutto è ricondotto all'articolo 2087 c.c. che definisce il sopruso in ambito lavorativo come una violazione degli obblighi che spettano al datore di lavoro nei confronti dei suoi dipendenti, in merito ad atteggiamenti che mirino a ledere l'integrità psico-fisica dell'individuo al fine di emarginarlo dal gruppo o di non renderlo partecipe alle attività aziendali oltre che possibilità di crescita lavorativa. Il tutto volto alla mortificazione del soggetto. Al fine di determinare una giusta pena per la parte mobbizzante, sono rilevanti alcuni aspetti di particolare rilievo tra cui sono annoverati la molteplicità degli avvenimenti che hanno condotto ad atti di mobbing con relative prove che essi siano realmente avvenuti in una situazione lavorativa. La prova che garantisce il comportamento nocivo da parte della parte accusata è di notevole importanza e spesso accompagnata da testimonianze di supporto da parte di colleghi. Il caso cui si fa riferimento in questa sentenza riguarda un episodio del 1995 in cui un lavoratore è soggetto di molestie psico-fisiche, abusi sul posto di lavoro, emarginazione dal resto delle forze aziendali e umiliazione. In sede decisionale non è ignorato che alla vittima sia stato prestato in comodato un appartamento da parte del datore di lavoro stesso, ma ciò non costituisce un elemento da chiamare in causa per una riduzione della pena. Mobbing e lavoratori dipendenti, Cass.17778 del 2009 (30 Luglio) Il mobbing è identificato come un'estensione della violazione di obblighi cui è soggetto il datore di lavoro. Inadempimento a tali obblighi comporta non solo il diritto a un equo risarcimento da parte della vittima ma anche a una pena di carattere variabile prevista per le alte qualifiche aziendali, che saranno soggette a un processo che si prefigge di identificare l'entità delle loro azioni e il reale intento di umiliare ed emarginare il mobbizzato. Si fa riferimento ad Art.41 della Costituzione che definisce i poteri disciplinari e la loro natura. Nel caso di un mancato esercizio dei propri obblighi non imputabile al datore di lavoro per effettive cause di forza maggiore, il vertice aziendale ricopre le veci del debitore e si dovrà accertare in sede il suo grado di colpa. Corte di Appello di Catanzaro Cass.17778 del 2009 (Settembre) Inquadramento dei pubblici dipendenti in qualifiche o posizioni funzionali superiori. Sentenza che supporta quanto stabilito dalla Corte di Cassazione in materia di collocamento disciplinare e tende a monitorare l'inserimento di un dipendente nel quadro lavorativo. Il posto da ottenere nella pianta organica di una pubblica amministrazione è così soggetto a bandi di concorso (argomento per altro ripreso nell'Art. 97 Cost.) Da notare come questo caso faccia riferimento a un processo durante il quale è accolto dalla giuria esaminatrice tale secondo motivo di ricorso concludendosi con un rimborso totale delle spese sostenute in processo dalle parti. Il mobbing lavorativo è quindi disciplinato come conseguenza diretta di una posizione in ambiente lavorativo (privato oppure per enti pubblici) e risarcito secondo i provvedimenti previsti in tale ambito dalla legislatura. Licenziamento ingiurioso - Cass.6845 del 2010 (22 Marzo) Il licenziamento mirato a ledere la salute psico-fisica del dipendente con carattere aggressivo e non giustificato deve dare luogo a un risarcimento del danno nei confronti della vittima, al fine di coprire il danno biologico e morale che le è stato perpetrato in seguito ad una riduzione della sua importanza in ambito lavorativo ed atti che avevano come fine ultimo quello di mutilare la sua dignità. Interpretato nei modi del recesso datorile. Le spese di questo giudizio di cassazione sono rimborsate alle parti dopo un atto unificatorio da parte della Corte riguardo il ricorso principale, al quale viene in seguito assorbito quello incidentale rigorosamente provato. Sentenza del Tribunale di Vicenza - Cass.7045 del 2010 (24 Marzo) La giurisprudenza di tale Corte afferma a più riprese come il licenziamento intimato ai danni del lavoratore che sia giustificato tramite inadempimento degli obblighi lavorativi, mancata prestazione o per qualsiasi episodio affine debba essere inteso come richiesta di dimissioni forzata e derivante da motivi di natura puramente disciplinare. È citato in causa l'art.7 della legge n.300 del 1970 che disciplina contestazione dell'addebito e del diritto di difesa da parte del lavoratore in caso di licenziamento, nel momento in cui esso sia accompagnato da motivazioni di carattere disciplinare o che possa in qualche modo evidenziare la condotta colposa del dipendente verso l'azienda. L'atto di mobbizzazione è quindi riconosciuto ufficialmente ma richiede sufficienti prove (ed eventuali fonti o testimonianze) che possano discolpare il lavoratore stesso da accuse di mancato impegno perpetrato sul posto di lavoro.
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